martedì 7 maggio 2013

left n. 13, 6 aprile 2013

Crescere non basta
Ernesto Longobardi, Anna Pettini, Andrea Ventura
A cosa serve produrre e consumare merci se non migliora la qualità della vita? Un convegno a Firenze prova a rispondere a questa domanda. Alla ricerca di un’economia della felicità. Che rimetta al centro l’uomo. Non il PIL
Dall’esplosione della crisi del 2008 la stampa e la letteratura specialistica lamentano il fatto che la crescita, nei Paesi a più vecchia industrializzazione e nel nostro in particolare, ristagna e non riesce a garantire lavoro per tutti. Al contempo sono sempre più diffuse le preoccupazioni circa gli effetti negativi sull’ambiente causati dalla crescita stessa e ci si richiama alla necessità che essa sia orientata in modo non soltanto “quantitativo”.
Ma, nonostante l’evidente contraddizione tra la necessità della crescita e la consapevolezza che essa presenta aspetti distruttivi, di fatto si continua a ragionare quasi esclusivamente in termini di breve e brevissimo periodo, di urgenze, di come coprire questo o quel rischio di collasso, dando per scontato che tutto ciò che serve è tornare a crescere. Le politiche economiche di cui si discute si mantengono in grandissima parte su questo piano. Si può ipotizzare che ciò avvenga anche perché manca una visione alternativa e un confronto approfondito tra concezioni dell’economia, della società e dello sviluppo umano, sia sul piano della cultura sia su quello politico e della letteratura specialistica.
È ovvio che il malessere sempre più diffuso provocato dalla crisi, evidente e tangibile in termini di impoverimento, incertezza e insicurezza sociale, chiede interventi di veloce applicazione. Un po’ meno evidente l’osservazione che ripristinare lo stato pre crisi lascerebbe irrisolte sofferenze non meno importanti e sottolineate da più di dieci anni da un numero sempre crescente di economisti che si interessano di “economia della felicità”, ovvero di tutti i temi collegati al declino oggettivo e soggettivo della “qualità della vita”.
Quali sono le cause dell’impoverimento qualitativo? Di volta in volta le risposte si concentrano su aspetti diversi dello stesso problema: gli stili di vita e i ritmi di lavoro di chi vive nelle grandi città dei Paesi a economia avanzata provocano un continuo allentamento della socialità e questo si accompagna a standard di consumo sempre più orientati all’accumulo quantitativo. I beni gratuiti vengono continuamente sostituiti con beni commerciabili e questo alimenta il circolo vizioso: per acquistare più cose c’è bisogno di maggior reddito, dunque di lavorare di più e ciò diminuisce il tempo a disposizione per autoprodurre le merci e godere dei beni relazionali. Insomma, le logiche di mercato, se non opportunamente arginate, alimentano comportamenti asociali in nome dell’efficienza produttiva.
Ricorre, negli studi, il riferimento all’immagine del tapis roulant, per descrivere i vissuti individuali di obiettivi di vita sempre ugualmente lontani nonostante la corsa incessante e così spiegare l’impossibilità di raggiungere la felicità. Questi argomenti vengono utilizzati anche da organizzazioni internazionali come l’Organizzazione mondiale per la sanità e la commissione europea per gli Affari sociali, per interpretare la crescente diffusione della depressione e l’uso assai diffuso e crescente di psicofarmaci.
Sul Journal of economic literature, prestigiosa rivista internazionale, possiamo leggere la seguente affermazione: «Si fa presto a parlare della teoria che sta dietro agli indicatori sociali alternativi al Pil, perché ce n’è pochissima». Le definizioni e i confronti tra indicatori, sostiene l’autore dell’articolo (Fleurbaey, 2009), si basano su convenzioni o su proposizioni etiche. Avere poca teoria per parlare di alternative al Pil, dunque per parlare di criteri di valutazione dell’economia e della qualità della vita, significa non avere categorie interpretative della realtà, né basi di confronto su cui sviluppare le politiche di sviluppo.
Eppure da tempo un numero sempre maggiore di economisti si interessano dei tanti aspetti umani e sociali trascurati dalla teoria tradizionale e dai sistemi economici da essa creati. Quindi forse si dovrebbe dire che non è così vero che esiste pochissima teoria. Piuttosto ciò che esiste è frammentato in tante piccole nicchie di studio ancora isolate fra loro e che per questo non riescono a proporsi con forza sufficiente. Con l’obiettivo di accostare e porre a confronto le riflessioni di alcuni studiosi appartenenti a tali nicchie e con impostazioni di ricerca solo apparentemente lontane, venerdì 12 aprile, presso il Polo delle Scienze sociali di Firenze, si terrà una giornata di lavoro organizzata per riflettere su alcuni temi che incidono sul modello di sviluppo delle società occidentali.
Come riferimento iniziale, è stato scelto il noto saggio di J.M. Keynes Possibilità economiche per i nostri nipoti. Nel 1930 Keynes vedeva, a dispetto della recentissima crisi economica di allora, i segni di una possibile soluzione del problema economico: l’enorme tasso di crescita delle economie occidentali avrebbe a suo avviso portato l’umanità, nel giro di cento anni, ad affrancarsi dalla lotta per la sopravvivenza.
Nonostante Keynes centrasse tutto il suo ragionamento sull’Occidente e trascurasse i popoli rimasti fuori dall’industrializzazione, il suo saggio coglie un punto importante: cosa comporta il fatto che la lotta per la sopravvivenza, sempre pressante per la nostra specie, possa un giorno essere risolta, e che l’umanità si ritrovi priva del suo obiettivo più tradizionale? «Sarebbe un bene?», si chiede Keynes. «Per la prima volta dalla creazione, l’uomo si troverà ad affrontare il problema più serio [..] come sfruttare la libertà dai bisogni economici, come occupare il tempo libero [..]».
È chiaro che affrontare una questione di tale portata implica una ricerca che investe problematiche prima culturali e “antropologiche”, e solo in seguito di politica economica. Eppure, anche per gli economisti, i quesiti posti da quel saggio di Keynes appaiono ineludibili e impellenti. Oggi, nello specifico, appare cruciale chiedersi se sia possibile rincorrere ancora un modello di crescita quantitativa, che da tempo mostra i suoi limiti, senza chiederci cosa e come produciamo, come distribuiamo le ricchezze prodotte, quali sono i bisogni fondamentali da garantire per tutti, quale è la via per uno sviluppo umano non appiattito sulla crescita dei consumi materiali.
Guardando oltre i limiti del saggio di Keynes, su cui tanti economisti contemporanei hanno recentemente concentrato le più aspre critiche, si può suggerire che l’economista inglese aveva colto un punto su cui vale la pena di riflettere: l’umanità è pronta oggi ad esprimere un nuovo uso delle risorse economiche e naturali, del tempo e delle attività di consumo? La contraddizione fondamentale è forse quella tra una potenza economica e tecnologica in grado di soddisfare i bisogni di tutti e una cultura che non è capace di indicare una via per il benessere delle persone, fuori dalla lotta di tutti contro tutti per accaparrarsi risorse scarse, oltre l’antropologia dell’homo oeconomicus? La giornata di lavoro è una prima occasione per impostare la ricerca su queste domande.


__________________________________________________________________



left, n. 13, 30 marzo 2012

 
Trappole da superare  di Ernesto Longobardi

Dalla razionalità calcolante alla teoria della nascita: la proposta dell'economista Andrea Ventura. Una ricerca di grande interesse non solo per gli addetti ai lavori ma per chinque senta l'esigenza di ripensare alle fondamenta le ragioni di un impegno a sinistra.

leggi tutto



_________________________________________________________________

left n. 9, 9 marzo 2013


L’intesa impossibile

di Andrea Ventura

Li chiamano marxisti ratzingeriani. Propongono l’alleanza tra pensiero laico e cattolico contro individualismo e liberismo. Ma questa tesi non funziona. E non ha fatto un buon servizio alla sinistra.
Oltre l’economia, le nostre società appaiono investite da una crisi che, per i diversi aspetti in cui si presenta, è indubbiamente una crisi di civiltà; e se l’ideologia liberista e il dominio delle relazioni di mercato appaiono come componenti essenziali della crisi, la sfida per la sinistra è quella di individuare le basi, anzitutto culturali, per proporre un’idea di uomo e di società che ad essa possa efficacemente contrapporsi. In relazione a queste problematiche, anche a seguito della pubblicazione di un volume dal titolo Emergenza antropologica (a cura di P. Barcellona, P. Sobri, M. Tronti e G. Vacca, Guerini e associati editori, 2012) i curatori dello stesso, alcuni dei quali noti studiosi di formazione marxista, sono intervenuti più volte sulla stampa facendosi portatori - a partire dai temi dell’economia - della necessità di una convergenza più vasta tra laici e credenti sulla base delle posizioni del pontefice. Certo, le frequenti prese di posizione provenienti dalle più alte gerarchie ecclesiastiche sull'egoismo, la diseguaglianza, la devastazione dell'ambiente e gli effetti catastrofici della crisi possono essere apprezzate da qualsiasi persona di buon senso; non si vede dunque perché su questi problemi la sinistra non possa convergere con la dottrina cattolica. Più problematica, come riconoscono anche gli autori del volume, sarebbe invece la possibilità di un’intesa sui temi dell’inizio e del fine vita, della sessualità e dei diritti civili in genere.

Contro una siffatta convergenza, in effetti, potrebbe essere sufficiente ricordare l’oggettivo sostegno al berlusconismo offerto dalle gerarchie vaticane, berlusconismo che della crisi stessa è un’evidente manifestazione. In queste settimane poi, più crudamente, le vicende connesse alle dimissioni del papa hanno mostrato che quella prospettiva, che avrebbe dovuto essere di lungo periodo, si è già infranta contro il dato evidente che questa crisi di civiltà investe le strutture portanti della chiesa stessa. Così, quella che sulla stampa era una presenza quasi quotidiana, è diventata un imbarazzato silenzio.

Oltre la contingenza, appare comunque utile prendere spunto dalle problematiche sollevate dai curatori del volume per rivolgere l’attenzione su alcune questioni più fondamentali. In particolare va individuata la struttura di pensiero che sostiene le proposizioni della chiesa cattolica, per chiedersi, in sostanza, se sia accettabile che, a partire da alcune preoccupazioni comuni di tipo economico, la sinistra laica possa convergere con un’idea di "verità" (che fonda quelli che, dal punto di vista cattolico, sarebbero i “valori non negoziabili”) dove questa è cercata non nel rapporto con la realtà, o con la scienza, ma sulla base di una "legge di natura" - di origine divina - della quale la chiesa sarebbe l'autentica interprete. A tal fine può essere chiarificatore un richiamo all'esperienza storica, troppo spesso oscurata; non va infatti dimenticato che, almeno fino al concilio Vaticano II, ma anche oltre, la chiesa non ha mai accettato la moderna dizione "diritti dell'uomo" preferendo i "diritti della persona". È stata questa la forma della contrapposizione che ha visto, per oltre duecento anni, da un lato la chiesa e dall'altro lo sviluppo dei diritti e della democrazia in senso moderno.

Dietro la diversa denominazione dei diritti vi è un pensiero sulla loro origine: a partire dalla Rivoluzione francese i diritti dell'uomo si definiscono su base dell'idea per la quale essi trovano un limite solo se intaccano la libertà altrui; la società democratica dà perciò legge a se stessa. I diritti della persona, per la chiesa, avrebbero invece la loro origine nell'ordine divino come voluto da dio e come da essa interpretato. È da dio che proviene la sovranità, non dal popolo. Peraltro, ancora secondo il codice canonico del 1917, l'uomo si costituisce come persona con il battesimo, per cui questi diritti della persona sarebbero esclusivo appannaggio dei cattolici... e non a caso, dunque, non comprendevano l'uguaglianza, la libertà religiosa, di stampa e di pensiero, la sovranità popolare: non è un diritto della persona vivere nell'errore, contro i fondamentali "diritti di dio" dei quali la chiesa di Roma sarebbe appunto l'unica interprete.

Questo fondamento dei diritti, se da un lato, dalla Rerum Novarum di Leone XIII (1891), non ha impedito alla chiesa di far rientrare nei diritti della persona alcuni diritti "naturali" di tipo economico - come la proprietà, un salario dignitoso, la protezione del lavoratore con un contratto, la difesa delle condizioni di lavoro delle donne e dei bambini - dall'altro non ha consentito che essa ne riconoscesse la base politica, cioè le gambe su cui sostenersi. Ed è per il sostanziale disinteresse ma, meglio, per l'opposizione alla democrazia e allo sviluppo dei diritti politici, che la chiesa ha potuto convergere con il corporativismo fascista - visto come la possibilità della ricostruzione di rapporti sociali armoniosi oltre la contrapposizione capitale/lavoro - così come con le leggi razziali del regime, il franchismo e le dittature dell'America latina. Peraltro la costituzione di Franco, che negava la libertà religiosa, fino alla vigilia della caduta del regime fu considerata dalla chiesa un modello ideale di costituzione, anche in contrapposizione alla carta delle Nazioni Unite del 1948 che invece si richiamava alla dichiarazione dei diritti della rivoluzione francese (si veda su questo il bel libro di D. Menozzi, Chiesa e diritti umani, Il Mulino 2012).

La compromissione della chiesa di Roma con le dittature fasciste e le leggi razziali del 1938 è nota e numerose sono le ricerche storiche che ne ricostruiscono i dettagli. Il contrasto con il fascismo sulle leggi razziali, nello specifico, non era sulla discriminazione in quanto tale, ma sul fatto che questa andasse effettuata dallo Stato su base “razziale”, oppure, come rivendicava la chiesa, sul piano della credenza religiosa. Infatti, alla caduta del fascismo, il Vaticano chiese al governo Badoglio l'abolizione di quella parte della legislazione sulla razza che impediva il pieno riconoscimento della famiglia mista, mentre per gli altri aspetti se ne chiedeva il mantenimento poiché conformi alla dottrina cattolica.

La chiesa non può riconoscere propri errori ed è perciò costretta a costruirsi un passato di comodo: questo perché la sua missione si definisce, appunto, nell'interpretazione dei voleri di dio, dunque un'analisi critica della propria storia di per sé la delegittima in quanto intacca alla radice l'idea che essa possa assolvere la sua funzione. Per il pensiero laico l'analisi storica è invece essenziale: non certo per schiacciare il mondo cattolico nel suo insieme alle responsabilità di chi ne dovrebbe costituire la guida, ma per sottolineare che non basta estrapolare dal contesto quelle posizioni delle gerarchie ecclesiastiche sui temi dell'economia che appaiono condivisibili per affermare l’oggettiva convergenza tra esse e la sinistra. Essendo stata posta una questione antropologica, si tratta piuttosto di valutare se il discorso complessivo sull’identità umana portato avanti dalla chiesa può essere accettato e dunque se, oltre ai temi dell'economia, anche su libertà, democrazia, inizio e fine vita, sessualità, posizione della donna nella società, è possibile una convergenza come quella proposta dagli autori sopra citati. Lo stesso mondo cattolico appare diviso e incapace di trovare una sua sintesi da tradurre in azione politica. Individuando in Benedetto XVI l’interlocutore privilegiato per un dibattito sulla possibilità di superare quella crisi dei fondamenti che investe la società contemporanea, i marxisti ratzingeriani hanno fatto un pessimo servizio alla sinistra e a tutti quei cattolici che, sui temi dei diritti civili, del fine vita, della contraccezione e dell’aborto quelle posizioni non hanno condiviso e si sono mossi cercando una propria autonomia.