lunedì 22 marzo 2021

Left n. 23, 5 giugno 2020

Non si vive solo di Mes

 

Con il Meccanismo europeo di stabilità l’Italia avrebbe in prestito 36 miliardi per la sanità, senza sottostare a misure di austerity. Ma su questa condizione abbiamo solo fragili garanzie politiche. Per frenare la crisi senza minare l’Ue dobbiamo dotarci di strumenti di debito comune

 

di Andrea Ventura

 

 

Il Mes è un fondo finanziario creato nel 2012 per fronteggiare la crisi dei debiti pubblici e dei sistemi bancari, i cui azionisti sono i paesi che aderiscono alla moneta unica. Il suo statuto prevede che, ove un paese vi ricorra, sia soggetto a sorveglianza rafforzata e possa essergli imposto un programma di aggiustamento strutturale. L’articolo 3, infatti, afferma che “L'obiettivo del MES è quello di mobilizzare risorse finanziarie e fornire un sostegno alla stabilità, secondo condizioni rigorose commisurate allo strumento di assistenza finanziaria scelto, a beneficio dei membri del MES che già si trovino o rischino di trovarsi in gravi problemi finanziari”. A meno di una modifica dello statuto, o di una esplicita decisione del Mes stesso di sospendere il proprio regolamento, il punto non è in discussione. Essendo la fase attuale del tutto diversa da quella del 2012, per poter utilizzare i fondi del Mes è stata attivata una linea di credito speciale (il ‘PandemicCrisisSupport’) dove è previsto che il paese sia soggetto al solo vincolo che i fondi siano spesi per i costi diretti ed indiretti della pandemia. Tutto risolto quindi? Dall’acceso dibattito che investe il nostro paese non sembra proprio. 

Per valutare una questione parecchio complicata possiamo seguire due importanti documenti. Il primo è il comunicato dell’Eurogruppo del 23 aprile scorso, dove, con un linguaggio involuto e spesso contraddittorio, si definiscono le condizioni di accesso al fondo. È questo un testo che riflette esigenze contrastanti: quelle dei paesi del Nord, che sarebbero i creditori, e quelle dei paesi più colpiti dall' epidemia, che dovrebbero ricorrere agli aiuti del fondo. Leggendo il testo si possono trovare sia argomenti a sostegno della tesi per la quale le condizionalità previste dal trattato istitutivo del Mes sarebbero alleggerite, sia richiami puntuali al trattato stesso, in particolare all’articolo 13 che definisce le procedure di accesso a fondi. Il secondo documento è la lettera del 7 maggio con cui Gentiloni e Dombrovskis(rispettivamente Commissario per gli affari economici e vicepresidente della Commissione europea) si rivolgono a Mario Centeno, presidente dell’Eurogruppo. La lettera afferma che, essendo il ricorso al Mes strettamente connesso alla crisi sanitaria, non vi è ragione di attivare le procedure di sorveglianza rafforzata previste per i paesi che incontrano difficoltà interne: ai paesi che ricorrono al fondo non sarà richiesto alcun aggiustamento macroeconomico.

In sostanza abbiamo: uno statuto del Mes dove si prevede che possano essere imposte politiche di austerità sotto la sorveglianza della Commissione e della BCE; un programma specifico per la pandemia, dove la condizionalità è limitata al controllo che i fondi del Mes siano impiegati per i costi diretti e indiretti per la cura e la prevenzione dell’emergenza sanitaria; un impegno politico dove si garantisce che al paese che accede al Mes non sarà richiesto alcun aggiustamento macroeconomico.

 Muovendoci su un terno scivoloso, sul quale non è semplice illustrare quale possa essere per noi la scelta meno dolorosa, vediamo di individuare vantaggi e svantaggi del ricorso al Mes. C’è da premettere che, per spazzar via qualsiasi preoccupazione sul fatto che il ricorso al Mes possa preludere a politiche di austerità, avrebbe dovuto esservi una deroga alla normativa del Mes, e non una lettera che contiene, certo, un importante un impegno politico, ma che lascia comunque aperta la possibilità che in futuro le condizioni e i rapporti di forza possano mutare. Disponiamo in sostanza di una garanzia politica, non di una certezza giuridica. Questa scelta è legata al fatto che la deroga alla normativa avrebbe trovato l’opposizione dei cosiddetti “paesi rigoristi” del nord Europa: una scelta, dunque, forse obbligata, ma miope in quanto, se da un lato attutisce il conflitto, potrebbe in futuro generare ulteriori attriti e incomprensioni. Non è certo questo quello di cui l’Europa ha bisogno. Va chiarito inoltre che i 36 miliardi che il Mes ci presta (perché, ricordiamolo, di prestiti si tratta) potrebbero essere raccolti sui mercati finanziari. Ogni anno l’Italia rinnova il proprio debito per circa 500 miliardi di euro: 36 miliardi non sono certo pochi, ma neanche tantissimi. Non si tratta dunque di avere o meno i soldi per affrontare la pandemia, ma averli tramite il Mes o ricorrendo al mercato a costi più alti. La differenza tra le due alternative può essere stimata nell’ordine di 400-600 milioni annui, che non sono pochi, ma neanche tanti ove si valuti che sia a rischio l’indipendenza del paese. C’è da dire, inoltre, che 36 miliardi (due terzi della cifra stanziata nel “decreto Rilancio”) per i costi sanitari di un’epidemia la cui evoluzione rimane incerta, forse sono troppi. Al momento manca anche un piano per il rilancio del sistema sanitario del paese, che, considerati i vincoli nella destinazione dei fondi, dovrebbe essere preliminare alla richiesta del prestito.

Se dunque la convenienza del ricorso al Mes è dubbia, le ragioni della spaccatura che attraversa il paese vanno cercate in qualcosa di più preoccupante.La partita che si sta giocando verte su qualcosa di molto più grosso. Le forze che vorrebbero accedere al Mes, infatti, sono le stesse forze che hanno fatto dell’ancoraggio all’Europa la propria ragion d’essere. Il loro retropensiero è che il nostro sia un paese arretrato e difficilmente governabile, e che l’unica via per modernizzarlo sia quella di assorbire vincoli imposti dall’esterno. Privatizzazioni, liberalizzazioni, rinuncia al governo dell’economia e politiche di austerità sono state imposte al paese, soprattutto dalla cosiddetta sinistra, in nome dell’Europa e dei principi del neoliberismo. Questa linea è stata decisamente suicida, e a maggior ragione lo è ove fosse riproposta nella fase attuale. Essa inoltre ha prodotto una conseguenza assai pericolosa: in una parte dell’opinione pubblica si è affermata l’idea che i nostri guai dipendano dalle politiche che ci ha imposto l’Europa, e che staremo meglio senza di essa. Da destra, chi si oppone al Mes si oppone anche all’Europa. La destra cavalca la protesta generata da questi decenni di politiche antisociali, dimenticando, tra l’altro, che senza gli interventi di emergenza della Bce saremmo già in piena crisi finanziaria. Inquieta, perché senza sbocco, la prospettiva di una sua affermazione.

Con la sospensione del patto di stabilità e la possibilità che – a partire dalla proposta franco-tedesca – l’UE metta in discussione dogmi consolidati (come il divieto di trasferimenti tra Stati), e si doti di strumenti di debito comuni, potrebbe aprirsi una fase nuova. Lo scontro tra i paesi è acceso e il suo esito dipende in parte anche da noi. È dunque vitale che l’Italia sia in grado di svolgere un ruolo di primo piano, ruolo che non può essere svolto né assorbendo passivamente i vincoli esterni, né inseguendo un sovranismo demagogico e senza sbocchi. L’uso a fini di politica interna, di scelte difficili, è quanto di peggio possiamo attenderci dalla nostra classe dirigente: per l’Italia e l’Europa, ciò potrebbe avere conseguenze assai più gravi di una valutazione errata sui vantaggi e gli svantaggi dell’adesione alla linea di credito del Mes. Spagna, Portogallo e Grecia sembrano orientarsi verso il rifiuto del ricorso al Mes. Difficile che la Francia decida diversamente. Sgombrare il campo dall’ingombrante dibattito sul Mes, e da tutto quell’armamentario di regole e condizioni definito per arginare malamente una crisi molto diversa dall’attuale, sembra essere la scelta più saggia.