giovedì 11 gennaio 2018

left, n. 1, 6 gennaio 2018

Nell’illusione di libertà del ’68 i semi del liberismo

Nessuna sinistra può rinascere evitando di affrontare la domanda su come la libertà e l’uguaglianza possano comporsi senza che l’una distrugga l’altra. La risposta richiede una ricerca sull’identità umana su basi completamente diverse da quelle del passato.

di Andrea Ventura

Abbiamo un sogno. Lontano dall'incollare pezzi della vecchia sinistra attaccati al potere, la nuova formazione politica "Liberi e uguali” parte da queste due parole per ricostruire l’identità di una nuova aggregazione politica. La sorte di queste parole, infatti, definisce la frattura storica della sinistra degli anni '70, accompagna il suo declino, e segna le sue sconfitte: dunque la ricerca sulla possibilità di una loro composizione è il presupposto per qualsiasi programma politico di sinistra che possa avere qualche possibilità di successo.

La libertà fu rivendicata con forza dai movimenti giovanili del '68 e degli anni '70: libertà da qualsiasi forma di potere, rifiuto dell’autoritarismo nelle scuole e nelle università, libertà sessuale, ma anche purtroppo libertà nell’uso e nell'abuso di sostanze stupefacenti, nel suicidio, in una sessualità troppo spesso priva di affetti. Questa libertà, rivendicata da un’intera generazione in tutto l’Occidente, era una libertà priva di ogni altra qualificazione: e sebbene abbia condotto a conquiste civili importantissime, demolendo culture autoritarie portando ad enormi passi avanti nella parità tra uomini e donne, si è anche accompagnata ad una filosofia che teorizzava la fine del soggetto e il nulla radicale come condizione connaturata all'essere umano. Heidegger, Foucault, Derrida, Althusser e tanti altri, insomma un’intera cultura politica e filosofica ha considerato la libertà umana come aperta a qualsiasi esito: anche la malattia mentale era una “libertà”. E allora, perché no, sono coerenti con questa libertà anche l’arricchimento illimitato, la liberalizzazione dei mercati, la critica al “potere” dello Stato nell’economia, l’individualismo esasperato, la legge del più forte. Il capitalismo fa peraltro della "libertà" la sua bandiera ideologica, dunque, sotto diversi aspetti, gli anni '80 - quelli dell'offensiva del capitalismo contro le forze del movimento operaio -, poterono risultare compatibili con quelle rivendicazioni di libertà.

L'uguaglianza, l’altra grande parola che ha segnato tante lotte sociali, negli anni '60 e '70 fu ancorata all’idea delle forze del movimento operaio per la quale era necessaria l'uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni materiali di tutti. Ma il progresso economico, ottenuto in quei decenni anche grazie all'intervento pubblico nell'economia, aveva generato un benessere sconosciuto ad ogni generazione del passato, rendendo meno pressante la questione della soddisfazione dei bisogni materiali. In seguito, con il crollo del comunismo nei paesi dell’Est, è crollata anche ogni prospettiva di superamento del capitalismo. Privi così sia della loro principale giustificazione storica, sia di qualsiasi base teorica, i partiti della sinistra tradizionale scelsero di aderire all’idea che, per il progresso umano, fosse necessario assecondare il dominio del mercato. Il capitalismo poté affermarsi sempre più radicalmente, erodendo le conquiste sociali del novecento.

In sostanza libertà e uguaglianza, la prima rivendicata dai movimenti di contestazione giovanile nati dal '68, la seconda dalle forze tradizionali del movimento operaio, piuttosto che comporsi per la costruzione di una società più evoluta, dapprima si scontrarono duramente, poi lasciarono il campo a quel capitalismo che entrambi avrebbero voluto superare.

Il dominio del capitalismo e dell'ideologia del mercato sull’intera società mostra ormai limiti che è superfluo qui richiamare. Essenzialmente la libertà si è risolta nell'affermazione della legge del mercato, soffocando ogni altra istanza sociale, mentre l’uguaglianza è stata distrutta da disuguaglianze economiche sempre più inaccettabili. Nessuna sinistra può rinascere evitando di affrontare la domanda su come libertà e uguaglianza possano comporsi senza che l'una distrugga l’altra. La risposta a questa domanda, a sua volta, richiede una ricerca sull’identità umana su basi completamente diverse da quelle del passato.

Non vi può essere anzitutto alcun genuino sviluppo della libertà umana se non fondandolo sulla socialità. La libertà, in sostanza, non può essere tale - o meglio non può portare ad alcuna evoluzione sociale - se comprende la libertà di negare o distruggere l’identità altrui. Per una nuova e più evoluta concezione della libertà bisogna perciò scoprire ciò che fonda la naturale socialità umana. È necessario proporre qui un passaggio teorico di notevolissimo rilievo. Il fondamento della socialità va individuato non nella ragione, e tantomeno nella religione, ma in quelle dimensioni non coscienti e non razionali che, se sane, consentono che la libertà di ciascuno sia accresciuta dalla libertà altrui. Questa nuova concezione della libertà deve trovare espressione sul terreno della conoscenza e della cultura (che sono fenomeni largamente legati allo sviluppo sociale complessivo), dell'arte, della sessualità, della vita sociale, dimensioni queste assai lontane dalla ragione e dal calcolo di convenienza, dunque dallo sfruttamento altrui per il proprio arricchimento. 

Affinché questa nuova idea di libertà possa affermarsi, serve l’uguaglianza. L’essere umano deve cioè essere capace di riconoscere istintivamente che, aldilà delle differenze osservabili oggettivamente con i sensi fisici come quelle tra uomo e donna, tra bianchi e neri, aldilà delle differenze linguistiche e culturali, l’altro essere umano è un nostro simile e non un nemico da opprimere o respingere, o un oggetto materiale da sfruttare. Va sviluppata perciò un ricerca nuova sul mondo del non cosciente, sulla realtà dei primi mesi di vita di dell'essere umano (dove non vi sono ragione e pensiero concettuale ma solo affetti e sensibilità), e sulle condizioni in cui questa realtà non cosciente possa smarrirsi, alterarsi, oppure possa svilupparsi nella vita in società. L'uguaglianza potrà allora accompagnarsi alla libertà, e non scontrarsi con essa. Ricostruire il collettivo dunque, ricostruire la socialità, superare l’idea neoliberista per la quale la società non esiste ma esistono solo i singoli individui, ricomporre uguaglianza e libertà, per pervenire ad una “fraternità” che non sia quella della religione cattolica. Quest'ultima, infatti, offre la carità ma nega l'uguaglianza, affermando che le donne non sono uguali agli uomini perché più lontane da dio, che i non battezzati sono diversi dai battezzati perché corrotti dal peccato originale, e che gli uomini virtuosi saranno liberi nella comunanza con dio, dopo la morte, quando l'anima si sarà liberata dai vincoli del corpo.

L'acronimo di Left comprende anche la T della trasformazione, indicando, oltre al titolo della rubrica che ospitava i contributi teorici di Massimo Fagioli, la possibilità della trasformazione umana e di un nuovo ciclo di sviluppo sociale. Il nostro settimanale, è nato e si è affermato grazie a questa teoria, ed è aperto verso tutti coloro che sono disposti a lavorare affinché il sogno della rinascita della sinistra a partire dalle storiche rivendicazioni di libertà e di uguaglianza, diventi una realtà.

In assenza di una cultura politica adeguata all’attuale fase storica, "Liberi e Uguali" rischia di ripercorrere strade fallimentari. Nessuna genuina libertà, lontana da quella di sfruttare e opprimere il prossimo, e nessuna vera uguaglianza, possono affermarsi senza un pensiero sugli esseri umani e sui loro rapporti reciproci radicalmente diverso da quello del passato.


left, n. 52, 30 dicembre 2017

La felicità paradossale dell’Homo oeconomicus

Vacilla sempre di più l’assioma della teoria economica basato sulla razionalità strumentale. Studi e ricerche di mostrano che non può esserci progresso sociale e civile se si osserva la realtà guardando solo all’utile.

di Andrea Ventura



È significativo dell’insoddisfazione per lo stato della disciplina che, da settimane, sulle colonne del Sole 24 Ore si stia svolgendo un “processo all’economia”. Difensori e critici della teoria dominante affrontano questioni quali i modelli previsionali, la finanza, il realismo della teoria ecc. Numerosi articoli discutono l’ipotesi della razionalità del comportamento. Come è noto, infatti, la teoria economica dominante muove dal presupposto per il quale gli esseri umani seguono un comportamento razionale finalizzato alla massimizzazione dell’utilità. Questo presupposto è irrinunciabile: l’ipotesi della razionalità rende i comportamenti umani ripetitivi, prevedibili e rappresentabili matematicamente, dunque consente alla disciplina di presentarsi come “scienza” imitando le scienze della natura non umana. Eppure molto spesso gli esseri umani sono irrazionali e creativi, i bisogni cambiano, mentre la società esprime valori e rivendica diritti, elementi questi che in quel modello di scienza non hanno spazio alcuno.       
     Anche solo scorrendo rapidamente i contributi sul tema, la difficoltà è lampante: da un lato, senza il riferimento al comportamento razionale, l’apparato matematico della teoria si troverebbe privo di fondamento; dall’altro ricerche empiriche sempre più numerose – ricordiamo la recente assegnazione del cosiddetto “premio Nobel” a Richard Thaler – portano gli economisti verso quello che le altre discipline sociali considerano del tutto ovvio: gli esseri umani sono condizionati dai valori e dalle preferenze sociali del gruppo a cui appartengono, oppure hanno esigenze, affetti e emozioni che “distorcono” la logica razionale. Insomma non vogliono, non sono capaci o non sono molto interessati ad essere “uomini economici”.
    Va ricordato che la teoria mainstream non si limita a studiare le scelte economiche, ma pretende di analizzare il comportamento umano in ogni ambito della società, dalle scommesse di gioco, alle scelte finanziarie, a quella di rispettare o meno la legge, fino ai rapporti familiari. Essa cioè non traccia distinzione alcuna tra i criteri di comportamenti nell’uso ottimale di un mezzo materiale e il comportamento dell’individuo in società. La teoria economica si propone dunque come antropologia, non come strumento per discutere di un aspetto dell’organizzazione sociale.
    Sebbene nella letteratura specialistica, come anche negli articoli pubblicati nel “processo” da cui abbiamo preso le mosse, siano più numerosi quelli che criticano l’ipotesi della razionalità di quelli che la difendono, non si va al cuore del problema: è realmente la caratteristica specifica degli esseri umani quella di seguire un comportamento razionale, oppure la nostra specie si distingue dalle altre specie viventi proprio per la presenza di comportamenti che razionali non sono affatto? In altri termini, questa carenza (o fallimento) della razionalità è un limite, una distorsione dal comportamento ottimale, oppure è la caratteristica che distingue gli uomini dagli animali, questi sì con comportamenti razionali, ripetitivi e dunque largamente prevedibili? Infine, le forme più alte di espressione umana – dall’arte, alla ricerca scientifica, all’interesse per gli altri –, sono veramente espressione della razionalità, oppure fanno capo a qualcosa di profondamente diverso da essa?

È senso comune disprezzare un individuo che assume un comportamento freddo, calcolatore e perfettamente razionale. Studi psichiatrici e psicologici indicano inoltre, con sempre maggiore precisione, che la mancanza di empatia e di interesse per il prossimo sono indici di patologie mentali, anche gravi, mentre gli stessi studi di economia suggeriscono da tempo l’esistenza di un “paradosso della felicità” per il quale, in estrema sintesi, in Occidente il benessere materiale (per il quale indubbiamente la razionalità è indispensabile) si associa sempre più al vuoto interiore e all’insoddisfazione sul piano dei rapporti affettivi. Il passo è breve per riconoscere che, per un essere umano sano, la razionalità è adatta all’uso dei mezzi materiali, mentre non lo è affatto nel rapporto interumano. In altri termini, se è normale calcolare razionalmente i pro e i contro nella scelta di un’automobile o aumentare il consumo di zucchine se cala il prezzo delle zucchine stesse, non lo è sostituire un partner con un altro perché ha un reddito più elevato; non lo è neanche scegliere di dedicarsi ad attività criminali perché, come afferma uno dei capostipiti di questo filone di pensiero, Gary Becker, il soggetto prevede di ottenere grazie ad esse un guadagno maggiore rispetto alle attività legali, anche tenendo conto della probabilità di finire in galera.Se non vogliamo identificare il progresso civile con la riduzione a mercimonio dell’intera società, va dunque tracciata una distinzione: sono le cose inanimate (e talvolta anche gli animali) che si usano e si consumano ai fini dell’utilità pratica, non le persone. I primi servono a soddisfare il benessere del corpo, mentre i rapporti tra le persone consentono, a certe condizioni, di realizzare l’identità di ciascuno nella socialità. E anche quando un essere umano è “utile” per il benessere fisico di un altro, sempre di essere umano si tratta, non di un oggetto materiale. Eppure questa distinzione tra cose e esseri umani – e dunque la distinzione tra ambiti dove il comportamento razionale è effettivamente adatto ad assicurare il benessere del soggetto, e ambiti dove prevalgono dimensioni e motivazioni non riconducibili alla razionalità –, nella teoria dominante è del tutto assente. Quest’ultima si trova così in una contraddizione irrisolvibile: o muove da una concezione “ideale” dell’individuo che psichiatria, psicologia e senso comune considerano come un malato di mente (o un criminale potenziale); oppure, abbandonandola, rimane priva del suo apparato analitico. La terza possibilità sarebbe quella di distinguere appunto tra il comportamento razionale, adatto all’uso dei mezzi materiali, e quello non razionale nella socialità: ma questa via è preclusa perché la teoria economica dominante pretende di occuparsi con lo stesso metodo di tutte le scelte, non dell’uso dei mezzi per il benessere materiale.

È molto razionale lasciar morire i migranti nei campi della Libia, lontano dal nostro sguardo, come lo è speculare sulle sorti di intere economie, sui titoli finanziari, sfruttare il lavoro e la creatività altrui, rovesciare e umiliare governi (dal Cile degli anni settanta alla Grecia odierna) perché non rispettano la logica del libero mercato o perché non sono sufficientemente competitivi nella globalizzazione. Anche la guerra può essere molto razionale: consente di risolvere rapidamente dispute complesse e offre lucrosi profitti ai mercanti di morte. Il dominio della razionalità troppo spesso si accompagna alla legge del più forte, dunque è molto distruttivo. Non può esserci progresso sociale e civile, e neanche un’economia al servizio dei bisogni umani, se non si demolisce l’idea fondante della teoria economica che assume come comportamento “ottimale” quello orientato alla massimizzazione dell’utilità pratica, cioè quello dell’uomo economico.