martedì 11 ottobre 2016

left n. 40, 1 ottobre 2016

Quando i poteri forti bocciano le idee di Keynes


Una moneta mal costruita, come è oggi l'euro, mette in crisi sistemi 

economici e benessere dei popoli. L'economista britannico l'aveva 

capito e propose un sistema basato sulla compensazione.

di Andrea Ventura


Henry Ford una volta affermò che se la gente capisse la natura del nostro sistema finanziario e creditizio scoppierebbe una rivoluzione domani mattina. In effetti, uno dei principali meccanismi di controllo della società e dei sistemi economici risiede nella generazione della moneta. Da tempo, infatti, la moneta ha perso ogni valore intrinseco: è solo carta, anzi la stessa carta è ormai sostituita da informazioni sui debiti e crediti trasmessi tramite computer. Essa viene generata nel momento in cui un ente o un’istituzioni effettua una richiesta di credito. Se ad esempio un governo ha bisogno di finanziare una spesa, potrebbe stampare un titolo del debito pubblico, venderlo alla Banca centrale e ottenere danaro per coprire il debito stesso. La moneta nasce dunque da uno scambio di carta (il titolo) con carta (la moneta), a cui segue la spesa governativa. Se un’impresa industriale o una famiglia ha bisogno di un prestito per un’investimento, o per acquistare una casa, cede alla banca una garanzia – eventualmente sull’immobile stesso – e la banca attiva sul suo conto una certa somma che può essere spesa per l’investimento in questione. La banca può anche girare questa o altre garanzie alla Banca centrale e ottenere del contante per la propria clientela. Il sistema finanziario nel suo complesso pertanto non ha limiti materiali nell’ammontare delle proprie operazioni. Il vincolo, infatti, è costituito solo dall’opportunità di concedere o meno il credito al soggetto che richiede. In questo contesto, pertanto, la moneta tende ad essere facilmente disponibile per chi è già ricco - le garanzie che i ricchi possono offrire riducono il rischio di perdite per chi concede il credito – e scarsa per chi è povero.

Troppa o troppo poco. La moneta

In Europa la BCE, per statuto, non può finanziare il debito statale. Dunque gli stati devono ricorrere al credito delle banche o ai risparmi dei cittadini, come se fossero dei soggetti privati. Eppure, come si è visto in questi anni, quando il sistema finanziario è gestito in modo fallimentare e deve essere salvato, lo Stato interviene per evitare il disastro: noi come collettività dunque garantiamo per la moneta emessa dal sistema creditizio, con i pesanti costi che ne conseguono, poi però dipendiamo dalle condizioni imposte dalla finanza quando dobbiamo chiedere quella stessa moneta in prestito.
Il fatto poi che la moneta venga immessa dall’esterno (dal sistema bancario nel suo complesso) nell’economia reale, e che la moneta stessa possa essere offerta e sottratta dall’economia reale, è uno dei motivi della crisi che le economie occidentali stanno attraversando. Difficilmente, infatti, essa riesce ad essere offerta nella quantità giusta per assicurare una crescita economica equilibrata. Spesso è troppa, oggi sembra troppo poca e le Banche centrali cercano di aumentarla. I risultati però sono scarsi, sia perché le banche nei periodi di crisi evitano di rischiare offrendo credito, sia perché le imprese hanno poca voglia di prendere a prestito, prevedendo un futuro difficile per i propri prodotti.

Il principio della compensazione

In questi anni di crisi si stanno sviluppando sistemi monetari alternativi basati sul principio della compensazione. Il più noto è il circuito svizzero Vir, costituito nel 1934 per far fronte alla carenza di liquidità generata dalla crisi del 1929. In Italia notevoli sviluppi ha avuto di recente il Sardex, nato in Sardegna, che conta ormai quasi 4000 aderenti; esperienze simili si stanno sviluppando anche in altre regioni italiane. Sul principio della compensazione si basava anche l’Unione Europea dei Pagamenti, nata in Europa nel 1950 per finanziare la ricostruzione del dopoguerra e sciolta nel 1958. Le monete a compensazione funzionano in modo completamente diverso: la moneta non è immessa nel circuito a discrezione di un’istituzione esterna, come può essere una Banca centrale o un istituto di credito, a cui segue in un secondo momento lo scambio o la produzione di merci. Chi è ammesso al circuito acquisisce il diritto di comprare a debito da altri aderenti, i quali a loro volta possono usare quel credito per comprare prodotti da altri soggetti facenti parte del circuito stesso. In questo modo la moneta nasce contestualmente all’atto di scambio, con alcuni importanti vantaggi. Anzitutto alcuni studi effettuati sul Vir hanno mostrato che questi circuiti monetari funzionano in senso anticiclico: in sostanza sono in grado di contrastare la carenza di liquidità dell’economia. Questo perché, mentre le banche, nella crisi, riducono il credito concesso (è il cosiddetto “credit crunch” di cui tanto si discute), dunque tendono ad aggravare la recessione, qui la moneta si genera contestualmente alla circolazione delle merci e in stretto rapporto con l’economia reale. Se serve della moneta, chi aderisce al circuito l’ottiene immediatamente nel momento in cui qualcuno acquista i suoi beni o servizi.

Una moneta non capitalistica

In secondo luogo questo tipo di moneta può essere accumulata solo entro certi limiti, e non frutta interessi. È un vantaggio non da poco, in quanto questo evita che si sottragga del danaro all’economia reale. L’atto di accumulazione della moneta, infatti, corrisponde ad una mancata spesa, dunque è l’altra faccia della mancanza di lavoro. Per questo le crisi economiche sono strettamente connesse agli andamenti finanziari. La moneta a compensazione, inoltre, proprio per il fatto di non poter essere accumulata è una moneta non capitalistica. Essa, infatti, tende a rimane all’interno del circuito, come credito utilizzabile solo per l’acquisto di merci all’interno del circuito stesso, e non ha valore se non in quel contesto. Non vi sono pertanto interessi sui prestiti, né titoli o titoli derivati, né sono possibili quelle astruse “ingegnerie finanziarie” che contraddistinguono le modalità tradizionali di gestione della moneta.
In realtà, rispetto alla gigantesca quantità di moneta che circola nei nostri sistemi economici, i sistemi a compensazione sono gocce nell’oceano: i 50 milioni di euro del Sardex dell’anno scorso, rispetto ai 33 miliardi del Pil della regione Sardegna, non sono molto. Eppure l’esperienza non è da sottovalutare: non solo perché il Sardex ha tassi di crescita che indicano potenzialità ancora inespresse, o perché l’esempio del Sardex e del Vir si costituiscono ormai come modelli da imitare.


Un impiego su larga scala?

Il principio delle monete a compensazione, infatti, ha anche la possibilità di essere impiegato su scala assai più vasta. Alcuni studi suggeriscono che esso potrebbe essere utilizzato, riprendendo appunto l’esperienza dell’Unione Europea dei Pagamenti, per il commercio tra i paesi dell’euro. Attualmente, ad esempio, la Germania ha accumulato un enorme surplus commerciale nei confronti dei paesi del Sud Europa. Questo surplus è l’altra faccia della crisi che investe questi ultimi. Il sistema a compensazione potrebbe essere associato ad un interesse negativo, cioè ad un costo, per i paesi che accumulano un surplus, inducendoli a spendere e a sostenere la crescita di quelli in deficit. A Bretton Woods, nel 1944, quando gli alleati posero le basi per la ricostruzione del sistema finanziario internazionale, Keynes propose una “Clearing Union”, cioè un sistema basato appunto sulla compensazione. Gli interessi contrari erano troppo forti ed egli fu sconfitto. Purtroppo ripensamenti su questioni di questa natura avvengono a seguito di catastrofi che nessuno si può augurare. Eppure la proposta di Keynes sarebbe da riprendere: i problemi che nascono da una moneta mal costruita, come l’Euro, hanno gravi effetti sulle prestazioni dei sistemi economici, sui rapporti tra gli stati e sul benessere dei popoli.  

martedì 20 settembre 2016

The Globalist - 18 settembre 2016


Alle origini del neoliberismo. Un Nobel e un omicidio politico 

di Andrea Ventura 


Il 21 settembre di quarant’anni fa, a Washington, un’automobile saltava su una bomba. Orlando Letelier e la sua giovane collaboratrice dell’Institute for Political Studies, Ronni Moffitt, perdevano la vita, mentre il marito di lei restava gravemente ferito. Letelier era un personaggio di primo piano nel governo socialista cileno. Esperto in questioni economiche e amico personale di Allende, egli fu dapprima ambasciatore presso gli Stati Uniti, poi ministro degli esteri e infine, al momento del colpo di stato, ministro della difesa. Imprigionato e torturato per un anno dalla giunta cilena, Letelier fu rilasciato su pressioni internazionali e riparò negli Stati Uniti, dove lavorò attivamente contro il governo di Pinochet denunciando gli appoggi che il regime riceveva dalla comunità economica internazionale. Per le sue denunce e per l’attività che svolgeva nell’organizzare l’opposizione a Pinochet, Letelier era una spina nel fianco della giunta cilena.
     Oggi, a distanza di quarant’anni, possiamo utilmente rileggere quello che fu il suo testamento. In un suo saggio pubblicato dal settimanale progressista americano The Nation meno di un mese prima dell’attentato (The Chicago Boys in Chile: Economic Freedom’s Awfull Toll) Letelier, infatti, non si limita a denunciare le brutalità della giunta, peraltro sotto gli occhi di tutti. Il suo scritto verte piuttosto sullo stretto legame tra le violazioni dei diritti umani perpetrati da Pinochet e le politiche economiche attuate a seguito del colpo di stato. Come è possibile, si chiede Letelier, che esponenti di istituzioni finanziarie pubbliche e private si rammarichino per le torture, le persecuzioni e la soppressione della democrazia, e al contempo si congratulino con Pinochet per aver portato la libertà economica in Cile? Quale idea di libertà hanno coloro i quali scindono libertà economica e terrore politico, fingendo di non vedere quanto invece i tragici eventi cileni mostrino il nesso che li lega?
    Letelier si rivolge in particolare a Milton Friedman, autore di un testo, Capitalismo e libertà, dove sulla scia delle tesi del suo maestro von Hayek si afferma che solo il liberalismo economico è compatibile con la democrazia. La tesi fondamentale di Hayek e Friedman, infatti, è che il mercato costituisce l’ordine naturale della società e ogni interferenza con esso rappresenta un passo verso il dispotismo, la dittatura e l’eliminazione delle libertà individuali. Ma la realtà che Letelier ha sotto gli occhi è ben diversa: è l’imposizione del fondamentalismo del mercato che si è associata alla distruzione della democrazia. Come denuncia nel suo saggio, infatti, un gruppo di economisti cileni formatesi all’università di Chicago con Friedman e Harberger e finanziati dalla CIA – i “Chicago boys” – non solo formularono in anticipo, fin nei dettagli, il programma economico della giunta golpista, ma furono anche coinvolti in prima persona nella preparazione del colpo di stato.
   Le pagine di Letelier, proprio nella misura in cui tolgono l’economia dal vuoto teorico e pongono la disciplina nella prospettiva della sua valenza politica, ci insegnano qualcosa che purtroppo vale anche per l’oggi. Nel momento in cui Letelier scrive, cioè fino agli anni settanta del secolo scorso, la teoria economica dominante era infatti quella keynesiana. In Cile viene dunque messo in atto un esperimento sociale basato sull’applicazione di teorie che a quel tempo erano minoritarie. La giustificazione che Friedman e Harberger forniscono per le politiche liberiste era che, per crescere nel lungo periodo, il Cile aveva assolutamente bisogno di una terapia shock che facesse piazza pulita delle interferenze delle politiche di Allende con le forze del mercato. La giunta cilena ha dunque applicato quella medicina: privatizzazioni di imprese statali, riduzione dell’intervento pubblico nell’economia, distruzione delle organizzazioni dei lavoratori, eliminazione dei sostegni sociali alle famiglie povere, liberalizzazione dei movimenti delle merci e dei capitali, via libera alla speculazione finanziaria, insomma quell’insieme di ricette che oggi costituisce l’orientamento di fondo delle politiche economiche in tutto l’Occidente, ebbe nel Cile di Pinochet – come anche nell’Argentina di Videla e in altri paesi del Sud America – una delle sue prime applicazioni. Anche le conseguenze di quelle politiche, immediatamente denunciate da Letelier – povertà, disoccupazione, accentramento della ricchezza nelle mani di pochi, caos finanziario – anticipano quanto osserviamo oggi in tutto l’Occidente a seguito della diffusione di quelle stesse teorie economiche.
    Gli anni settanta sono anni di crisi. Come un’ampia letteratura ha ormai posto in evidenza, il capitalismo occidentale aveva dunque bisogno di una teoria economica che gli consentisse di recuperare un controllo sociale che sembrava sfuggirgli. Lungi dal costituire una macchia, il coinvolgimento di Friedman e dei suoi seguaci nelle politiche dei golpisti cileni costituirono perciò un viatico per nuovi successi. Così, meno di un mese dopo l’assassinio di Letelier, Milton Friedman riceve il cosiddetto “Premio Nobel” della Banca di Svezia per l’economia. Da allora le sue idee cominciano a soppiantare quelle keynesiane. Le vittorie di Reagan e della Thatcher, l’emarginazione dei keynesiani da istituzioni quali la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, la costituzione di think-thank lautamente finanziati da magnati, banche e industrie, poi l’affermazione negli anni novanta del cosiddetto “Washington Consensus” – un insieme di prescrizioni di politica economica basate appunto sulla fiducia nell’operare spontaneo del mercato – fino alla costruzione della moneta unica europea e alla definizione delle regole fiscali che l’accompagnano, trovano infatti nelle tesi di Hayek e Friedman, e nel neoliberismo in genere, il loro filo conduttore.
    La tesi di Letelier, nella sostanza, è che le politiche basate sul libero mercato attuate dalla giunta non possono essere scisse dell’obiettivo di alterare gli equilibri sociali e politici del paese. Violenza politica e soppressione della democrazia da un lato, fondamentalismo del mercato dall’altro, costituiscono dunque due aspetti inscindibili di uno stesso progetto politico. Della stessa opinione fu tra gli altri il celebre giornalista investigativo argentino Rodolfo Walsh, catturato e ucciso a Buenos Aires il 25 marzo 1977. Walsh, poco prima della sua morte, scrisse una lettera pubblica al generale Videla dove, assieme alla denuncia dei crimini della giunta – dalla descrizione dei metodi di tortura alla lista dei desaparecidos, fino all’ubicazione esatta delle fosse comuni – affermò che crimine ancor maggiore è la “miseria pianificata” generata dalle politiche economiche del regime, e che va ricercata in queste ultime la ragione delle sofferenze inflitte al popolo argentino.
    Oggi che i principi del neoliberismo sono insegnati nelle università, diffusi dagli organi di informazione e seguiti dalle classi dirigenti, oggi che mostri della finanza come J. P. Morgan suggeriscono modifiche alle costituzioni nate dalla sconfitta del fascismo per poter avanzare più speditamente nella cancellazione dei diritti sociali, vale un’analoga considerazione: oltre le critiche teoriche e le denunce delle loro fallimentari conseguenze pratiche, la natura delle politiche economiche poste in essere in Occidente non può essere compresa dimenticando in quale contesto esse ebbero le prime applicazioni.

mercoledì 14 settembre 2016

left, 34 - 35; 20 e 27 agosto 2016

L'economia dell'informazione e la partita del futuro 

di Andrea Ventura


Uno strano paradosso investe le economie dell’Occidente. Da un lato, a dispetto di stimoli monetari senza precedenti, la crescita economica è precaria e stentata: anche negli Stati Uniti, dove la politica monetaria è stata accompagnata da politiche fiscali espansive, la crescita del Pil è rimasta sotto le attese, generando un aumento del rapporto debito/Pil dal 64% del 2007 al 106% del 2015; L. Summers, economista e potente politico americano, assieme ad altri ha recentemente avanzato l’ipotesi che i paesi avanzati stiano attraversando una fase di “stagnazione secolare”. Questa crescita insufficiente si accompagna però ad un flusso d’innovazioni scientifiche e tecnologiche senza precedenti che sta radicalmente modificando il nostro modo di produrre, consumare, lavorare, comunicare.
       Stagnazione secolare da un lato, innovazione e progresso dall’altro. Eppure la crescita economica è sempre stata favorita dalle scoperte scientifiche e tecnologiche: il telaio meccanico ha avviato la prima rivoluzione industriale inglese, poi motore a vapore, ferrovie, telegrafo e piroscafi hanno spinto la seconda. Catena di montaggio e consumi di massa hanno infine caratterizzato l’economia americana e, nel secondo dopoguerra, la crescita del continente europeo. L’informatizzazione dei processi produttivi, la diffusione della rete, la scoperta di nuovi materiali e la biologia molecolare sembrano invece incapaci di sostenere un nuovo ciclo di crescita economica. Siamo alla presenza di un temporaneo stallo dovuto all’inevitabile disequilibrio generato da cambiamenti tecnologici radicali, oppure, come afferma Paul Mason in un recente volume (Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, il Saggiatore, Milano 2016) queste nuove tecnologie stanno minando il capitalismo come l’abbiamo conosciuto finora?
Per discutere alcuni aspetti della questione, è necessario comprendere in via preliminare la differenza tra quelli che gli economisti definiscono come “beni privati” e i beni che invece hanno la caratteristica del “bene pubblico”. In estrema sintesi, i primi sono consumati su base individuale; i secondi invece si caratterizzano per il fatto che il consumo di un bene da parte di un individuo non esclude che lo stesso bene sia anche a disposizione di altri. Se ad esempio una notizia compare su un giornale cartaceo, per accedere a essa è necessario acquistare una copia del giornale stesso. Un articolo pubblicato on line, invece, è accessibile a centinaia di migliaia di persone a costi marginali nulli: a differenza della copia fisica del giornale, che se è in mano ad una persona non può essere al contempo nelle mani di un’altra, chiunque può disporre della pagina contenente l’articolo senza che qualcun altro sia limitato nell’accesso. Il punto è che, avendo le nuove tecnologie ridotto, e in molti casi eliminato, la necessità del supporto materiale per la diffusione di film, musica, immagini, giornali e notizie, quelli che prima erano smerciati sul mercato come beni privati, ora hanno assunto la caratteristica del “bene pubblico”.
In breve, ed è questa l’esperienza di ciascuno di noi, grazie allo sviluppo tecnologico, con quell’oggetto che qualche anno fa era solo un telefono cellulare, oggi abbiamo accesso a giornali, dizionari, guide turistiche, musica, mappe, carte stradali, oltre ad una serie di servizi su meteo, traffico, trasporti, viaggi, eventi etc. Grazie alla rete inoltre, la trasmissione delle informazioni tecniche e scientifiche su nuovi materiali, farmaci, ogm, come anche l’accesso a biblioteche e banche dati, è immediato e favorisce la ricerca e la diffusione delle nuove scoperte in tutto il mondo. Anche per questo, secondo alcuni studiosi, quello che stiamo osservando potrebbe essere solo l’inizio di un percorso destinato a modificare completamente il nostro modo di lavorare, consumare e comunicare.
In questa nuova fase dello sviluppo, pur restando ovviamente ancora essenziali il controllo diretto delle materie prime e della forza lavoro, i nostri sistemi economici saranno sempre più basati sulla conoscenza e l’informazione. E, mentre dal punto di vista delle imprese, materie prime e forza lavoro sono “beni privati” nel senso sopra definito, la scienza e l’informazione sono beni pubblici per eccellenza: il loro uso da parte di un’impresa non comporta che non siano disponibili anche per altre cento o centomila imprese.
Lo sconquasso generato da un’economia in stallo nelle produzioni tradizionali, e che invece sviluppa sempre di più tecnologia, servizi e informazione, è evidente. Anzitutto, come sostiene tra i tanti lo storico dell’economia Joel Mokyr, i tradizionali indicatori di produzione e di benessere divengono insensati. Per restare all’esempio precedente, i giornali venduti entrano nel Pil, l’informazione in rete no. In genere, se grazie al nostro iPhone acquistiamo meno beni fisici, il Pil si riduce, mentre i servizi cui accediamo, essendo gratuiti non lo fanno aumentare. In secondo luogo è l’intero sistema dei prezzi come tradizionalmente inteso che perde di significato. Nella teoria economica dominante, infatti, i prezzi dovrebbero porre in equilibrio i costi e i benefici delle merci, come anche la domanda e l’offerta. In un’economia basata sull’informazione, invece, si hanno due possibilità: o i prezzi sono nulli poiché la diffusione dei servizi e dell’informazione può avvenire appunto a costi nulli; oppure essi sono legati alla capacità delle imprese di ottenere una protezione legale o di sviluppare apposite tecnologie che limitino artificiosamente l’accesso al bene (Kindle per la lettura di libri, codici di protezione dei software, brevetti e simili).
Solo apparentemente però l’accesso ai servizi della rete è gratuito. Si pone qui un problema gigantesco, le cui implicazioni appaiono ancora oscure. Inconsapevolmente, infatti, noi paghiamo profumatamente Google, Facebook, Whatsapp, Linkedin e le varie applicazioni che scarichiamo fornendo informazioni ad alto valore commerciale su noi stessi. Non è chiaro come queste informazioni siano elaborate e utilizzate, certo però è che letture, ricerche in rete, acquisti, contatti, amicizie, spostamenti, stati d’animo (le faccette…) sono registrati, assemblati e venduti. Questa mole di dati ha un valore enorme in quanto permette alle imprese di fare pubblicità mirata, influenzare i gusti e produrre merci più appetibili per i consumatori. Anche la politica ne usufruisce: è possibile avere in tempo reale il polso sull’opinione pubblica, come anche impostare campagne elettorali in modo più efficace. Matteo Renzi, ad esempio, per la prossima campagna referendaria ha assunto come consulente Jim Messina, già coinvolto nelle campagne elettorali di Cameron e Obama, esperto di big data e dunque capace tra l’altro di individuare su quali soggetti puntare per convincerli a voltare Si, evitando di sprecare tempo e risorse verso elettori fermamente convinti a non votare o a votare per il No.
Rischi e opportunità caratterizzano dunque questa cosiddetta “economia dell’informazione”. Una visione pessimistica prefigura una società dove un pugno di imprese private controlla i nostri movimenti, le nostre scelte, e dispone del profilo personale di ciascuno di noi. La privacy è nulla: la quantità d’informazioni che spontaneamente forniamo ai padroni della rete, infatti, è immensa. Le imprese possono selezionare il personale ricorrendo a quelle informazioni - già oggi alcune società americane non assumono soggetti che siano privi del proprio profilo su Facebook -, le possibilità di controllo sui luoghi di lavoro e nella società crescono a dismisura, mentre politici facilmente ricattabili divengono sempre di più schiavi dei poteri economici dominanti. Tra l’altro la rete solo apparentemente è un luogo neutrale accessibile a tutti: in realtà poche imprese private controllano, tramite complessi algoritmi, cosa possiamo conoscere e comunicare più facilmente. Dunque la possibilità di manipolare la circolazione delle informazioni è notevole. Cresce la disoccupazione generata dall’informatizzazione dei processi produttivi, brevetti e licenze ostacolano la diffusione delle innovazioni, e profitti ingenti affluiscono a élite sempre più ristrette collocate in posizioni chiave. Il capitale, per la sua logica interna, deve ottenere profitti sempre crescenti e dunque avrebbe bisogno della crescita dei valori di scambio: se questa non può essere garantita dallo sviluppo delle nuove tecnologie, aumenterà la pressione a far profitti su sanità, istruzione, cultura, servizi pubblici, risorse naturali e ambiente.
Se sotto diversi aspetti questo è quello che stiamo osservando, è improbabile che nel lungo periodo una cerchia sempre più ristretta di persone possa mantenere la sua presa sull’economia e la società. Peraltro la perdita di controllo delle vecchie classi dirigenti è già evidente: in molti paesi le forze cosiddette “populiste” o “antisistema” raccolgono consensi crescenti; Trump, Sanders, Corbyn, Podemos, Syriza, il Movimento 5 Stelle, la Le Pen, la destra austriaca, i fautori del Brexit, nella loro radicale diversità queste forze devono il loro successo al disagio di strati sociali sempre più vasti che vedono compromesso il proprio futuro. Il modello politico bipolare, dove le elezioni si vincevano al centro e i due schieramenti finivano sempre più per assomigliarsi, è dunque già imploso, ma non è chiaro quali idee e quali forze potranno prevalere in futuro.
In una fase così incerta, è sterile cercare di prevedere quello che potrà riservarci il futuro. Più proficua appare invece la ricerca su come sia possibile influenzare la transizione in corso. Anzitutto è chiaro che l’idea del mercato come sfera autonoma si mostrerà sempre più una finzione: l’economia e la distribuzione del reddito saranno infatti sempre più dipendenti da scelte di carattere giuridico e politico. È dunque sul terreno del controllo dei processi decisionali che si giocherà la partita in futuro. Ma non è solo questo. Le tecnologie, infatti, sono un prodotto umano, e il loro utilizzo nella direzione del progresso, oppure del controllo sociale e della limitazione delle libertà, si gioca su un terreno più profondo, che prima di essere politico è antropologico e culturale.
Oltre la struttura economica, infatti, ogni periodo storico ha una sua consapevolezza, diciamo un “senso comune”, che lo definisce. Il modello keynesiano, cui spesso si fa riferimento, non era solo un modello di politica economica che comprendeva il ruolo attivo dello Stato e il coinvolgimento delle parti sociali: esso prometteva consumi di massa e benessere per tutti, e attorno a questo costruiva la sua egemonia culturale. Oggi prevale l’ideologia dell’individualismo, cioè l’idea thatcheriana che “la società non esiste” ma contano solo gli individui nei loro rapporti di mercato.
Nel suo volume Postcapitalismo, Paul Mason si chiede “come gli esseri umani debbano cambiare affinché una società post capitalistica possa affermarsi”. Questa è in effetti la domanda centrale: quale dovrà essere il senso comune di una società che sfrutta pienamente le potenzialità dell’economia dell’informazione? È anzitutto evidente che la combinazione tra le trasformazioni generate da questi cambiamenti tecnologici e il riferimento a una teoria - la teoria neoclassica - vecchia di oltre centocinquant’anni, ha già generato abbastanza sofferenza sociale. Ma, oltre la critica a quella teoria, è necessario che se ne demolisca il presupposto antropologico, cioè il riferimento all’uomo economico. Per riprendere il titolo di una sessione di lavoro del recente convegno all’Aula Magna dell’Università di Roma (Ricerca sulla verità della nascita umana. 40 anni di Analisi collettiva, L’Asino d’oro edizioni, Roma 2016), un’economia post capitalistica dovrà dunque essere Un’economia senza uomo economico. Come osservato in precedenza, infatti, informazione, tecnologia e scienza sono beni pubblici, beni cioè per i quali l’accesso di un singolo individuo non esclude che sia possibile l’accesso anche per altri. Il loro uso, in sostanza, è un uso collettivo. Le stesse tecnologie dell’informazione, inoltre, hanno potuto svilupparsi usufruendo della formazione dei ricercatori, di fondi pubblici per la ricerca e della diffusione della cultura scientifica in genere. Se da un lato l’esproprio a favore di pochi è dunque anche per questo particolarmente odioso, dall’altro la potenzialità di questa economia possono pienamente svilupparsi se, oltre l’uomo economico che agisce in modo razionale massimizzando il proprio benessere individuale, si afferma un’idea di realizzazione personale e collettiva che, superato il piano della soddisfazione dei bisogni (del benessere fisico del corpo), comprenda quello della realizzazione delle esigenze. Quest’ultimo è peraltro il terreno sul quale si dispiega pienamente la socialità umana, dove la realizzazione di ciascuno - umana, culturale, artistica, scientifica o professionale che sia - non avviene a discapito ma si associa a quella degli altri. Possono affermarsi scienza e cultura in senso genuino, infatti, solo nella prospettiva della realizzazione umana di chi quella scoperta e quella dimensione culturale possiede, come anche di chi ne usufruisce.

Realizzazione delle esigenze, “beni pubblici” e sviluppo dell’economia basato sulla diffusione della conoscenza hanno dunque un terreno in comune dove non valgono il riferimento a un benessere misurabile con i prezzi di mercato, i criteri di calcolo razionale, o la logica dello sfruttamento del lavoro e della creatività altrui. Alla luce dei rapporti economici, sociali e politici odierni, immaginare una società basata sulla realizzazione delle esigenze appare indubbiamente come un’utopia. Questa però è un’utopia da perseguire per evitare che le enormi potenzialità delle nuove tecnologie si ritorcano contro il benessere e la libertà di tutti.

domenica 8 maggio 2016

left n. 18, 30 aprile 2016

La teoria economica ha fallito. Ecco perché

Incapaci di prevedere la crisi del 2008, gli economisti neoclassici, che da trent’anni dettano legge, sbagliano metodo. Lo sostiene il fisico teorico Francesco Sylos Labini

Andrea Ventura


Quando la regina Elisabetta, nel novembre 2008, chiese ad alcuni professori della London School of Economics come mai non avevano previsto la crisi appena scoppiata, l’economia aveva appena ricevuto la migliore valutazione accademica tra tutte le discipline del Regno Unito. Quanto al dibattito che ne è seguito, Robert Lucas, premio Nobel e fondatore della moderna macroeconomia, che solo qualche anno prima aveva affermato che “il problema della prevenzione della depressione, per tutti gli scopi pratici è ormai stato risolto”, sviluppò un contorto ragionamento secondo il quale la crisi non era stata prevista perché secondo la teoria economica certi eventi non possono essere previsti. Come può sussistere un contrasto così stridente tra l’effettiva capacità di una disciplina di interpretare la realtà e il prestigio di quella stessa disciplina nell’accademia e nell’opinione pubblica? Come mai, a distanza di otto anni, si ricorre ancora a quella teoria per superare questa perdurante fase di crisi?
È attorno a queste domande che scorre uno dei percorsi di ricerca del volume di Francesco Sylos Labini, Rischio e previsione. Cosa può dirci la scienza, appena pubblicato per i tipi della Laterza. Le discipline economiche, ci ricorda Sylos Labini, si sono sempre caratterizzate per la presenza di diverse scuole di pensiero, ciascuna delle quali si associava a differenti concezioni della storia, della società e della politica. Purtroppo, negli ultimi trent’anni, tra di esse ha preso il sopravvento la teoria economica neoclassica. Difficile dare pienamente conto del perché una scuola di pensiero, nata nella seconda metà dell’800 e accompagnata, fin dai suoi esordi, da critiche assai fondate, sia oggi il principale se non unico riferimento per accademici, politici e tecnici. Alcune di queste ragioni possono essere rintracciate nel fatto che, sul piano metodologico, essa è riuscita a presentarsi come interprete dei successi ottenuti in quel secolo dalla fisica newtoniana, imitandone la struttura e il metodo. Da qui scaturiscono i caratteri fondamentali di questa teoria: la riduzione del soggetto ad atomo isolato sul mercato (individualismo metodologico), l’idea della tendenza all’equilibrio tra forze (interessi) contrapposti, l’eliminazione dal campo della teoria pura di qualsiasi problematica non trattabile matematicamente. In sostanza, è nella scelta metodologica la ragione ultima della devastante emarginazione dall’economia neoclassica di tutti quei temi – culturali, storici, giuridici, connessi alla giustizia sociale – che nel moto dei pianeti non trovano alcun corrispettivo.
Questo nucleo teorico ha affermato la propria egemonia culturale avvalendosi anche di operazioni propagandistiche ai limiti della truffa. La vicenda del cosiddetto “premio Nobel” in economia è particolarmente istruttiva. Alfred Nobel, inventore della dinamite, non voleva che il suo nome restasse associato a uno strumento di distruzione, dunque con i suoi ingenti guadagni istituì un fondo per premiare chi si fosse reso utile all’umanità nei campi della fisica, della chimica, della medicina, della letteratura e per la pace. Nel 1969 la Banca di Svezia, per dare all’economia il prestigio e la visibilità connessi all’assegnazione di un premio di così gande successo, istituì un “premio in Scienze economiche in memoria di Alfred Nobel” con fondi che non hanno nulla a che vedere con quest’ultimo. Recentemente, come ricorda Sylos Labini, Peter Nobel, avvocato e discendente di Alfred Nobel, ha dichiarato che “quello che è accaduto è un esempio senza precedenti di violazione di un marchio di successo”.
Sostenuta dunque da un potente apparato propagandistico e da un’immensa disponibilità di risorse private e pubbliche, piuttosto che rendere un servizio utile all’umanità, l’economia neoclassica è riuscita in questi ultimi anni a trasformare una crisi nata nella finanza privata in una crisi causata dall’eccessiva generosità delle retribuzioni e del welfare. Di qui i colpi alla scuola, all’università, al lavoro, e quelle politiche di austerità che stanno devastando gran parte del continente europeo.
Eppure, lungi dal seguire quelle prescrizioni, quale debba essere la strada per il progresso e il benessere sembra evidente: in una società in continua evoluzione scientifica e tecnologica, dove la competitività dei sistemi produttivi è sempre più legata alla capacità delle imprese di innovare, la centralità dello sforzo pubblico per l’istruzione e la ricerca non dovrebbe neanche essere oggetto di discussione. Assistiamo invece all’assurdo di un ex presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, che esprimendo un modo di pensare assi diffuso tra le nostre classi dirigenti, affermò: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato quando facciamo le scarpe più belle del mondo?”. In sintonia con altri paesi dell’Europa meridionale, l’Italia rischia così di compromettere per generazioni il proprio futuro. Non solo, ma l’assegnazione dei fondi per la ricerca segue criteri che nulla hanno a che vedere con la qualità di quest’ultima: l’analisi impietosa di Sylos Labini dello stato delle discipline economiche e del modo in cui l’economia dominante impedisce lo sviluppo di programmi di ricerca alternativi, non è isolata. Troviamo qui un secondo pregio del volume: emergono con chiarezza i limiti di una concezione della formazione che trascura la ricerca di base per quella applicata e, per distribuire i fonti e valutare studenti, docenti e ricercatori, si affida a improbabili indicatori di tipo quantitativo. L’Autore – che è anche co-fondatore e redattore di Roars.it, brillante rivista dedita proprio a discutere dei temi connessi alla ricerca – ci illustra bene quale sorte avrebbero avuto oggi Wittgenstein, Frege, Semmelweis; lo stesso Einstein, il quale fu escluso dall’accademia e trovò posto all’ufficio brevetti di Berna, alla luce dei criteri oggi vigenti per le pubblicazioni scientifiche, nel 1905 si sarebbe visto rifiutare l’articolo in cui espone la teoria della relatività ristretta.

In sostanza, la credenza nel fatto che tutto ciò che ha un valore debba avere una misura quantitativa, che troviamo in economia, investe anche cultura e ricerca. Il metodo neoliberista si costituisce dunque come simbolo di un modo di pensare agli esseri umani e alla società che rischia di inaridire le fonti principali del nostro progresso sociale e civile.

venerdì 8 aprile 2016

left 14, 2 aprile 2016

Su quali basi avviare la ricostruzione della democrazia europea

La Costituzione europea è il frutto di un percorso che, come diceva un tempo Napolitano, risente sia della volontà egemonica della Germania, sia del predominio del neoliberismo, le cui idee fondamentali sono entrate nei trattati europei

Andrea Ventura

Il 13 dicembre 1978, alla Camera dei deputati, Giorgio Napolitano annuncia il voto contrario del Partito comunista all’adesione dell’Italia al Sistema Monetario  Europeo (SME). Quel sistema, osserva Napolitano, non risolve il conflitto tra le necessità dei paesi più deboli e le garanzie che vuole la Germania, il più forte, tra lo sviluppo del Mezzogiorno italiano e i vincoli monetari che impone. “Si mette il carro davanti ai buoi”, nota Napolitano, quando si costruiscono accordi monetari in sostituzione di accordi “sul ritmo e la qualità dello sviluppo”. Lo SME, primo passo del progetto che approderà all’euro, entra in vigore il 13 marzo 1979; il cosiddetto “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia, con cui si vieta il finanziamento monetario del debito pubblico (altro cardine della costituzione monetaria europea), è del 1981. Quegli anni furono peraltro segnati dall’assassinio di Aldo Moro, dal fallimento del tentativo d’inserimento dei comunisti tra le forze di governo, dalla sconfitta sindacale alla FIAT, e a livello internazionale dall’affermazione della Thatcher in Inghilterra e di Reagan negli Stati Uniti. Seguono, negli anni novanta, la globalizzazione commerciale e la deregolamentazione finanziaria: con esse i lavoratori dell’occidente sono posti in concorrenza con quelli sottopagati e privi di tutele dei paesi più poveri. Il quadro è netto; quegli anni hanno segnato un radicale cambiamento nella gestione delle economie di tutto l’occidente: dal keynesismo al neoliberismo.

Il neoliberismo può essere compreso sia dai suoi contenuti, sia dalle sue applicazioni. Riguardo ai primi, com’è noto, il presupposto è che il mercato e le scelte individuali debbano prevalere sulla politica. Se nel sistema keynesiano, nelle parole di Roosevelt, non vi è libertà se manca la libertà dal bisogno, l’unica libertà che il neoliberismo riconosce è quella economica. Meno noto è che entusiasti delle idee di Hayek e Friedman furono i peggiori dittatori dell’America Latina. Dal Cile di Pinochet all’Argentina di Videla, le politiche economiche di quei regimi, infatti, furono direttamente ispirate al neoliberismo. Distruzione dei sindacati, eliminazione dei sostegni sociali e privatizzazioni vanno dunque viste come la realizzazione del loro presupposto: l’isolamento dei singoli nei rapporti di mercato. Milton Friedman, lo ricordiamo, nel 1975 volò a Santiago e fu accolto cordialmente da Pinochet, avido dei suoi suggerimenti. L’America Latina, che negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso aveva un tenore di vita paragonabile a quello dei paesi più avanzati, nel giro di vent’anni, travolta da colpi di stato e politiche neoliberiste, crolla e si avvicina ai paesi più poveri del mondo. Friedman, che diede i suoi suggerimenti anche alla Thatcher, si giustificò affermando che, così come un medico può offrire cure mediche in un ospedale cileno, non vi è nulla di male a consigliare a Pinochet ricette di politica economica.  È questa, in sostanza, la tesi dei teorici neoliberisti: le loro proposte costituiscono la neutrale applicazione delle leggi del mercato; se si comprende a fondo la natura di tali leggi, seguono alcuni suggerimenti tecnici validi indipendentemente dalle opinioni che si possono avere su democrazia, diritti, giustizia sociale.  Anzi, queste ultime sono a rischio se si contrappongono al mercato.

La costituzione europea è il frutto di un percorso che, nella sostanza, come aveva chiaro Napolitano, risente da un lato della volontà egemonica della Germania, dall’altro del predominio della teoria economica dominante. In questo percorso le idee fondamentali del neoliberismo hanno trovato espressione nei trattati europei e a livello costituzionale. Così, se negli Stati Uniti un governo può modificare gli indirizzi di fondo della politica economica, in Europa questo richiederebbe un processo assai accidentato: certo, i trattati possono essere modificati, ma con il consenso di tutti e non da maggioranze parlamentari.


Più Europa per uscire dalla crisi, o ritorno alle sovranità nazionali per ricostruire la democrazia? Oppure, come sostiene Varuofakis, “l’Europa o si democratizza o si disintegra” con gravissimi rischi per tutti? Ma su quali presupposti può avviarsi un percorso di ricostruzione della democrazia a livello europeo? Affinché sia possibile una reale inversione di tendenza, vi è l’urgenza che le forze della sinistra muovano anzitutto un’antropologia alternativa a quella dominante. Il dramma di questi decenni, infatti, non consiste solo nel dominio del neoliberismo, ma nell’affermazione quasi completa dei suoi contenuti antropologici.  Senza una ricerca su questo punto, la parabola di Napolitano e delle forze della sinistra storica – che da critici si sono trasformati in supremi garanti degli attuali assetti europei – non è comprensibile. L’antropologia neoliberista, infatti, riduce il soggetto a individuo isolato sul mercato poiché considera il collettivo pericoloso. Le masse che agiscono politicamente costituiscono una minaccia perché rischiano di distruggere, nelle parole di Hayek, le conquiste della società liberale. Analogamente, per Friedman, sindacati, stato sociale e democrazia sfociano necessariamente nel socialismo perché danno forza al collettivo e potere alla maggioranza. Tutto il pensiero liberale teme la dittatura della maggioranza e tenta di preservare il potere dei pochi eletti dalla distruttività delle masse popolari. Ma non è solo l’interesse materiale dei gruppi dominanti ad alimentare questi timori, quanto la storica sedimentazione di un’ideologia che, dal peccato originale della Bibbia all’inconscio perverso di Freud, non ha fiducia nella naturale socialità degli esseri umani. Per questo, per contenerne la forza distruttiva, il “soggetto” deve essere annullato e ridotto a macchina calcolante, per questo l’unica libertà che gli può essere concessa è quella che trova sul mercato. Così questa idea di ordine e di libertà è compatibile con l’abbattimento della democrazia, anzi lo richiede. Vicende lontane nel tempo e nello spazio, dal rovesciamento di Allende alla neutralizzazione di Tsipras, dalla distruzione dell’America Latina degli anni ’80 e ’90, al rapido declino dell’Europa odierna, trovano nel neoliberismo il nesso che le lega. 

martedì 22 marzo 2016

left 10, 5 marzo 2016

Il neoliberismo non è scienza, è politica. Anzi teologia

Questa teoria concepisce "uomini economici" che cercano sempre di massimizzare il proprio utile. Perchè gli economisti dovrebbero uscire da questo schema

Andrea Ventura

L’idea che troviamo alla base della teoria economica dominante è che gli uomini sono come degli atomi mossi dalla spinta alla massimizzazione della propria utilità. In questa teoria il mercato non è visto come un’istituzione la quale, assieme ad altre, concorre a determinare il funzionamento dei nostri sistemi sociali, ma costituisce il nesso sociale fondamentale. Sul mercato, infatti, il conflitto tra gli interessi economici individuali si trasformerebbe in un armonico ordine sociale e ciascuno sarebbe in grado di compiere le proprie scelte in piena libertà. Privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione del ruolo pubblico nell’economia, flessibilità del lavoro, sono politiche che discendono tutte da un unico presupposto: per il benessere umano è necessario ampliare i mercati ed eliminare ogni ostacolo loro funzionamento. Questa è l’essenza del neoliberismo.

Prima della crisi del 2008 si poteva ancora pensare che questa teoria, per quanto errata, facesse parte della scienza. I critici di essa si concentravano principalmente sulla sua scarsa coerenza logica e sulla sua difformità rispetto all’esperienza storica; i sostenitori ponevano invece l’accento sul carattere formale e matematicamente strutturato delle sue proposizioni. Diffusa era comunque la considerazione secondo la quale, a differenza delle scienze della natura, per gli economisti fosse impossibile compiere degli esperimenti di laboratorio e verificare anche per questa via la validità delle diverse strutture di pensiero. Dopo quella data, dopo i disastri provocati da politiche economiche ispirate alle stesse idee che quella crisi hanno generato, si sente dire spesso che abbiamo assistito a qualcosa di simile a un esperimento controllato: con esso sarebbe stato definitivamente dimostrato che la teoria economica dominante non funziona. Certo, se si continua a guardare a essa come teoria scientifica, assistiamo a un indubbio fallimento. Il fatto è che invece il neoliberismo è una teoria politica, o meglio una teologia, e come tale sembra ancora funzionare. A esso, infatti, continuano a ispirarsi partiti, governi, istituzioni pubbliche nazionali e internazionali; è sulla base di questa teoria che sono formulate politiche pubbliche e riforme istituzionali. In altri termini la teoria economica neoliberista non serve a spiegare la realtà, come può essere una scienza della natura. Essa svolge invece funzioni di controllo sociale e di dominio, sia appunto per le politiche che propone, sia per la cultura economicista che contribuisce a diffondere. Se poi così facendo si generano miseria, crisi e disgregazione sociale, è sempre a essa che si ricorre per trovare soluzioni, magari suggerendo che le politiche indicate non sono state applicate in modo abbastanza radicale.

Gli uomini, dice questa teoria, sono uomini economici, dunque cercano sempre di massimizzare il proprio utile. Perché gli economisti dovrebbero uscire da questo schema di comportamento? Abbiamo qui un vero e proprio corto circuito: il sostegno teorico alle tesi neoliberiste e il perseguimento del proprio tornaconto personale diventano guida al pensiero e all’azione di troppi economisti. Essi si trovano dunque perfettamente a proprio agio nel sostenere politiche funzionali ai gruppi di potere dominanti. Al contempo, l’impoverimento del settore pubblico e la crescente concentrazione della ricchezza in mani private rendono l’intera produzione scientifica e culturale sempre più dipendente dagli interessi di gruppi e fondazioni che operano sulla base di un orizzonte privatistico. Urge costruire su nuove basi antropologiche e culturali un’opposizione che sia in grado di spezzare questa soffocante TINA, “there is no alternative”, che la teoria dominante propone ma che l’esperienza storica non ha mai confermato.

martedì 12 gennaio 2016

left 50, 24 dicembre 2015

False teorie, amenità ed economia

Dal debito pubblico alle politiche fiscali, fino al concetto di spreco: l’informazione economica è piena di errori. Lo spiega bene il libro Economia e luoghi comuni a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani

Andrea Ventura

Secondo la cosiddetta teoria quantitativa della moneta vi sarebbe un legame diretto tra quantità di moneta e livello dei prezzi. Quest’idea, dopo decenni di dominio delle teorie neoliberiste, è diventata uno dei luoghi comuni più diffusi, ma è un vero mistero come possa sopravvivere a dispetto dei fatti: da anni la BCE inonda i mercati di liquidità, quasi settimanalmente Mario Draghi tuona e minaccia ulteriori stimoli monetari, eppure i prezzi in Europa non accennano a salire. Dell’inconsistenza teorica di quel legame, Draghi, che fu allievo di Federico Caffè quando l’economia si studiava seriamente, dovrebbe essere ben consapevole, ma si guarda bene dal denunciarlo essendo governatore di una Banca Centrale che quel luogo comune ha nel suo atto costitutivo.
L’informazione economica, purtroppo, è caratterizzata da simili amenità. Queste, ripetute all’infinito, assumono la veste di verità provate, e bene a fatto la casa editrice l’Asino d’oro a pubblicare questo prezioso volume (Economia e luoghi comuni. Convenzione, retorica, riti, a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani) dove appunto si procede alla demolizione di una serie di luoghi comuni attorno ai quali ruota l’informazione economica.
Il filo conduttore del libro è costituito dai temi della finanza pubblica. Com’è spiegato nel saggio di Aldo Barba e Giancarlo De Vivo che apre il volume, la trasposizione dei princìpi di sana gestione dei conti di famiglia all’economia come un tutto, dunque ai bilanci pubblici, non ha alcun fondamento. Piuttosto che insistere sul fatto che il debito pubblico vada ridotto, con altrettanta legittimità, infatti, si potrebbe affermare che deve diminuire la ricchezza finanziaria privata, essendo l’uno lo specchio dell’altra, cosa che l’informazione economica, solo per fare un esempio, si guarda bene dal rilevare. Inoltre, proprio per le caratteristiche dei rapporti finanziari e per gli effetti macroeconomici della spesa statale in deficit, la categoria dello “spreco” per il pubblico non ha la stessa valenza che per il privato. Lo spreco peraltro, come ricordano Guglielmo Forges Davanzati e Gabriella Paulì nel loro saggio, è un concetto culturalmente e storicamente determinato, dunque per nulla neutrale: per Keynes, spreco era l’esistenza della disoccupazione, che politiche di bilancio in deficit possono riassorbire, oppure per un ambientalista lo sono l’inquinamento e il consumo di risorse non rinnovabili. Parlare di “spreco” nella spesa della pubblica amministrazione senza altra qualificazione, come troppo spesso si fa, è dunque insensato, ma l’abuso di quella dizione è funzionale a definite politiche di contenimento della spesa. Come si mostra nel volume, queste non solo hanno colpito i meno abbienti, ma hanno anche prodotto un peggioramento della qualità dei servizi pubblici, della ricerca scientifica (universitaria in particolare), e aggravato i divari regionali.
Consegue a questa impostazione di ricerca la critica serrata portata dal saggio di Vittorio Daniele alla cosiddetta “austerità espansiva”, di cui si ricostruisce la fragilità teorica e il devastante effetto pratico. Altri contributi affrontano il tema delle politiche di consolidamento fiscale attuate in Europa, la vuota retorica della trasparenza fiscale, il luogo comune del Mezzogiorno come zavorra d’Italia, le liberalizzazioni bancarie.
I saggi di Amedeo Di Maio e Ugo Marani sono dedicati a un tema che forse è a monte di tutti gli altri. Viene infatti ricostruito l’intreccio tra ragioni politiche, storiche e teoriche che ha portato all’attuale costituzione economica europea, sia sul piano, appunto, delle regole fiscali, sia su quello delle politiche monetarie. Stridente appare peraltro il contrasto tra l’affermazione per la quale, in omaggio a quella falsa teoria per la quale la quantità di moneta ha effetto sul livello dei prezzi, la Banca centrale dovrebbe avere un ruolo tecnico, dunque essere sottratta al controllo politico, e il contenuto di quella famosa lettera che nell’estate del 2011 il governatore della BCE inviava al governo italiano, dove con dovizia di particolari s’indicavano precise linee di politica economica quali privatizzazioni, liberalizzazioni, interventi su pensioni, servizi, professioni, mercato del lavoro ecc.
 La demolizione dei luoghi comuni e la ricostruzione di un pensiero economico onesto e coerente sono oggi essenziali, ma non è questa la direzione in cui si muove la professione. Com’è rilevato nel volume, è proprio la teoria economica a fornire una spiegazione per questa reticenza. Essa è nella teoria della “cattura”, cioè in quella tesi per la quale i portatori di un interesse pubblico possono facilmente essere catturati dal sistema di potere che dovrebbero contrastare: in quanto uomini economici, schiavi cioè della loro stessa visione antropologica, troppi economisti dunque, piuttosto che essere difensori della verità, trovano conveniente diventare funzionali ai gruppi d’interesse dominanti che esprimono una domanda d’idee a essi congeniale.
Purtroppo non è in questione solo l’onesta intellettuale di un gruppo di studiosi, la qualità dell’informazione offerta all’opinione pubblica o la validità di una struttura di pensiero: il dibattito economico, infatti, ha ripercussioni su funzionamento stesso delle nostre democrazie perché contribuisce ad alterare o chiarire quali sono le scelte effettivamente praticabili per la collettività. Peraltro le classi dirigenti europee appaiono esse stesse vittime di presupposti teorici falsi e incoerenti, mentre le forze di opposizione faticano a ricostruirsi attorno ad un discorso economico, ma al fondo antropologico, alternativo a quello dominante. Così il futuro della civiltà europea appare a rischio come poche volte lo è stato nella storia.

Come è rammentato nel volume, Albert Einstein affermò che è più facile disintegrare un atomo di un luogo comune. Eppure oggi questo sforzo è sempre più necessario. 

left 49, 19 dicembre 2015

Quattro piccole banche e la crisi di un sistema

Andrea Ventura

La società non esiste, esistono solo i singoli individui, afferma il motto degli anni ottanta. Ciascuno è il miglior giudice delle proprie scelte, afferma un principio cardine della teoria economica. Bene, è qui che dobbiamo cercare le ragioni ultime dei drammi personali legati al fallimento delle quattro banche locali. In omaggio a questi principi, infatti, ciascuno di noi quotidianamente è costretto a fare delle scelte senza avere piena consapevolezza delle loro conseguenze: firmiamo clausole indecifrabili quando stipuliamo contratti di fornitura di servizi, compiamo operazioni bancarie, acquistiamo una carta di credito; ci è chiesto il consenso alle pratiche mediche, all’installazione degli aggiornamenti sui nostri dispositivi elettronici, all’uso dei cookies per navigare. Non potendo essere informati su tutto, nella gran parte dei casi accettiamo e basta seguendo l’avviso di chi quel consenso ci chiede; dovremmo altrimenti avere un paio di avvocati sempre a nostra disposizione.

I danni subiti dai risparmiatori delle banche fallite rientrano in questo contesto. Le banche, infatti, operano in pieno conflitto d’interessi e questo conflitto, nelle condizioni attuali, è del tutto insuperabile. Proprio per tutelare il risparmio, a seguito della crisi del 1929 gli Stati Uniti e altri paesi industrializzati adottarono delle disposizioni in conseguenza delle quali le banche d’affari, che effettuavano operazioni più rischiose, furono separate dalle banche  commerciali. Queste ultime raccoglievano il risparmio, effettuavano prestiti alla piccola clientela ed erano sotto lo stretto controllo della Banca centrale. Oggi, a seguito dei processi di deregolamentazione, questa distinzione è sparita e ogni banca può spaziare in ogni tipo di investimento, cosicché è suo interesse indirizzare i fondi dei propri clienti verso operazioni più redditizie ma anche a maggior rischio. La radice di questo e di tanti altri problemi è qui, per cui, come spesso accade, il piccolo investitore è spinto ad assumere rischi non nel suo interesse, ma in quello della banca.

La crisi della quattro piccole banche, inoltre, riassume sotto diversi profili alcuni mali specifici del nostro sistema economico: oltre al conflitto d’interessi di cui si è detto, abbiamo una cattiva gestione dei fondi e una rete di rapporti poco chiari con la politica. Infine siamo di fronte ad una crisi senza precedenti nel tessuto produttivo locale: se un’area economica entra in crisi, i prestiti effettuati dalle banche alle imprese diventano inesigibili e le banche stesse, in particolare quelle legate al territorio, rischiano l’insolvenza. Anche da qui nasce il fallimento dei quattro istituti.


Problemi per certi versi simili furono alla base della crisi americana del 2007-2008. Quella statunitense colpì il capitalismo occidentale al suo centro e ne paghiamo ancora le conseguenze. Questa è scoppiata alla periferia del nostro paese e non è chiaro quanto possa essere circoscritta. In entrambi i casi le ragioni vanno ricercate nella crisi di un modello di società dove il cittadino è ridotto a consumatore, il mercato non è un luogo di scambio ma un principio ordinatore della società nel suo complesso, e la tutela pubblica è stata sostituita da una cultura privatistica delle “regole” sempre più inadeguata a fornire una tutela effettiva. I singoli individui, che quel motto degli anni ottanta voleva valorizzare, sono così preda della legge del più …furbo. Non s’intravede alcuna inversione di tendenza.