martedì 23 marzo 2021

Left n. 2, 15 gennaio 2021

Realizzare l’uguaglianza, non solo a parole

 

di Andrea Ventura

 

La lettura più semplice e diffusa dell’avanzata della destra nazionalista e xenofoba afferma che le fasce sociali storicamente collocate a sinistra, a causa dell’assenza di opposizione alle politiche neoliberiste, si sono sentite abbandonate e hanno cercato altri referenti politici. La sinistra, per sconfiggere le destre, dovrebbe pertanto tornare a sostenere politiche redistributive e a difendere le protezioni sociali. Sebbene questa lettura abbia elementi di verità, ci sono altri aspetti di cui è necessario tener conto. Indubbiamente in Occidente sono cresciute le diseguaglianze, il lavoro è penalizzato, lo Stato sociale si è indebolito e questo ha certamente contribuito a creare una situazione esplosiva. Eppure, a livello globale, negli ultimi decenni si è registrata una tendenza opposta della quale occorre tener conto. Potenti infatti sono state le spinte, coronate da successo, verso una maggiore uguaglianza.


         La prima spinta viene dalle donne. Esse non accettano più di vivere in una condizione subordinata, di avere salari inferiori e minore accesso alla vita sociale. Questa spinta non si registra non solo in Occidente, ma anche in paesi africani, in Iran, e perfino in Arabia Saudita, dove le donne che accedono all’istruzione superiore sono passate dal 10% al 60% negli ultimi 25 anni. In secondo luogo, Cina, India, Pakistan, numerosi altri paesi del Sud Est asiatico e dell’Africa del Sud sono sulla via della crescita economica: se quarant’anni fa il Pil complessivo della Cina e dell’India era un decimo di quello degli Stati Uniti e dell’Unione europea, oggi è più o meno equivalente; la Cina si avvia rapidamente a diventare la maggiore economia mondiale e il volume del commercio con i cinesi, per gli europei, ha superato quello con gli Stati Uniti. A livello globale si è formata una classe media benestante e istruita che supera i 3 miliardi di persone. Come osserva Mahbubani (Occidente e Oriente. Chi perde e chi vince, Bocconi editore, 2019) questo progresso non si è avuto quasi esclusivamente in quella fascia di paesi che va dal Nord Africa al Medio Oriente all’Afghanistan, dove l’Occidente, dopo aver sostenuto i peggiori dittatori, ha voluto esportare a suon di bombe la democrazia. Anche grazie questi disastri, sono sempre di più i paesi che rifiutano l’egemonia dell’Occidente sugli equilibri del pianeta.


         Oltre al disagio economico che investe la classe media e operaia dell’Occidente capitalistico, dunque, va considerato che il dominio dell’individuo bianco, adulto, razionale, che governa sui “popoli inferiori”, si realizza nel lavoro e ha nella crescita del benessere economico il suo obiettivo esistenziale, è giunto al termine. Pertanto la risposta a questa crisi, che è anche una crisi di identità, richiede non solo il riequilibrio dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Essa deve anche basarsi su una nuova idea di socialità e di benessere, che consideri che la vera realizzazione umana va cercata nel rapporto col diverso da sé. La nostra vera ricchezza in quanto esseri umani è nella capacità di rapporto tra uomo e donna, come anche nella contaminazione e nel confronto tra storie e culture, oltre ogni idea di dominio, di sopraffazione, di superiore e inferiore. Questa capacità di rapporto, a sua volta, si basa sul superamento della centralità della ragione: quest’ultima è assai utile per il benessere fisico e per l’uso razionale degli oggetti materiali, ma nei rapporti umani contano piuttosto quelle dimensioni affettive, emotive, anche non razionali, che ci fanno sentire che, al di là della diversità nel sesso, nel colore della pelle, nella storia e nella cultura, apparteniamo tutti alla stessa specie. Siamo tutti uguali in quanto esseri umani.

         È questo il passaggio che abbiamo di fronte. Scontiamo qui una complicità: la sinistra socialdemocratica, negli anni del “compromesso” tra capitale e lavoro, non ha voluto vedere quanto il nostro benessere fosse legato anche alla morte e alla distruzione che l’Occidente capitalistico scatenava contro popoli e paesi dotati di minori capacità tecniche, economiche e militari. Oggi quel divario non c’è più. La coesione sociale di cui si discute tanto per recuperare la stabilità e sconfiggere la destra, non può prescindere dalla necessità di stabilire nuovi rapporti con popoli che hanno storie e culture diverse dalle nostre, e che giustamente rivendicano pari dignità. Il mondo che vorrebbero xenofobi, misogini, fascisti e nazionalisti non esiste più. Ogni tentativo di ricostruirlo è destinato al fallimento. O impariamo a realizzare veramente l’uguaglianza all’interno delle nostre società e nei rapporti con gli altri paesi, o il declino della nostra civiltà sarà inevitabile e potrà essere catastrofico per tutti.

Left n. 26, 26 giugno 2020

Alla nascita siamo tutti anticapitalisti

 

L’attuale sistema economico poggia sull’idea che il comportamento umano sia principalmente orientato all’accumulazione e al profitto. Una falsità che nega il tratto principale delle donne e degli uomini: la propensione alla socialità

 

di Andrea Ventura 

 

 

Nel momento in cui un ciclo di sviluppo sembra giunto al termine, è utile riflettere su alcune questioni preliminari alle scelte di politica economica. Carlo Rovelli, in un volume di qualche anno fa, ha ricordato che “i grandi passi avanti nella scienza non sono dovuti alla scoperta di soluzioni nuove a problemi ben posti. Sono dovuti alla scoperta che il problema era mal posto”. Proporrò che il problema è mal posto a partire dall’idea che il comportamento dell’uomo economico (perfettamente razionale e finalizzato al vantaggio economico) definisca la specie umana. Il punto è decisivo in quanto su questa idea poggia il neoliberismo, cioè quel modello di economia che è stato egemone negli ultimi decenni, e che urge lasciarci alle spalle. 

Due elementi vanno messi in rilievo: il primo è che questo comportamento ha la sua massima espressione nella logica capitalistica, orientata esclusivamente all’accumulazione e al profitto. L’altro è che, secondo questa idea, saremmo uomini economici non solo sul mercato, ma in ogni rapporto sociale. Il neoliberismo dunque non si limita a governare l’economia: piuttosto stabilisce il dominio dell’economia sulle altre scienze sociali, e degli uomini economici sulla società. 

Sappiamo per esperienza comune che un individuo perfettamente razionale, che tratta i propri simili come se fossero oggetti inanimati, è qualcosa che offende e ripugna. È per questo che ci opponiamo alla logica del capitale, dove il lavoratore è ridotto a mera appendice delle macchine, ed è per questo che Marx prefigurava un futuro non solo privo di povertà economica, ma dove tutti potessero realizzare pienamente le proprie qualità umane. Più che ricorrere ad argomenti moralistici o religiosi, che portano poco lontano, sappiamo da un’ampia letteratura che la razionalità di comportamento per l’utile pratico non corrisponde ad alcuna vera realizzazione umana. Il benessere economico, infatti, oltre un certo limite, non corrisponde più al benessere psicofisico del soggetto. Ciò avviene non perché i soldi facciano male, ma perché la spinta a far soldi come obiettivo esistenziale fa male al soggetto e a quelli che lo circondano. Lo aveva compreso anche Keynes, quando cent’anni fa, in Prospettive economiche per i nostri nipoti, auspicava una società dove “l’amore per il danaro (…) sarà agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali”. Ne deriva, in modo abbastanza ovvio, che le teorie neoliberali, dove appunto questo comportamento da malato di mente è considerato appropriato per raggiungere il benessere e far funzionare la società, costituiscono un rischio per la società stessa. 

È utile qui riprendere brevemente la distinzione tra ragione strumentale e ragione oggettiva proposta dalla Scuola di Francoforte. La prima si riferisce all’uso dei mezzi, la seconda ai fini. È ovvio che, affinché l’uso di un mezzo abbia un senso, esso debba riferirsi ad un fine: debba cioè essere definito l’impiego che del mezzo si intende fare. I fini sociali (democrazia, diritti, uguaglianza, ambiente, cultura) sono legati all’esistenza di valori: essi forniscono un senso alla vita umana, sia per il singolo individuo, sia per la sfera pubblica. Secondo la Scuola di Francoforte, nel corso della modernità questo legame tra mezzi e fini (tra ragione strumentale e ragione oggettiva) è stato smarrito, lasciando che la società sia governata da una razionalità strumentale sempre più fine a sé stessa. È qui che il capitale stabilisce il suo dominio: sia il modello di comportamento dell’uomo economico, sia il suo corrispettivo nella razionalità capitalistica, si fondano sulla negazione di qualsiasi discorso sui valori e sugli obbiettivi che un sistema economico deve perseguire in un dato contesto storico. 

Possiamo affermare che questa negazione corrisponda alla cancellazione del pensiero umano, che mai può essere ricondotto al calcolo dei profitti e delle perdite. Forse solo la vita animale è riconducibile al calcolo delle energie per la sopravvivenza. Non c’è quindi pensiero umano né nell’uomo economico, né nel capitalismo, né nel neoliberismo. Abbiamo solo un calcolo di convenienza, calcolo che peraltro sarà sempre più spesso svolto da macchine: dalla scelta dei fornitori operata da alcune multinazionali, alle operazioni dei fondi speculativi, ai programmi di consegna dei fattorini, all’internet delle cose, il futuro del capitalismo si prospetta, infatti, come una combinazione tra sfruttamento delle opportunità di profitto e automazione delle scelte. 

È possibile affrontare le problematiche del XXI secolo con una teoria sociale dove gli esseri umani sono privati di tutte quelle caratteristiche che li distinguono dalle altre specie animali? Inoltre, se la razionalità non è pensiero umano, se le macchine possono sostituirci nelle scelte, cos’è il pensiero umano? Che cosa, in sostanza, ci rende umani? Questa ricerca, non semplice da sviluppare, può essere affrontata con la teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, teoria che a mio avviso costituisce l’unica vera novità nel panorama culturale attuale. Questa teoria afferma che il pensiero umano compare alla nascita, nel momento in cui la luce colpisce la retina e attiva le funzioni cerebrali. Il pensiero, alla nascita, ovviamente non comprende la coscienza e ragione, come sarà nell’adulto. Che pensiero è allora? Secondo Fagioli, per la memoria del contatto della pelle con il liquido amniotico, il neonato intuisce (o immagina) che esista un altro essere umano con cui stabilire un rapporto. Il pensiero dunque è anzitutto “capacità di immaginare”. Sebbene le parole per raccontare di questa intuizione-immagine siano difficili da trovare, chiedersi cosa succede alla nascita è decisivo per ogni ricerca sull’uomo e la società. Infatti, a seconda della risposta che si fornisce, si hanno conseguenze di assoluto rilievo. Affermiamo che non succede nulla e che il neonato è come una tavoletta di cera? L’identità di ciascuno allora è definita dalle condizioni esterne: un’organizzazione sociale vale l’altra, e la potenza materiale della società capitalistica è destinata a dominarci ancora. Pensiamo che il neonato sia tendenzialmente violento e aggressivo? È la tesi freudiana dell’inconscio perverso, versione laica del peccato originale: il bambino dovrà essere educato e represso affinché possa adattarsi alla vita sociale, e la ragione serve a controllare gli istinti violenti che ciascuno di noi si porta dentro; se la natura umana è questa, dovremmo concludere che il fascismo sarebbe lo stato di natura dell’uomo. Se crediamo infine che pensieri e identità siano già presenti nel feto, o addirittura nell’embrione, rischiamo di cadere nella religione o nel razzismo: razze superiori e inferiori per le diversità genetiche.

La teoria della nascita afferma che siamo naturalmente portati alla socialità, non al profitto o allo sfruttamento del prossimo. È la qualità del rapporto interumano che garantisce il benessere agli esseri umani, non il rapporto utilitaristico con le cose. La ragione, che si sviluppa successivamente, è importante per il benessere fisico, ma deve integrarsi con quella dimensione affettiva che è presente fin dalla nascita. La nostra capacità di sentire la differenza nel rapportarci ad un oggetto, un animale o ad una persona, dipende da quel pensiero non cosciente che ha la sua matrice nei primi momenti della vita. Se, come vorrebbero molti maestri del pensiero, sopprimiamo l’immaginazione e gli affetti, restiamo solo con una razionalità fine a sé stessa. L’intera società tenderà a divenire una mostruosa macchina orientata al profitto, distruggendo sia noi stessi e il mondo che ci circonda. 

Abbiamo ormai poche alternative: o saremo in grado di sviluppare una nuova cultura sociale, economica e politica basata sul riconoscimento di ciò che ci rende umani, o rischiamo un pesante regresso di civiltà.

lunedì 22 marzo 2021

Left n. 41, 15 ottobre 2020

L’ideologia dei salari bassi non crea occupazione

 

Non è vero che riduzione del salario e flessibilità portino ad un aumento dei posti di lavoro. Anzi. Sono fattori regressivi che impoveriscono la società, come spiega Antonella Stirati in Lavoro e salari. Un punto di vista alternativo sulla crisi  


di Andrea Ventura

 

 

Quando la sussistenza umana era basata sull’agricoltura, i rapporti economici risultavano facili da definire. Con lo sviluppo dei mercati e della società industriale, le cause della ricchezza e della povertà furono più difficili da comprendere, tanto che nel protestantesimo l’arricchimento veniva spiegato col favore divino. Le discipline economiche nascono dunque dalla necessità di comprendere nessi sociali che non sono immediatamente evidenti. Se questi non vengono illustrati nella loro verità, i rapporti sociali rischiano di guastarsi e le politiche pubbliche falliscono nel perseguire il benessere pubblico.

         Il volume di Antonella Stirati (Lavoro e salari. Un punto di vista alternativo sulla crisi, l’Asino d’Oro, Roma, 2020) è un prezioso strumento di valutazione dello stato attuale delle discipline economiche. Le teorie dominanti sono vagliate sia nella coerenza interna, sia alla luce di quell’evento – la crisi del 2008 – che, nella loro prospettiva, risultava del tutto inaspettato. Vengono poi analizzate le nefaste conseguenze dell’applicazione di quelle stesse teorie negli anni successivi. Al contempo, riproponendo una serie di saggi già pubblicati dall’Autrice, si mostra come, con un quadro teorico adeguato, le conseguenze negative di quelle politiche fossero facilmente prevedibili.

         Rimandando alla lettura del volume gli aspetti più complessi della questione, ci soffermiamo qui sul tema del lavoro che,come indicato nel titolo, è al centro degli interessi della Stirati. È ormai senso comune che bassi salari e flessibilità possano favorire un maggior impiego di forza lavoro. La teoria dominante fa leva su questa visione semplicistica, considerando, in sostanza, il lavoro come una merce: se aumentano le rigidità e cresce il costo del lavoro la tendenza sarebbe quella di sostituire il lavoro con il capitale, alterando l’equilibrio “naturale” e generando disoccupazione. Decenni di politiche neoliberiste poggiano sul legame tra salario (e rigidità del lavoro) e disoccupazione. Nella prospettiva keynesisna, a cui l’Autrice fa riferimento, la tesi è ribaltata: il salario non è solo un costo per le imprese, ma è anche una componente della domanda di merci per le imprese stesse, cosicché l’indebolimento delle classi lavoratrici e l’impoverimento complessivo della società a vantaggio di ristrettissime élite, ha effetti recessivi ed è causa a sua volta di povertà e disoccupazione. Come viene ricostruito in modo approfondito nel volume, la complessità della relazione che lega salari e occupazione - che investe anche altri aspetti, come l’innovazione tecnologica, la qualità della forza lavoro e il tipo di competitività verso cui si indirizzano le imprese - comincia ad essere riconosciuta anche da una parte dell’economia mainstream. 

Dando il dovuto rilievo alla domanda come componente fondamentale della crescita economica e dell’occupazione, risulta anche evidente l’impossibilità di ottenere effetti espansivi dalle politiche di austerità.Queste, piuttosto, generano fenomeni recessivi e rendono ancora più pesante quel rapporto debito/Pil su cui si basano le valutazioni di sostenibilità del debito stesso. Lo stesso concetto di debito pubblico come “fardello” per le generazioni future è equivoco: ogni debito ha il suo corrispettivo in un credito, cosicché, se si lascano ad esse dei debiti, è altrettanto legittimo dire che gli si lasciano dei crediti. Abbandonando ogni retorica, è assai più proficuo, come fatto nel volume, cercare le cause della formazione del debito nelle scelte delle autorità monetarie, e mostrare il legame tra l’assetto istituzionale e il costo del debito stesso. L’architettura su cui è costruita l’Europa di oggi, che vede, caso unico al mondo, una banca centrale a cui è impedito di sostenere i debiti degli stati, sotto questi profili appare insostenibile.

Tornando al tema del lavoro, una seconda questione, forse più radicale, ricorre nell’impostazione di ricerca della Stirati: essa investe il fatto che, anche sul piano logico-analitico, non è possibile definire un salario e un tasso di profitto “naturali”, a cui tende l’equilibrio di piena occupazione. La questione è assai complessa e proviamo a sintetizzarla come segue. La teoria dominante considera che esista una data quantità di fattori produttivi (terra, lavoro e capitale) che vengono impiegati nella produzione in funzione del loro costo. Il meccanismo sarebbe il seguente: se ad esempio il costo del lavoro aumenta rispetto al costo del capitale, per le imprese converrebbe sostituire il lavoro, che è diventato più costoso, con le macchine. Se diminuisce vi sarebbe la tendenza opposta. Ma le cose non stanno affatto in questi termini. Il “capitale”, infatti, è un insieme di merci – prodotte dal lavoro – il cui valore è dato solo dopo, e non prima, che si siano formati i redditi dei fattori produttivi. Dunque non può essere il punto di partenza per determinare i redditi stessi. 

La teoria della distribuzione del reddito che si insegna in tutte le università è pertanto priva di ogni fondamento: non vi è alcuna tendenza dell’occupazione ad aumentare per la riduzione del salario. Questa critica, a cui la Stirati fa riferimento, è stata formulata con rigore negli anni sessanta da Piero Sraffa. Ad essa non è mai stata fornita una risposta soddisfacente. Il recupero del messaggio di Keynes, e la critica sraffiana alla teoria della distribuzione del reddito, consente all’Autrice di demolire con efficacia la lettura dominante della fase attuale. 

Rimane il quesito su quali siano le determinanti della distribuzione del reddito. La risposta non è semplice: decisivi, comunque, sono i rapporti di forza tra le classi sociali. Il contesto politico-istituzionale costruito in questi decenni ha prodotto le enormi diseguaglianze sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Di questo lo stato delle discipline economiche è almeno in parte responsabile. Vi è un concetto sviluppato nell’ambito delle teorie economiche: quello della “cattura”. Si sostiene che le politiche pubbliche non possano ottenere il benessere sociale perché condizionate (catturate appunto) dagli interessi dei gruppi di interesse più potenti. Solo il libero mercato può, secondo questa tesi, garantire il benessere di tutti. Purtroppo è facile osservare quanto le stesse discipline economiche siano state vittime della “cattura”: dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, infatti, ingenti finanziamenti sono giunti a think thank, riviste e gruppi di ricerca che si ispirano al neoliberismo, mentre il meccanismo di selezione nelle università tende a privilegiare coloro che pubblicano su riviste mainstream. Il messaggio di Keynes è stato travisato o abbandonato. Quanto di Keynes sia recuperabile in un contesto sociale e storico come l’attuale, che vede l’affermazione di un capitalismo del tutto nuovo basato sulle tecnologie del digitale, è una questione che va discussa in modo approfondito. Rimane un dato di fatto: l’offensiva del capitale contro le conquiste sociali del secolo scorso ha trovato nelle teorie economiche una delle sue armi più efficaci. Dopo il 2008, l’applicazione di quelle teorie in un contesto di gravissima crisi finanziaria ed economica, ha generato un paradossale socialismo dei ricchi, dove le regole del mercato sono fatte valere solo per i più deboli. La scissione tra l’andamento delle borse, artificialmente sostenute dalle politiche espansive delle banche centrali, e le condizioni dell’economia reale, è indicativa di quanto ormai il sistema economico funzioni solo a vantaggio di un capitalismo sempre più predatorio. Servirebbe un radicale cambio di paradigma, ma gli interessi in gioco sono troppo potenti. 

Non il valore scientifico, ma la loro funzione politica e sociale, spiega la persistenza di teorie insostenibili sul piano logico e in contrasto con i fatti. Rimangono gruppi, anche nutriti, di studiosi eterodossi che seguono le proprie linee di ricerca, forniscono utili spunti alla politica, scrivono appelli e documenti critici, ma purtroppo sono lasciati ai margini del dibattito pubblico. Per chi volesse approfondire, il volume della Stirati è un ottimo punto di partenza.

 

Left n. 23, 5 giugno 2020

Non si vive solo di Mes

 

Con il Meccanismo europeo di stabilità l’Italia avrebbe in prestito 36 miliardi per la sanità, senza sottostare a misure di austerity. Ma su questa condizione abbiamo solo fragili garanzie politiche. Per frenare la crisi senza minare l’Ue dobbiamo dotarci di strumenti di debito comune

 

di Andrea Ventura

 

 

Il Mes è un fondo finanziario creato nel 2012 per fronteggiare la crisi dei debiti pubblici e dei sistemi bancari, i cui azionisti sono i paesi che aderiscono alla moneta unica. Il suo statuto prevede che, ove un paese vi ricorra, sia soggetto a sorveglianza rafforzata e possa essergli imposto un programma di aggiustamento strutturale. L’articolo 3, infatti, afferma che “L'obiettivo del MES è quello di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del MES che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari”. A meno di una modifica dello statuto, o di una esplicita decisione del Mes stesso di sospendere il proprio regolamento, il punto non è in discussione. Essendo la fase attuale del tutto diversa da quella del 2012, per poter utilizzare i fondi del Mes è stata attivata una linea di credito speciale (il ‘PandemicCrisisSupport’) dove è previsto che il paese sia soggetto al solo vincolo che i fondi siano spesi per i costi diretti ed indiretti della pandemia. Tutto risolto quindi? Dall’acceso dibattito che investe il nostro paese non sembra proprio. 

Per valutare una questione parecchio complicata possiamo seguire due importanti documenti. Il primo è il comunicato dell’Eurogruppo del 23 aprile scorso, dove, con un linguaggio involuto e spesso contraddittorio, si definiscono le condizioni di accesso al fondo. È questo un testo che riflette esigenze contrastanti: quelle dei paesi del Nord, che sarebbero i creditori, e quelle dei paesi più colpiti dall' epidemia, che dovrebbero ricorrere agli aiuti del fondo. Leggendo il testo si possono trovare sia argomenti a sostegno della tesi per la quale le condizionalità previste dal trattato istitutivo del Mes sarebbero alleggerite, sia richiami puntuali al trattato stesso, in particolare all’articolo 13 che definisce le procedure di accesso a fondi. Il secondo documento è la lettera del 7 maggio con cui Gentiloni e Dombrovskis(rispettivamente Commissario per gli affari economici e vicepresidente della Commissione europea) si rivolgono a Mario Centeno, presidente dell’Eurogruppo. La lettera afferma che, essendo il ricorso al Mes strettamente connesso alla crisi sanitaria, non vi è ragione di attivare le procedure di sorveglianza rafforzata previste per i paesi che incontrano difficoltà interne: ai paesi che ricorrono al fondo non sarà richiesto alcun aggiustamento macroeconomico.

In sostanza abbiamo: uno statuto del Mes dove si prevede che possano essere imposte politiche di austerità sotto la sorveglianza della Commissione e della BCE; un programma specifico per la pandemia, dove la condizionalità è limitata al controllo che i fondi del Mes siano impiegati per i costi diretti e indiretti per la cura e la prevenzione dell’emergenza sanitaria; un impegno politico dove si garantisce che al paese che accede al Mes non sarà richiesto alcun aggiustamento macroeconomico.

 Muovendoci su un terno scivoloso, sul quale non è semplice illustrare quale possa essere per noi la scelta meno dolorosa, vediamo di individuare vantaggi e svantaggi del ricorso al Mes. C’è da premettere che, per spazzar via qualsiasi preoccupazione sul fatto che il ricorso al Mes possa preludere a politiche di austerità, avrebbe dovuto esservi una deroga alla normativa del Mes, e non una lettera che contiene, certo, un importante un impegno politico, ma che lascia comunque aperta la possibilità che in futuro le condizioni e i rapporti di forza possano mutare. Disponiamo in sostanza di una garanzia politica, non di una certezza giuridica. Questa scelta è legata al fatto che la deroga alla normativa avrebbe trovato l’opposizione dei cosiddetti “paesi rigoristi” del nord Europa: una scelta, dunque, forse obbligata, ma miope in quanto, se da un lato attutisce il conflitto, potrebbe in futuro generare ulteriori attriti e incomprensioni. Non è certo questo quello di cui l’Europa ha bisogno. Va chiarito inoltre che i 36 miliardi che il Mes ci presta (perché, ricordiamolo, di prestiti si tratta) potrebbero essere raccolti sui mercati finanziari. Ogni anno l’Italia rinnova il proprio debito per circa 500 miliardi di euro: 36 miliardi non sono certo pochi, ma neanche tantissimi. Non si tratta dunque di avere o meno i soldi per affrontare la pandemia, ma averli tramite il Mes o ricorrendo al mercato a costi più alti. La differenza tra le due alternative può essere stimata nell’ordine di 400-600 milioni annui, che non sono pochi, ma neanche tanti ove si valuti che sia a rischio l’indipendenza del paese. C’è da dire, inoltre, che 36 miliardi (due terzi della cifra stanziata nel “decreto Rilancio”) per i costi sanitari di un’epidemia la cui evoluzione rimane incerta, forse sono troppi. Al momento manca anche un piano per il rilancio del sistema sanitario del paese, che, considerati i vincoli nella destinazione dei fondi, dovrebbe essere preliminare alla richiesta del prestito.

Se dunque la convenienza del ricorso al Mes è dubbia, le ragioni della spaccatura che attraversa il paese vanno cercate in qualcosa di più preoccupante.La partita che si sta giocando verte su qualcosa di molto più grosso. Le forze che vorrebbero accedere al Mes, infatti, sono le stesse forze che hanno fatto dell’ancoraggio all’Europa la propria ragion d’essere. Il loro retropensiero è che il nostro sia un paese arretrato e difficilmente governabile, e che l’unica via per modernizzarlo sia quella di assorbire vincoli imposti dall’esterno. Privatizzazioni, liberalizzazioni, rinuncia al governo dell’economia e politiche di austerità sono state imposte al paese, soprattutto dalla cosiddetta sinistra, in nome dell’Europa e dei principi del neoliberismo. Questa linea è stata decisamente suicida, e a maggior ragione lo è ove fosse riproposta nella fase attuale. Essa inoltre ha prodotto una conseguenza assai pericolosa: in una parte dell’opinione pubblica si è affermata l’idea che i nostri guai dipendano dalle politiche che ci ha imposto l’Europa, e che staremo meglio senza di essa. Da destra, chi si oppone al Mes si oppone anche all’Europa. La destra cavalca la protesta generata da questi decenni di politiche antisociali, dimenticando, tra l’altro, che senza gli interventi di emergenza della Bce saremmo già in piena crisi finanziaria. Inquieta, perché senza sbocco, la prospettiva di una sua affermazione.

Con la sospensione del patto di stabilità e la possibilità che – a partire dalla proposta franco-tedesca – l’UE metta in discussione dogmi consolidati (come il divieto di trasferimenti tra Stati), e si doti di strumenti di debito comuni, potrebbe aprirsi una fase nuova. Lo scontro tra i paesi è acceso e il suo esito dipende in parte anche da noi. È dunque vitale che l’Italia sia in grado di svolgere un ruolo di primo piano, ruolo che non può essere svolto né assorbendo passivamente i vincoli esterni, né inseguendo un sovranismo demagogico e senza sbocchi. L’uso a fini di politica interna, di scelte difficili, è quanto di peggio possiamo attenderci dalla nostra classe dirigente: per l’Italia e l’Europa, ciò potrebbe avere conseguenze assai più gravi di una valutazione errata sui vantaggi e gli svantaggi dell’adesione alla linea di credito del Mes. Spagna, Portogallo e Grecia sembrano orientarsi verso il rifiuto del ricorso al Mes. Difficile che la Francia decida diversamente. Sgombrare il campo dall’ingombrante dibattito sul Mes, e da tutto quell’armamentario di regole e condizioni definito per arginare malamente una crisi molto diversa dall’attuale, sembra essere la scelta più saggia.