giovedì 12 aprile 2018

left, n. 14, 6 aprile 2018

Quando la corda si spezza

Le morti sul lavoro costituiscono solo l’aspetto più tragico di un modo di concepire l’economia e la società che non pone al centro l’essere umano bensì la ricerca del profitto. E la logica capitalistica non si ferma a questo ma vuole ottenere il massimo nelle condizioni date 

di Andrea Ventura


Omicidio bianco, si diceva una volta, dizione analoga a “lupara bianca”, in uso per alcuni omicidi mafiosi. Il termine “bianco”, in entrambi i casi, indica la mancanza di qualcosa: nel primo di un’intenzione omicida, nel secondo del cadavere. Oggi quella dizione sembra essere in disuso, venendo sostituita con la più neutra “morti bianche”. Non si tratterebbe di omicidi quindi, ma di morti, la cui causa non va attribuita all’azione violenta di qualcuno, ma al mancato rispetto delle norme di sicurezza o alla disattenzione degli stessi lavoratori. Ci poniamo un problema: è corretto evitare l’uso del termine omicidio per una morte sul lavoro, oppure l’abbandono di quella terminologia indica un cedimento? La parola omicidio, in effetti, porta con sé l’idea che vi sia un responsabile, e che l’assassino debba essere perseguito come tale. La questione è sottile in quanto l’incidente sul lavoro non è intenzionale, essendo molto spesso la conseguenza di un insieme di sfortunate coincidenze difficilmente attribuibili a qualcuno in modo specifico.

Eppure, ad un’analisi più attenta del fenomeno, le aree e i fattori di rischio possono essere individuati con precisione. Anzitutto l’agricoltura e l’edilizia contano circa la metà dei casi di decessi sul lavoro: la causa diretta degli incidenti è in grandissima parte rintracciabile nella scarsa sicurezza dei mezzi e nel mancato rispetto delle misure di sicurezza. Altri fattori che si associano alle morti sul lavoro sono l’età avanzata, la condizione di immigrato, l’assenza del sindacato, il sistema degli appalti, la precarizzazione, la parcellizzazione delle funzioni e la riduzione dei diritti. I fattori sopra ricordati si accavallano tra loro, cosicché le figure a rischio sono ben delineate. Le statistiche, vale ricordarlo, dopo alcuni anni di declino, hanno mostrato nel 2017 un aumento delle morti bianche rispetto all’anno precedente: secondo alcuni commentatori il calo precedentemente registrato fu associato anche alla riduzione della domanda di lavoro, mentre il brutto dato dell’anno appena trascorso sarebbe causato dalla lieve ripresa in atto. Il 2018 non sembra promettere meglio.

Ora, posto che si possano facilmente individuare quali condizioni accompagnino i rischi di infortunio e di decesso, rimane da chiedersi come mai, nel 2017, circa mille lavoratori siano morti per il lavoro. Duole dirlo, ma la ragione ultima è la pressione che il sistema economico esercita sui lavoratori. È infatti ovvio che la ricerca della riduzione dei costi, l’aumento della precarietà, le richieste di più intense prestazioni produttive, lo spettro del licenziamento, le difficoltà economiche degli stessi lavoratori in proprio e delle piccolissime imprese che ottengono sub appalti, siano tutti fattori che aumentano lo stress ed espongono i soggetti più fragili al rischio di incidenti anche mortali. Le morti sul lavoro dunque costituiscono soltanto l’esito più tragico di un modo di concepire l’economia e la società che non pone al centro l’essere umano ma la ricerca del profitto.

Il profitto dunque: parola tanto usata ma poco esaminata. Ogni imprenditore cerca di trarre profitto dalla propria attività economica, ma non si tratta solo di questo. La logica capitalistica non cerca solo il profitto, ma vuole ottenere il massimo profitto nelle condizioni date. La violenza che questa logica esercita sulla società è persistente, perché queste condizioni date non sono statiche, quasi dipendessero dalle tecniche e dai vincoli della natura, ma sono continuamente modificate a vantaggio di questa o quella forza sociale. Il mercato stesso è un’istituzione complessa che funziona solo dopo che sono state prese alcune decisioni collettive riguardanti i diritti di proprietà, quali oggetti possano o non possano essere scambiati liberamente, i limiti e le condizioni all’impiego di lavoro, le tutele dei beni materiali (dell’ambiente ad esempio) e delle persone, le responsabilità, i controlli e le sanzioni per chi quelle tutele non rispetta. La logica del profitto, nella società di oggi, identifica la ricerca dell’efficienza non all’interno di questi vincoli, ma alterando a proprio vantaggio i vincoli stessi. In questa spinta verso l’alterazione dei vincoli e delle regole a vantaggio delle classi dominanti, la teoria economica, in particolare il neoliberismo, è uno strumento fondamentale. Come può essere facilmente ricostruito, infatti, questa teoria indica come necessità per migliorare le prestazioni dei sistemi economici la riduzione di vincoli e tutele, considerando questi come atti arbitrari, artificiali, contrapposti alla naturalità del mercato e delle libere scelte individuali.  Ma nel rapporto tra chi ha bisogno di lavorare e chi è nella condizione di impiegare qualcuno, non si può parlare di “libertà”. Quel rapporto, infatti, non è mai paritario: il primo, pur non avendo alcun obbligo legale, è costretto a lavorare per vivere, mentre il secondo può ben scegliere di rifiutare la sua richiesta di impiego senza gran danno. La classe lavoratrice, fin dall’alba dell’industrializzazione, ha cercato di dotarsi di organizzazioni collettive, proprio perché comprendeva bene che in assenza di esse il lavoratore isolato, davanti al datore di lavoro, è in una condizione di schiacciante inferiorità. L’inno attuale alla flessibilità e la crescente precarietà contrastano dunque con tutta la storia delle rivendicazioni del movimento operaio, creando fratture sempre più profonde tra chi è riuscito bene o male a difendere alcuni diritti fondamentali, e chi li ha perduti definitivamente.

Ora, tornando al quesito iniziale, se è pur vero che la dizione “morti bianche” potrebbe apparire più consona di quella “omicidio bianco”, va considerato che è invece quest’ultima a definire con più precisione il dramma di cui stiamo discutendo. Omicidio bianco dunque. Chiarendo che oggi esso non è più associato alla condizione del lavoro nella grande fabbrica - dove il fenomeno è circoscritto, essendo i lavoratori sindacalizzati (almeno in Occidente) sotto questo profilo abbastanza protetti - ma è causato da meccanismi sociali che sembrano sfuggire ad ogni controllo. La responsabilità di quegli omicidi non è tanto di un “padrone” avido di profitto e ben individuabile, ma di un sistema sociale subalterno al liberismo sfrenato, i cui meccanismi di dominio sono molto più nascosti e difficili da contrastare.