martedì 26 maggio 2020

left 16, 17 aprile 2020

Soluzioni all’altezza dei problemi

Paghiamo ancora le conseguenze del modo in cui fu affrontata la crisi del debito del 2011, che ha provocato l’ascesa della destra xenofoba e l’impoverimento dei paesi del Sud. La situazione odierna è più drammatica di allora. Mi ci sono margini di manovra

di Andrea Ventura

Le menzogne fanno male e rendono difficili i rapporti tra i popoli. Quando nel 2011 scoppiò la crisi del debito, le classi dirigenti dei pasi del Nord, e della Germana in particolare, raccontarono ai loro elettori che la responsabilità del disastro fosse dei greci e degli altri paesi dissoluti e spendaccioni. L’acronimo Piigs, utilizzato per indicare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, e che richiama l’inglese Pigs (maiali), è indicativo un atteggiamento ancora oggi assai diffuso. La realtà era invece un po' diversa: i debiti dei cosiddetti Piigs avevano (e hanno tutt’ora) un corrispettivo nei crediti concessi dalle banche tedesche, francesi, belghe, olandesi, per sostenere le esportazioni da quei paesi verso la periferia europea, e per lucrare sulle differenze nei tassi di interesse. All’indebitamento del Sud, nella sostanza, corrispondevano esportazioni, profitti e benessere per i paesi del centro Europa, le cui banche però, allo scoppio della crisi, si trovarono sull’orlo del fallimento. Certo, per la Merkel sarebbe stato difficile chiedere ai contribuenti tedeschi di coprire i buchi nei bilanci delle banche del paese. Così, piuttosto che affrontare il problema riconoscendo il reciproco interesse che lega creditore e debitore in ogni rapporto di indebitamento, le fu più facile accusare i greci di vivere a sbafo, chiedere all’Europa di salvare la Grecia, e fare in modo che i soldi spesi per questo cosiddetto salvataggio, passando per la Grecia, tornassero nelle loro banche. Una patita di giro, insomma, ma forse, meglio, una presa in giro che ha avvelenato i rapporti tra i popoli del continente.

Dalla crisi odierna non si esce alimentando ancora queste contrapposizioni. Purtroppo, però, esse si sono pericolosamente diffuse nelle opinioni pubbliche dei paesi europei, ciascuna delle quali sembra incapace di comprendere i drammi altrui. L’incapacità di agire dell’Europa, nella sostanza, è anche il risultato dei veleni e delle bugie del decennio trascorso. Pensiamo alla Germania: il paese non avrebbe alcun beneficio dalla fine dell’Europa. Una catastrofe in Italia, la cui industria fornisce sofisticati componenti per le sue esportazioni, indebolirebbe le stesse industrie tedesche. La Germania, inoltre, possiede una banca, la Deutsche Bank, che ha nel suo bilancio derivati di dubbio valore: di recente è stata definita una bomba ad orologeria nel cuore dell’Europa. L’aggravarsi della crisi potrebbe farla esplodere. Il nostro dramma è dunque anche quello della Merkel: essa, per il clima prevalente nella sua opinione pubblica e per i vincoli che la costituzione tedesca pone a trasferimenti verso altri paesi europei, non può accettare che l’Europa si doti di strumenti di condivisione dei rischi, ma un intervento urgente sarebbe necessario tanto per noi quanto per lei.

Il dilemma qui sommariamente delineato può essere facilmente esteso ai rapporti che in un sistema di mercato legano non solo paesi e aree geografiche, ma anche i singoli individui. Si ha in questi giorni lo svelamento di un devastante paradosso. Il pensiero economico dominante afferma che ciascuno guadagna in funzione delle sue capacità: di qui l’idea che il ricco è tale perché sarebbe più bravo e frugale del povero. Il normale funzionamento del mercato, inoltre, fornisce l’illusione che ciascuno di noi sia circondato da oggetti materiali e da servizi di cui può disporre in cambio di un pagamento, assicurandogli sicurezza e benessere. Quello che il singolo spesso non vede, e che il pensiero economico dominante nasconde, è che dietro i beni di cui disponiamo ci sono delle persone che li producono e li offrono. I rapporti che stabiliamo con le cose, in sostanza, nascondono rapporti con delle persone. Quando Marx parlava di feticismo delle merci, illustrava questo concetto: a differenza dei sistemi arcaici basati sull’agricoltura, dove la sussistenza era assicurata dal rapporto diretto con la natura, nell’economia di mercato dipendiamo dallo scambio di merci e dunque dal lavoro altrui. Siamo all’interno una rete di rapporti sociali la cui essenza non ci è immediatamente evidente. 

Oggi possiamo vedere quanto il benessere, la salute e la libertà di ciascuno debba accompagnarsi a quella degli altri. La qualità dell’ambiente (naturale e sociale) in cui viviamo non dipende dal singolo, ma dal nostro livello complessivo di civiltà. Restando all’economia, se si spezza la catena che lega il reddito di molti di noi alla spesa altrui, e i servizi che lo Stato distribuisce alle tasse che noi stessi paghiamo, non è facile ripristinarla. Se le fabbriche si fermano, i negozi chiudono, gli spostamenti si bloccano, e se infine la società si disgrega, il nostro benessere svanisce come neve al sole. E infine, perché qualcuno può disporre ancora di un reddito, e altri improvvisamente non hanno più di che nutrirsi? Perché un imprenditore che deve chiudere la sua attività dovrebbe saldare il debito con un fornitore, una banca, o pagare un affitto? Le ingiustizie lacerano in modo permanente il tessuto sociale, ricordiamolo, e sono foriere di ulteriore disgregazione. Gli esempi si possono moltiplicare a piacimento: senza gli altri, senza una vita pubblica basata su qualcosa che supera l’interesse economico, non solo la qualità della vita, ma anche la nostra stessa esistenza è in pericolo. Il pensiero economico dominante, piuttosto che illustrare questa semplice verità, l’ha nascosta, e le politiche seguite in questi decenni, piuttosto che rafforzare le protezioni sociali, le hanno indebolite. Oggi dunque, o si riconosce la necessità di affrontare questa emergenza – che chiama in causa sia le politiche europee, sia quelle nazionali – sulla base di principi assai diversi da quelli che ci hanno condotti fin qui, oppure le conseguenze saranno devastanti per tutti: certo lo saranno per i più poveri, ma lo saranno anche per i paesi e per i ceti più ricchi, il cui benessere non potrà essere garantito da una società e da un’Europa in dissoluzione. 

Purtroppo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, dall’Eurogruppo del 7-9 aprile - che ha preparato il vertice dei leader europei del 23 aprile -, non sono uscite soluzioni all’altezza dei problemi. Paghiamo ancora le conseguenze del modo in cui fu affrontata la crisi del 2011. A seguito di essa abbiamo assistito all’ascesa della destra xenofoba e antieuropea - sempre pronta a lucrare consensi scaricando la rabbia della gente su altri popoli e paesi -, e all’impoverimento dei paesi dell’Europa del sud. La crisi odierna è assai più drammatica di quella di allora. Eppure, se da un lato sono evidenti le evidenti fratture tra i paesi e le difficoltà nel superarle, la Banca centrale europea sta cercando di evitare una nuova crisi acquistando titoli del nostro debito pubblico. Il programma di emergenza di cui si è dotata gli offre margini di manovra maggiori del passato. Il consiglio direttivo della Banca opera a maggioranza, e al momento la maggioranza è interessata a salvare la moneta unica. Ma, certo, non basterà. La mancanza di consapevolezza dei legami che abbiamo in quanto europei, e in modo più vasto in quanto esseri umani, ci potrà costare estremamente cara. 

left 14, 3 aprile 2020

Se perfino Draghi vuole più debito pubblico

Le banche devono emettere moneta senza vincoli, ha detto l’ex presidente della Bce, finora paladino dell’ortodossia. Da qui la necessità di una revisione dei trattati vigenti dell’Ue.

di Andrea Ventura

È utile illustrare la continuità tra la crisi del 2008 e la condizione attuale dell’economia globale. Il 2008 ha visto l’esplosione di una crisi finanziaria senza precedenti, che è stata affrontata riproponendo, con poche correzioni, le stesse dinamiche speculative che avevano condotto al disastro. Allora il collasso completo della finanza fu fermato grazie alle politiche ultraespansive delle banche centrali, che fecero affluire denaro a bassissimo costo al sistema finanziario. Queste politiche, soprattutto in Europa, furono accompagnare da restrizioni fiscali che causarono una riduzione dei redditi per le classi meno abbienti e un indebolimento dei servizi pubblici. Il denaro emesso dalle banche centrali, dunque, più che sostenere l’economia, restava nel circuito della finanza, arricchendo i già ricchi, alimentando la speculazione e sostenendo artificialmente i corsi delle azioni. Ma fornire moneta a basso costo a una finanza già in crisi è come fornire eroina ad un tossicodipendente. Il meccanismo è relativamente semplice: quando la liquidità è abbondante, i tassi di interesse sono generalmente bassi e gli investitori cercano rendimenti più elevati investendo in attività ad alto rischio; il sistema finanziario allora diviene via via più fragile e chiede maggiore liquidità per sostenersi. In breve, l’emissione di moneta, in assenza la crescita, serve solo a rinviare la resa dei conti. 

In queste settimane, ad una situazione già precaria, si sono aggiunte le conseguenze dell’epidemia. Scricchiolii nella finanza americana, infatti, erano già avvertibili nel settembre scorso, quando per motivi non del tutto chiari la Federal Reserve fu costretta ad emettere liquidità per 260 miliardi di dollari. Tra febbraio e marzo, con l’avanzare della pandemia, sui mercati azionari di tutto il mondo si è diffuso il panico e gli indici di borsa sono crollati. L’indice americano, in particolare, è sceso di un terzo dal massimo storico raggiunto il 19 febbraio. Il 12 marzo la Federal Reserve annunciava interventi per altri i 1.500 miliardi (circa l’equivalente delle operazioni effettuate dal 2008 ai primi mesi del 2010), consumati interamente in due settimane. Dieci giorni dopo la Fed dichiarava di essere disposta ad intervenire ancora, senza alcun limite. Sempre negli Stati Uniti, la settimana scorsa il Congresso ha approvato un piano di sostegno ai cittadini, ai servizi pubblici e alle imprese di oltre 2.000 miliardi di dollari, una cifra che si avvicina all’intero nostro debito pubblico, più del doppio di quanto fu speso nel 2008. Si prevede che questo stanziamento possa essere sufficiente solo per pochi mesi. Vi è un limite alla spesa statale e alla moneta che può emettere una banca centrale? Certamente no, ma il sistema finanziario non può reggersi su della carta priva di valore: il valore della moneta è basato sulla fiducia che la moneta stessa possa trovare un corrispettivo in un bene reale. L’economia perciò deve funzionare e il sistema finanziario deve essere solido. In tempi normali, i prestiti che le banche concedono devono affluire a investimenti che producono dei redditi in grado di ripagarli; in assenza di questa condizione, il crollo è possibile in qualsiasi momento. L’immensa liquidità che già ora si rende necessaria, indica dunque che il sistema finanziario americano, al di là dell’emergenza sanitaria, non ha soddisfatto questa condizione: esso potrebbe essere sull’orlo del baratro. La Federal Reserve svolge ormai la funzione di Banca centrale per l’economia di tutto il mondo. Un cataclisma negli Stati Uniti avrebbe effetti inimmaginabili.

Quello che vale per gli Stati Uniti vale anche per l’Europa, dove le pratiche della finanzia non sono state molto diverse. Alcune grandi banche (tedesche e francesi in particolare) versano da tempo in condizioni precarie. Non facciamoci dunque ingannare: i nostri sistemi economici potrebbero essere travolti non tanto dal Coronavirus, quanto dalle conseguenze di questi decenni di neoliberismo. Non vi sono state distruzioni materiali: un sistema economico ben funzionante potrebbe sostenereun periodo di fermo parziale della produzione. Per chi chiude o perde il lavoro sono possibili finanziamenti pubblici e privati, che saranno restituiti alla ripresa delle attività. Sono anche possibili finanziamenti all’economia e ai governi con emissioni nette di moneta. Ma oggi queste strade non sembrano facilmente percorribili, sia perché, appunto, le grandi istituzioni finanziarie private non sono solide – pertanto il calo della produzione può travolgerle –, siaperché in un’Europa mal costruita questi interventi richiederebbero un complesso percorso di revisione dei trattati vigenti. 

Sul Financial Times del 25 marzo scorso, Mario Draghi si è espresso a favore della crescita dei debiti pubblici per sostenere le perdite dei privati: come in guerra, ha affermato, “è compito del bilancio statale proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire”. A suo avviso le banche devono emettere moneta senza vincoli, sostenendo disoccupati, imprese e attività economiche che rischiano di essere cancellate. Debito pubblico e finanza privata, insomma, dovrebbero agire in modo coordinato per sostenere l’economia. Come molti hanno sottolineato, la presa di posizione dell’ex governatore della Bce costituisce una svolta radicale. Draghi è sempre stato un fedele guardiano dell’ortodossia. Ma la posta in gioco oggi è indubbiamente altissima; la sua uscita fa il paio con una dura presa di posizione di Conte nei confronti della Merkel, accusata nel corso del vertice europeo del 27 marzo di guadare la realtà odierna con gli occhiali di dieci anni fa. L’Europa è di fronte ad uno snodo di importanza decisiva: o cambia o si disgrega. La gabbia dei trattati e i vincoli agli interventi della BCE sono del tutto inadeguati ad affrontare la crisi in corso, e Mario Draghi ha ragione a indicare la necessità del loro superamento.

Eppure, al di là dell’emergenza, alcune cose vanno tenute a mente. Forse è presto per parlarne, ma in questo falò dei debiti privati prospettato da Draghi – cioè in questo spostamento del debito dal settore privato a quello pubblico – non vorremmo che fossero compresi i buchi di bilancio occulti della finanza deregolamentata che si sono formati nei decenni scorsi. Le banche dell’Occidente sono piene di titoli speculativi che la crisi rischia di ridurre a carta straccia. Draghi proviene da questa finanza sull’orlo della bancarotta, non dimentichiamolo. Inquieta che la Lega e parte del nostro sistema politico lo invochino come uomo forte per questo momento di crisi, o come futuro presidente della Repubblica. Dopo la crisi sarà invece necessario ripartire seguendo princìpi economici diversi, e sarà anche bene affidare le leve del potere a persone non responsabili dei disastri del passato. Non è vero che questa è un’emergenza simile a quella causata da una guerra, passata la quale si potrà riprendere a fare affari come prima. 

left on line, 25 marzo 2020

left n. 11, 13 marzo 2020

Salute pubblica first, il neoliberismo ha fallito

L’epidemia di coronavirus, come la crisi del 2008, falsifica la teoria secondo cui gli automatismi del mercato debbano governare l’economia. Oggi più che mai è dimostrato che il benessere e la qualità della vita dipendono in primis da uno Stato che funziona

di Andrea Ventura


In un momento così drammatico e incerto, è difficile scrivere di economia. Il pezzo va inviato il lunedì, è impaginato martedì e arriva al lettore due o tre giorni dopo, quando la situazione potrebbe essere molto diversa. Ecco, forse per discutere di economia dovremmo partire proprio da questa parola: incertezza. In una situazione troppo confusa posso attendere la settimana successiva per decidermi a scrivere il mio articolo, ma se, in un contesto di incertezza generalizzata, un numero consistente di imprenditori, consumatori e famiglie rimandano le proprie decisioni perché il futuro è troppo incerto, l’economia si blocca. Anche se i soldi fossero sempre a disposizione sui conti delle famiglie e delle imprese, anche se le strutture produttive fossero perfettamente funzionanti e i lavoratori pronti a entrare nelle fabbriche, il rinvio delle spese implica nell’immediato redditi ridotti per chi produce quelle merci, non venendo esse più acquistate. L’attività economica allora si contrae, le aspettative peggiorano ulteriormente e si genera una crisi. Nella sostanza la paura della crisi può essere essa stessa la causa della crisianche perché la speculazione anticipa gli eventi e cavalca le paure.. Al di là di quello che può succedere oggi - che all’incertezza soggettiva si aggiungono gravi circostanze oggettive - abbiamo qui un nodo teorico fondamentale, che differenzia la teoria neoliberista da quella keynesiana. La prima crede nella stabilità dei mercati, la seconda sottolinea l’incertezza e l’instabilità dell’economia capitalistica. La prima pensa di conseguenza che gli automatismi del mercato debbano governare l’economia, la seconda che per evitare crisi e disoccupazione siano necessarie politiche pubbliche di stabilizzazione.

Seguire la prima tesi, come è stato fatto negli ultimi decenni, ha avuto conseguenze di enorme portata sui nostri sistemi sociali ed economici: in Europa i governi hanno adottato vincoli di bilancio e rinunciato alla sovranità monetaria, mentre in tutto il mondo si è pensato che i mercati potessero sviluppare strumenti autonomi per proteggersi dall’incertezza. Anche da qui ha avuto origine quell’immensa mole di titoli derivati che ha generato la crisi del 2007-2008: il rischio individuale, trasferito a livello sistemico, ha prodotto il crollo.
Quella crisi ha mostrato quanto il modello neoliberista fosse fallimentare. Essa, inoltre, è stata in parte arginata proprio grazie all’intervento pubblico: governi e banche centrali hanno mobilitato una cifra pari a 70 volte quella spesa dagli Stati Uniti con il Piano Marshall per ricostruire l’Europa devastata dalla guerra. In particolare, le banche centrali hanno stampato migliaia di miliardi di euro e di dollari per sostenere un sistema finanziario che tutt’ora versa in condizioni assai precarie, mentre, certo in malafede, sempre con l’idea che i governi nuocciono all’economia, in molti paesi sono mancati i soldi per i bisogni dei cittadini.
Oggi un altro evento potenzialmente catastrofico sta investendo il nostro paese, con possibili effetti anche sull’economia globale. Come avviene nei sistemi complessi, infatti, perturbazioni e fratture in un punto si trasmettono e si amplificano, e possono generare conseguenze imprevedibili. Sebbene siano di natura profondamente diversa, la crisi del 2008 e il dramma di queste settimane hanno un elemento comune: essi rappresentano la falsificazione delle tesi neoliberiste. Nell’arco di poco più di un decennio, due eventi hanno mostrato che per il benessere dei cittadini è necessario l’intervento pubblico.
Negli anni seguenti al 2008 la risposta, dapprima in America e poi in Europa, fu l’enorme offerta di liquidità da parte delle banche centrali, a vantaggio degli istituti di credito e della finanza. È complesso illustrare ora le distorsioni provocate da queste politiche, ma è certo che esse hanno alimentato la possibilità dei ricchi di arricchirsi ulteriormente, mentre la massa della popolazione di benefici ne ha ricevuti ben pochi. Oggi è a rischio in primo luogo la salute pubblica, e in secondo luogo l’attività economica. L’intervento governativo dovrebbe anzitutto proteggere coloro che necessitano dell’assistenza sanitaria, e in secondo luogo chi ha perso le proprie fonti di reddito. Vanno difese in particolare quelle fasce di popolazione prive di protezioni sociali, che sono già nell’incertezza esistenziale. Vale per loro, ma vale per tutti: non vi è protezione dell’individuo senza sanità e assistenza pubblica, e senza il potenziamento di ogni forma di sicurezza collettiva. Mai come ora è evidente l’insensatezza dell’affermazione della Thatcher secondo cui “la società non esiste, esistono soltanto gli individui con le loro famiglie”, e di quella reganiana secondo cui “lo Stato è il problema e non la soluzione”. Queste affermazioni, che hanno segnato un’epoca, vanno definitivamente lascate alle nostre spalle. Oltre l’emergenza, che mostra quanto il singolo individuo sia fragile se isolato dai suoi simili, va ripesato alla radice il ruolo dell’intervento pubblico nell’economia. Peraltro, in un sistema mondiale sempre più interconnesso, l’azione collettiva è sempre più necessaria: vale per le epidemie, per l’ambiente, per gli squilibri macroeconomici, per ogni prospettiva di controllo dei flussi finanziari, per la difesa della privacy dai colossi del web, vale anche per i paesi europei nei confronti delle tensioni geopolitiche. Si deve comprendere che quell’errore di composizione, fatale per le tesi sulla “mano invisibile” del mercato – che manca appunto di riconoscere le conseguenze a catena dell’incertezza – è presente anche nel modo in cui si affrontano i numerosi e drammatici problemi che lo sviluppo umano deve fronteggiare: in troppe circostanze, oggi, o ci si salva insieme, o non si salva nessuno. 

Ora, restando all’emergenze di queste settimane, è necessario che il potenziale di risorse mobilitabile dalle banche centrali sia a disposizione dei governi e dei cittadini. In assenza di questa garanzia, gli interventi che il nostro governo sta attuando a sostegno della sanità e dell’economia – ancora peraltro insufficienti - si risolveranno in una nuova crisi del debito, con conseguenze che possono essere assai gravi per l’Europa intera. Questa garanzia implica il superamento, una volta per tutte, del divieto della Banca centrale europea di finanziare i debiti statali. Questo sostegno deve essere assicurato oggi al nostro paese, e domani ad altri paesi che dovessero incorrere in problemi di questa portata. Va chiarito che, in un sistema finanziario moderno, i limiti al sostegno che la banca centrale può fornire alle spese statali non hanno alcun rapporto con i vincoli del bilancio pubblico, o del bilancio della banca centrale. Devono essere immediatamente abbandonate le politiche di austerità, che tanti danni hanno già provocato, ripensando alla radice le regole dell’Europa. Va sviluppato un pensiero sociale all’altezza dei problemi del XXI secolo. Senza di questo, una nuova crisi è inevitabile. Alla crisi di dieci anni fa è seguita l’ascesa della destra nazionalista e xenofoba: quella che potrebbe scatenarsi oggi rischia di segnare la fine del progetto europeo.

lunedì 24 febbraio 2020

left n. 3, 17 gennaio 2020

Alla conquista del tempo perduto

La vita lavorativa aumenta e con essa le forme di sfruttamento. Per questo la diminuzione dell’orario di lavoro è un tema decisivo. Ma, per mettere al centro i bisogni e le esigenze delle persone, va abbandonata l’idea che svolgere un mestiere significhi espiare il peccato

di Andrea Ventura

La questione del rapporto tra orario di lavoro e tempo libero è di difficile trattazione. La tendenza storica, indubbiamente, vede la riduzione del tempo della vita dedicato al lavoro. Dagli anni in cui Marx ed Engels denunciavano il lavoro notturno delle donne e dei bambini, leggi e lotte operaie hanno aumentato la protezione dei lavoratori e posto limiti alla giornata lavorativa. Nei principali paesi industrializzati si lavorava circa 65-70 ore settimanali attorno al 1870, 45-50 negli anni cinquanta del secolo scorso, per arrivare a 38-42 trent’anni dopo; inoltre, con l’aumento dell’età scolare e del periodo pensionistico, la vita lavorativa delle persone si è anch’essa contratta. Sebbene questa sembri una tendenza di lungo periodo, negli ultimi decenni essa sembra essersi arrestata, se non invertita. Al contempo sono cresciute quelle forme di sfruttamento esterne alla fabbrica, dove i lavoratori sono spinti a rendersi autonomi, quasi fossero ditte individuali, e nei fatti sono sottoposti a pressioni che li spingono a dilatare il tempo prestato al lavoro. Ne fornisce una drammatica rappresentazione l’ultimo film di Ken Loach, Sorry we missed you: schiavi di anonimi algoritmi e dell’ordine neoliberale, autisti, tassisti, addetti alle consegne a domicilio, vivono in condizioni di sfruttamento insostenibili. Per non parlare poi della nuova categoria del “lavoro gratuito”, dove sotto la forma del tirocinio, per costruirsi un curriculum, oppure in cambio della promessa di un’occupazione retribuita nel futuro. 
La discussione sul tempo di lavoro va pertanto inserita in un contesto in continua evoluzione, dove un ruolo decisivo hanno i valori dominanti, la forza contrattuale dei lavoratori e il progresso tecnologico. Sotto quest’ultimo aspetto, una delle ragioni che giustifica la riduzione del tempo di lavoro è l’espulsione della forza lavoro dai processi produttivi causata dalle nuove tecnologie. Queste tendono anche a rendere incerta la divisione tra tempo libero e tempo di lavoro: in molte occupazioni è possibile svolgere mansioni fuori dal luogo e dai tempi di lavoro, con effetti non necessariamente negativi, ma che rendono difficile calcolare quante ore effettivamente l’individuo lavori e quante ne dedichi alla vita privata. L’introduzione nei processi produttivi delle tecnologie dell’informazione, peraltro, non ha ancora dispiegato tutti i suoi effetti. È prevedibile che queste tendenze possano accentuarsi; in particolare, è prevedibile che crescano le persone che rischiano di restare fuori dal mondo del lavoro, oppure che, non protette perché isolate, finiscano per subirne solo gli effetti negativi. La risposta a queste preoccupazioni sembra semplice: lavoriamo tutti un po' meno, dedichiamo più tempo agli affetti, alle amicizie, allo svago e alla cultura, creando così anche maggiori opportunità per gli altri. 
Eppure le cose non sono così semplici, né sul piano tecnico né su quello culturale. Anzitutto l’idea che esista una quantità fissa di lavoro da svolgere, e che questa possa essere divisa a piacimento, è troppo semplicistica. Nelle fabbriche la riduzione dell’orario di lavoro richiede la riorganizzazione della produzione, una diversa divisione delle mansioni e un maggior scambio di comunicazioni tra gli occupati. Se poi l’obiettivo è quello di migliorare la vita delle persone, questa riduzione andrebbe ottenuta senza penalizzare il salario. Si pone in sostanza il problema di come dividere i costi di questa scelta tra i lavoratori, le imprese e la collettività. Sappiamo benissimo quale massiccia opera di redistribuzione del reddito a favore delle classi più ricche abbiano generato le politiche neoliberiste. La polarizzazione della ricchezza è anche legata a questi sviluppi tecnologici, che lasciano il potere di produrre ricchezza e di controllare i processi sociali nelle mani di gruppi ristrettissimi di persone. L’obiettivo della riduzione dell’orario di lavoro, in sostanza, non può essere slegato da interventi radicali a vasto spettro volti a contrastare l’arricchimento ingiustificato dei più ricchi, che invece sembra essere ormai una caratteristica strutturale delle nostre economie. Nonostante tutto questo, anche per l’incalzare della crisi, molti paesi e molte realtà industriali si muovono in questa direzione. Belgio, Olanda, Francia, Germania, Svezia e altri paesi hanno sperimentato a vari livelli la riduzione dell’orario di lavoro. I casi sono numerosi e andrebbero studiati uno ad uno, eppure sembra proprio che smentiscano i profeti di sventura: i problemi organizzativi non si sono mostrati insormontabili, gli effetti negativi sui salari sono stati assorbiti, la produttività dei lavoratori è aumentata spesso in maniera inaspettata, insomma i casi di successo non mancano. 
Certo, in molte circostanze la scelta del tempo da dedicare al lavoro è individuale, eppure anche qui conta il contesto. In una fase segnata dall’incertezza e dalla riduzione delle protezioni sociali, il singolo è spinto a dedicare più sforzi al guadagno individuale. La rivendicazione del “lavorare meno lavorare tutti” va pertanto accompagnata alla difesa del ruolo pubblico, dei servizi sociali e dei diritti. Il lavoratore, come recita la nostra Costituzione, ha diritto ad una retribuzione “in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, libera anzitutto dalla necessità di accettare tempi di lavoro che assorbono tutte le energie della vita. 
Più a fondo - e questo è un punto decisivo -, le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro devono accompagnarsi a cambiamenti radicali che investano il senso della vita. L’impegno sul lavoro per secoli è stato un collante sociale fondamentale. Infatti, mentre nella società feudale le classi dominanti si distinguevano da quelle oppresse per non aver bisogno di lavorare, il capitalismo si è affermato con l’idea protestante che tutti debbano lavorare. Imprenditori e lavoratori, uguali in quanto figli di Dio, si sacrificano insieme nel lavoro di fabbrica: non però per il proprio benessere, ma per scontare il peccato originale e servire il Signore. L’ozio è un peccato, mentre il lavoro purifica l’anima. Questa concezione del lavoro oggi è ormai dimenticata, ma l’attività lavorativa troppo spesso serve a coprire un vuoto interiore, vuoto che forse è proprio l’avvelenato retaggio di questa concezione religiosa dell’esistenza. 
Il lavoro non serve né per servire Dio, né per scontare il peccato, coprire un vuoto esistenziale o raggiungere la felicità. Piuttosto, esso deve consentire di vivere comodamente, favorendo la partecipazione alla vita sociale del lavoratore invece che ostacolarla. La realizzazione individuale non dipende dall’arricchimento economico, ma dalla qualità dei rapporti interumani. Vale qui la distinzione tra bisogni ed esigenze proposta da Massimo Fagioli. Queste intuizioni erano presenti in una parte della sinistra italiana degli anni sessanta e settanta del secolo scorso: le troviamo, ad esempio, sia nella proposta di Riccardo Lombardi, esponente socialista di primissimo piano, della società “diversamente ricca”, sia in alcune rivendicazioni operaie di quegli anni, come le 150 ore retribuite per il diritto allo studio. Lo stesso Berlinguer, segretario del Partito comunista, affermò che a suo avviso l’austerità era semplicemente la scelta dell’operaio di stare con la sua ragazza piuttosto che fare degli straordinari per comprarsi una cosa inutile. Oggi la parola austerità ha assunto il sinistro significato della compressione dei salari e dei diritti: dunque non una scelta di vita, ma la costrizione ad una vita di stenti e di incertezza materiale. Affinché possa riprendere quella tendenza storica alla riduzione del tempo del lavoro, sono necessarie una nuova cultura e una nuova fase di lotte: va ripensata l’organizzazione economica della società, va posta al centro la questione della qualità della vita in tutti i suoi aspetti.

giovedì 16 gennaio 2020

left n. 51, 20 dicembre 2019

BALLE DI NATALE
Chi regola il mercato. Il falso mito della mano invisibile

Secondo la teoria neoclassica, il mercato sarebbe una macchina perfetta, non programmata da nessuno, e fonte di libertà, giustizia e benessere. Di qui il progetto neoliberista di regolare diritti, istituzioni e politiche per favorirne il funzionamento.

di Andrea Ventura 

Il nome di Adam Smith e la tesi della “mano invisibile” sono strettamente associati: il fondatore della scienza economica sarebbe anche il sostenitore dell’efficienza del mercato. Eppure si tratta di un falso: per quanto possa sembrare strano, egli non ha mai sostenuto che il mercato opera come “mano invisibile” per regolare i rapporti economici. 
Smith è autore di diversi saggi e di due corposi volumi: La teoria dei sentimenti morali(1759) e La ricchezza delle nazioni(1776). All’interno dei suoi scritti, la metafora della mano invisibile compare solo tre volte e non si riferisce mai al funzionamento del mercato. La prima volta la troviamo in un saggio sulla storia dell’astronomia, dove Smith ironizza sui popoli primitivi che spiegano con “la mano invisibile di Giove” fenomeni metereologici come tuoni, fulmini e bel tempo. La seconda è nella Teoria dei sentimenti morali, dove si sostiene l’ardita tesi per la quale i ricchi, consumando beni di lusso, forniscono opportunità di lavoro ai poveri, e pertanto “sono guidati da una mano invisibile” a distribuire i beni necessari in modo quasi equo, promuovendo gli interessi di tutta la società. La terza è nella Ricchezza delle nazioni, dove si afferma che per motivi di sicurezza gli imprenditori preferiscono investire in patria piuttosto che all’estero, favorendo l’economia nazionale: l’imprenditore “mira solo al proprio guadagno ed in questo come in altri casi è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientrava nelle sue intenzioni”. Come si può facilmente osservare, né il politeismo, né i consumi delle classi più agiate, né la scelta di investire in patria o all’estero, hanno qualcosa a che vedere col funzionamento del mercato. 
Quale è invece l’idea della mano invisibile che si è affermata oggi? La teoria economica neoclassica, quella che si studia in tutte le università, nasce alla fine dell’Ottocento cercando di riprodurre i successi della fisica e dell’astronomia di quel secolo, imitandone il metodo e facendo ampio uso della matematica. Questa teoria considera che dal lato della domanda di merci vi siano i consumatori che cercano di massimizzare la loro utilità, e dal lato dell’offerta le imprese che cercano di massimizzare il profitto. Anche il lavoro, il risparmio e la moneta sono scambiati secondo le leggi della domanda e dell’offerta. L’obiettivo della teoria è dimostrare che, in condizioni ideali, i mercati funzionano in modo efficiente: non ci sarebbero disoccupati, ciascuno avrebbe un reddito che corrisponde al suo contributo alla produzione, tutti troverebbero ciò di cui hanno bisogno, e nessuno potrebbe arrogarsi il diritto di decidere ciò che è bene o male per gli altri. Insomma, ciascuno pensa solo a sé stesso, e il mercato genera un esito benefico per tutti. La mano invisibile del mercato è questo: una macchina perfetta, non programmata da nessuno, grazie alla quale avremmo libertà, giustizia e benessere. Di qui il progetto neoliberista di regolare diritti, istituzioni e politiche per favorire il funzionamento del mercato. 
Smith dunque non fu l’ideatore della tesi per la quale il mercato opera come una mano invisibile, né peraltro concepiva l’economia come si fa attualmente. In un bel volumetto di qualche anno fa, Alessandro Roncaglia (Il mito della mano invisibile,Laterza 2005) colloca l’origine di questo falso in un articolo di Stigler del 1951. L’idea piacque e fu subito ripresa da importanti autori neoclassici come Arrow e Hahn. Ormai è opinione comune che Smith, in quanto padre dell’economia politica, sarebbe anche l’inventore della metafora della mano invisibile. Eppure basterebbe qualche lettura di storia del pensiero economico per smontare questo falso. In realtà fa comodo che esso si perpetui, e vale la pena di chiedersi perché.
La prima ragione è che la metafora della mano invisibile è di indubbia efficacia. Colpisce la fantasia e attribuisce al mercato delle proprietà miracolose facilmente comunicabili. In secondo luogo, se il mercato è in grado di assicurare libertà, efficienza e benessere, se esso ci rappresenta tutti ma non è guidato da nessuno, allora la povertà e la mancata realizzazione personale sono responsabilità del singolo, oppure dei governi, o anche di leggi e istituzioni che interferiscono col suo funzionamento: in sostanza i nostri problemi deriverebbero dal non avere ancora appreso quel messaggio che il grande Adam Smith ci ha lasciato duecentocinquant’anni fa. Infine attribuire l’idea che il mercato funzioni in modo efficiente all’autore che è considerato il principale fondatore delle discipline economiche, equivale ad affermare che l’economia, dalle sue origini ai modelli matematici che si studiano oggi in tutte le università, abbia avuto un’evoluzione lineare, cancellando così le fratture e la complessità della disciplina. 
Si sente dire talvolta che un fisico può comprendere la teoria dei quanti senza conoscere il sistema tolemaico, la rivoluzione copernicana e gli esperimenti di Galileo, dunque, analogamente, un economista può comprendere l’economia senza conoscere la storia del pensiero economico e la storia delle idee. Forse neanche la storia per lui è necessaria, basta che studi la teoria neoclassica. Così questo falso continua a perpetuarsi. Ma i bisogni e le aspirazioni degli uomini, le strutture sociali, il funzionamento dell’economia e dei mercati, come anche le scuole di pensiero, cambiano in modo radicale nelle diverse epoche storiche. Il dominio di una teoria che per essere scienza si ispira alla fisica e all’astronomia – dove il moto dei pianeti si ripete sempre nello stesso modo, e dove valori, diritti e istituzioni sono inesistenti – e che cancella la sua stessa storia, inevitabilmente conduce a dei disastri. Così, piuttosto che avere la mano invisibile del mercato, oggi abbiamo ben visibile la distruzione delle nostre conquiste sociali ad opera dell’ideologia del libero mercato.

Left n. 49, 6 dicembre 2019

Si scrive Mes, si legge austerity

Pensato per “aiutare” i paesi dell’Eurozona in difficoltà, il Meccanismo europeo di stabilità può imporre la ristrutturazione preventiva del debito: ossia stretta alla spesa pubblica e privatizzazioni.

di Andrea Ventura

Nei sistemi finanziari moderni, la moneta non è una merce ma un contratto di credito, a fronte del quale vi è un debito che circola di mano in mano. Non c’è moneta, in sostanza, senza un credito e un debito. Il rischio di una crisi finanziaria è dunque sempre presente, soprattutto ove l’economia non produca redditi sufficienti a ripagare i debiti, oppure i crediti siano concessi per operazioni di dubbia redditività. Per ridurre questi rischi è necessaria un’istituzione - la banca centrale - che controlli il funzionamento del mercato e che, in emergenza, sia disposta ad intervenire offrendo la liquidità necessaria. Questa funzione di “prestatore di ultima istanza” deve essere svolta sia nei confronti delle banche commerciali, sia nei confronti dei titoli del debito pubblico. Nei paesi aderenti alla moneta unica, e solo in essi, il legame tra debito pubblico e banca centrale è invece reciso: i governi, per finanziarsi, non possono appoggiarsi alla propria banca centrale ma devono rivolgersi ai mercati finanziari. Ove i mercati considerino a rischio il debito di un paese, possono rifiutarsi di acquistare i titoli del debito pubblico e causare il suo fallimento. Anche senza arrivare a questo, mancando una banca centrale, se il paese è considerato a rischio salgono i costi di collocamento dei titoli pubblici sul mercato: di qui, ad esempio, l’impennata dei tassi di interesse sui titoli italiani nell’estate del 2011; di qui anche il maggiore livello del tasso di interesse sui titoli pubblici del nostro paese rispetto ad altri paesi in condizioni economiche analoghe, o peggiori, generato in sostanza dal fatto che i mercati non considerano del tutto esclusa la possibilità che l’Italia esca dalla moneta unica, e che pertanto i possessori dei nostri titoli possano subire delle perdite. 
         Per ovviare all’assenza del prestatore di ultima istanza, nel 2012 è stato istituito il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), di cui si sta discutendo la riforma. Il capitale del MES, sottoscritto dai paesi che vi aderiscono, è pari a 700 miliardi di euro. Il MES segue specifiche procedure per il sostegno ai paesi in difficoltà. In sostanza, per accedere agli aiuti, il paese deve sottostare alle indicazioni del MES, che può imporre austerità per i cittadini e perdite per i creditori. Il nodo del contendere però non è tanto questo. Austerità e rischio di fallimento c’erano anche prima della riforma. Il punto verte piuttosto sulla modifica delle sue procedure decisionali e sulle condizioni che garantiscono l’accesso del paese ai fondi per il salvataggio. 
Prima della riforma la richiesta di aiuto veniva valutata dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. La riforma rafforza invece l’autonomia del MES nei confronti delle istituzioni europee, a favore di un approccio intergovernativo: ora, ad avere potere decisionale, sono i governi dei paesi aderenti alla moneta unica, e in particolare la Germania che, in ragione del meccanismo di voto e della sua quota di capitale, ha potere di veto sugli interventi del MES. 
Per quanto riguarda le condizioni per accedere agli aiuti, il punto è complesso e delicato. Il MES, infatti, per statuto può intervenire solo se il paese è in crisi di liquidità e non di insolvenza. La distinzione tra crisi di liquidità e insolvenza però non è così facilmente tracciabile. In via di principio si parla di crisi di liquidità quanto il paese è momentaneamente in difficoltà perché, ad esempio, subisce gli effetti di una crisi globale o un attacco speculativo, ma in condizioni normali sarebbe in grado di pagare i propri creditori; il paese è invece insolvente quando non è in alcun modo in grado di far fronte ai suoi debiti. In quest’ultimo caso, prima che il MES intervenga, il suo debito andrà ristrutturato, cioè ai creditori saranno imposte delle perdite. Il punto è delicato perché la distinzione tra crisi di liquidità e insolvenza non è così semplice da definire. Se i mercati reputano che un paese sia a rischio di insolvenza, infatti, vendono i suoi titoli pubblici facendo salire i costi di finanziamento del debito, cioè i tassi di interesse. Questo aumento dei costi rende “vera” la previsione sull’impossibilità del paese di saldare i propri debiti. Se invece i mercati si fidano, i tassi di interesse restano bassi e il rischio è scongiurato. Ma in che modo i mercati giudicano se un paese è insolvente o meno? Un aspetto importante in questa valutazione è proprio la presenza o meno di una banca centrale che funga da prestatore di ultima istanza. Se ad esempio togliessimo al debito pubblico del Giappone, che è pari al 250% del Pil, il sostegno della sua banca centrale, i tassi di interesse che paga sul proprio debito, ora bassissimi, salirebbero notevolmente: il Giappone, all’interno delle regole di finanza pubblica europee, verrebbe distrutto. Per la sostenibilità di un debito è dunque decisivo anche il contesto istituzionale, e i mercati lo sanno. Usando un paragone, i mercati possono “uccidere” un paziente affetto da una malattia curabile perché prevedono che egli non sia in grado di superare la crisi, ma possono anche ucciderlo perché manca un medico, oppure perché il medico c’è ma per i vincoli che si autoimpone non può intervenire. Insomma l’efficienza del mercato è un po' come quella di un branco di lupi, che sbrana una preda isolata o in difficoltà.
Tornando al MES, il riferimento principale per stabilire se un paese può avere accesso ai fondi in caso di difficoltà è nei famosi parametri di Maastricht e nelle successive modifiche. Pochissimi paesi, e l’Italia non è tra questi, rientrano in questi parametri. Anche qui però le cose non sono del tutto definite: se il paese non rispetta quei parametri e ha bisogno di un sostegno, è il MES che valuta se fornirglielo, o se imporre prima la ristrutturazione del suo debito. L’Italia al momento non necessita di alcun intervento di sostegno, anzi si trova dalla parte dei creditori, avendo contribuito al salvataggio di Portogallo, Spagna, Grecia, Cipro, Irlanda, o meglio delle banche che avevano prestati i soldi a questi paesi. Aderendo al MES però, per i titoli di nova emissione, dovrà introdurre delle clausole (Cacs) che favoriscono la ristrutturazione del suo debito. Di qui la pesante e decisiva contrapposizione: da una parte, cosiddetti paesi “virtuosi” del nord Europa non sono intenzionati ad intervenire a sostegno del debito di un altro paese se non hanno la certezza della sua solvibilità, dunque vogliono che sia facilitata la ristrutturazione del suo debito; dall’altra però, prevedere la possibilità che i creditori subiscano delle perdite espone il paese al rischio di attacchi speculativi. In questa contrapposizione tra interessi e punti di vista, si trova il dilemma dell’Europa di oggi: il MES dovrebbe assicurare la stabilità finanziaria in Europa, ma per venire a capo di questo contrasto pretende che si favorisca la possibilità che i creditori non vengano rimborsati; ciò indebolisce il paese e rende più probabili le crisi.
La questione non è importante solo nella prospettiva estrema e altamente improbabile del fallimento, ma anche per il livello normale dei tassi di interesse. Per il nostro futuro questo è un punto decisivo. La possibilità della ristrutturazione del nostro debito pubblico, per il solo fatto di rientrare tra gli eventi previsti, farà aumentare il rischio dell’investimento e dunque i tassi di interesse. Per fornire qualche cifra, con un debito da finanziare di oltre 2400 miliardi di euro, un amento di soli 0,5 punti percentuali del tasso che il paghiamo su di esso può generare, nel lungo periodo, un aumento dei costi di finanziamento del debito di 12 miliardi l’anno. Sono soldi che andranno sottratti ai servizi, alla scuola, alla sanità, oppure peseranno sulle imposte. Considerando anche gli altri fronti di scontro coi nostri partner europei - come la proposta tedesca di introdurre un coefficiente di rischio per i titoli pubblici presenti nei bilanci delle banche, che genererebbe anch’essa un pericoloso aumento dei costi del nostro debito -, ci rendiamo conto di quanto gli allarmi siano giustificati. Oltre a questi terreni di scontro, vanno tenute presenti anche le incertezze sulle politiche future della BCE, le conseguenze della guerra sui dazi avviata da Trump e le non rosee prospettive dell’economia mondiale. Per questo la sicurezza dei nostri conti pubblici è fondamentale: lo è anzitutto per noi, ma lo è anche per la stabilità dell’area dell’euro nel suo insieme. Purtroppo l’Europa, per i presupposti neoliberisti che la governano e i conflitti tra i paesi che la dividono, sembra incapace di andare in questa direzione.  

left n. 47, 22 novembre 2019

Contro gli strateghi della paura dell’altro

Karl Polanyi osservava che il fascismo è lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Con questa definizione, il liberismo rientra nella categoria del fascismo e si spiegano le loro alleanze. Ecco come evitare che la storia si ripeta

di Andrea Ventura

Analizzando l’elemento comune dei diversi fascismi, troviamo in prima istanza che essi prosperano nella crisi della società di mercato. Infatti, sia negli anni venti e trenta del secolo scorso, sia oggi, la loro crescita procede assieme alla crisi sociale e alla perdita di controllo sull’opinione pubblica delle élite dominanti. Nel secolo scorso le classi dirigenti capitalistiche, piuttosto che contrastare i fascismi, hanno scelto di assecondarne l’ascesa, venendone infine travolte. Non sappiamo se oggi il copione possa ripetersi, ma sappiamo che guardare al passato per orientarsi nel presente costituisce un errore. Anzitutto i movimenti nazionalisti e reazionari di oggi hanno caratteristiche molto diverse da quelli di allora; in secondo luogo, il pericolo comunista, che nel secolo scorso spaventava le classi dominanti, non è all’orizzonte; e infine, forse, i disastri provocati dall’ascesa al potere di forze di estrema destra hanno insegnato a tutti qualcosa. Eppure, nell’Europa di oggi, alcune similitudini con le condizioni di allora possono essere ravvisate. La crisi di egemonia del neoliberismo, che si protrae da oltre un decennio, infatti, ha reso non più autosufficienti quelle forze politiche che assicuravano la stabilità. Esse pertanto si trovano nella condizione di dover cercare alleanze. Queste alleanze, necessariamente, dovranno essere cercate volgendo lo sguardo verso le forze della sinistra, oppure verso la destra, una destra che certo non è quella di Hitler e Mussolini, ma che sembra ben riconoscersi nel vecchio motto Dio, patria e famiglia, con venature cattoliche, razziste e misogine. Ma su che basi potrebbe essere possibile il compromesso tra un ordine neoliberale, che in via di principio afferma l’uguaglianza formale e vorrebbe la piena circolazione delle merci e delle persone, e quelle forze politiche della destra che invece propongo tematiche ad esse apparentemente antitetiche? Per provare a rispondere alla questione, ma anche per definire i contorni della fase in corso e scongiurare quel pericolo, dobbiamo rivolgere lo sguardo a qualcosa che va oltre la superficie dei programmi e degli slogan della politica. 

Un primo elemento, o forse un sentimento, che da sempre costituisce il denominatore della destra fascista, è la paura. Il fascismo e la destra estrema, infatti, si affermano alimentando la paura: la paura dell’immigrato, dello zingaro, del nero, di chi sbarca di notte sulle nostre coste e ruba nelle case, ha fatto la fortuna della Lega. Chi viene visto come diverso, per costoro, è una minaccia, a fronte della quale ci si deve coalizzare richiamando (o costruendo) tratti identitari comuni: prima gli italiani, oppure i toscani, i veneti, e via disgregando, peraltro rischiando proprio di distruggere quella “patria” che si vorrebbe difendere. Fenomeni simili, purtroppo, li ritroviamo spesso nel mondo, dalla destra suprematista americana al recente colpo di stato contro il potere indigeno di Morales in Bolivia. Ma perché aver paura? Dalla teoria della nascita sappiamo che l’essere umano pone inconsciamente nel diverso da sé la propria realtà interna non razionale. Questo è il fondamento del rapporto uomo - donna, ma è anche il fondamento del rapporto con chi in generale sarebbe diverso e sconosciuto. Se, per la storia del soggetto, questa realtà interna è guasta e dunque è diventata violenta, lo sconosciuto è visto come una minaccia. Quello che costoro pensano dell’altro, infatti, non è un dato oggettivo (l’immigrato, come chiunque, può essere pericoloso o meno, non lo è perché arriva su un barcone) ma, a dispetto dei fatti e delle statistiche, è un dato “a priori”. Credono di sapere qualcosa dell’altro, ma non sanno nulla, né dell’altro né di sé stessi. Abbiamo qui un’alterazione del rapporto con la condizione umana propria e altrui: è cosciente la credenza che lo sconosciuto sia cattivo e violento; non è cosciente la propria realtà interna di odio, negazione, rabbia o annullamento. La paura dell’altro, in sostanza, ha la sua origine in una propria realtà interna distruttiva che è vista all’esterno di sé; essa spinge ad unirsi tra uguali e alimenta la violenza del gruppo. Se poi questa paura si salda con difficoltà materiali oggettive, può diventare un fatto politico di massa, alimentando fenomeni fascisti e razzisti di diversa natura. 
         Per andare oltre nella ricerca, ci è di aiuto Karl Polanyi. Il celebre studioso ungherese osservò che il fascismo è lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Non è chiaro se Polanyi fosse consapevole del fatto che, con questa definizione, rientra nella categoria del fascismo anche il liberismo economico: nell’ordine di mercato, infatti, la società non è un rapporto tra persone, in quanto l’altro è visto come una merce, come un oggetto da sfruttare per il profitto o per la propria utilità pratica. Al di là delle possibili letture, la considerazione di Polanyi ci serve per sottolineare un fattore decisivo per la comprensione dei fenomeni in esame. La continuità tra il liberismo e il fascismo va individuata in questa difficoltà nel riuscire a vedere l’altro essere umano come un proprio simile. Nel fascismo la comunità e il gruppo non hanno il fine di costruire rapporti interumani validi per la ricchezza personale di tutti: piuttosto questi si formano per escludere, per esercitare una violenza nei confronti di chi rimane al di fuori da questo “noi” costruito sulla negazione o sull’annullamento dell’altro. Nel neoliberismo invece l’annullamento si esercita distruggendo ogni socialità. La celebre affermazione della Thatcher secondo cui la società non esiste perché esistono solo i singoli individui, esprime bene questo pensiero. Anche i modelli matematici della teoria economica dominante considerano la società come composta solo da singoli individui isolati. Ma, se forse è vero che un branco di pecore è formato poco più che da singoli elementi, la società è qualcosa di ben diverso: esistono valori, istituzioni, culture, storia, esiste una complessità che non può mai essere ricondotta alla semplice somma di singoli individui isolati. La realizzazione dell’identità umana, inoltre, non passa per l’accumulo di beni materiali e lo sfruttamento dei propri simili, come vorrebbe il liberismo economico. Così, quando la crisi avanza e questa proposta di benessere si rivela un’illusione, quando l’incertezza economica intacca la certezza di sé, la reazione sociale rischia di distruggere la convivenza civile. Il punto è che i movimenti fascisti e reazionari non recuperano quella socialità distrutta dal liberismo, ma indirizzano la propria rabbia verso il “diverso”, verso chi è fuori da questo “noi” artificialmente costituito. La negazione del valore del rapporto sociale su è fondata la società di mercato, in sostanza, non è rifiutata, piuttosto è riproposta su basi differenti: quelle della paura.

Il discorso svolto fin qui trova il suo corrispettivo se osserviamo le forze e i contenuti del variegato mondo della sinistra. La parola socialismo, derivata dal temine latino socialitas, compare nel Settecento per indicare coloro che pensavano che fosse possibile costruire una società basata sulla socialità degli esseri umani. Socialismo, dunque, come tentativo di costruire una società basata su quella umanità naturale che le destre (e gran parte della cultura dominante) hanno sempre negato. Accoglienza, parità di diritti, uguaglianza tra uomini e donne, critica alla società di mercato, contrasto alle diseguaglianze globali, difesa dell’ambiente, pace, non violenza e cultura trovano il loro fondamento in un’idea di società che ha al centro non il rapporto con le cose, e tantomeno i rapporti di sfruttamento, ma il valore del rapporto interumano. Il rischio è che quei ceti popolari che soffrono la crisi, considerino questo insieme di problematiche vicino alle proposte neoliberiste. In realtà il loro contenuto è opposto. Anche per questo, per le forze della sinistra, definire quel filo comune che le unisce è altrettanto rilevante quanto aver chiari i connotati dell’avversario. Portare avanti una ricerca sulle realtà mentali che sono a monte dei programmi politici è decisivo per le battaglie che ci attendono.