sabato 9 dicembre 2017

left n. 48, 2 dicembre 2017

La scalata del Monte dei fiaschi

Il declino della più antica banca italiana è iniziata nel 2007 in concomitanza della nascita del Partito democratico. A distanza di dieci anni, gli ex comunisti del Pd hanno ridotto in macerie il loro centro di potere senese (e toscano) e hanno perso il partito, consegnandolo agli ex democristiani. Cioè a Renzi

di Andrea Ventura


Sulla complessa vicenda del Monte dei Paschi di Siena, contrassegnata da inchieste giudiziarie e morti sospette, abbiamo alcuni fatti certi, su altri possiamo fare delle ipotesi, su altri ancora dobbiamo fermarci alle coincidenze ed essere prudenti su ogni considerazione. Vi sono infine circostanze su cui il mistero è così fitto da impedirci ogni riflessione.

Non sappiamo anzitutto cosa abbia spinto il colosso Abn Ambro ad acquistare, nel 2006, una banca italiana nota già allora per il suo stato disastroso. Eppure il gruppo olandese scala l’Antonveneta spendendo 7,3 miliardi di euro. Quando Abn Ambro entra in difficoltà, intervengono tre grandi banche europee: nel maggio del 2007 lo spagnolo Santander, la Royal Bank of Scotland e il colosso belga Fortis acquistano Abn Ambro investendo 71 miliardi. Sono operazioni che coinvolgono, badate bene, le più grandi banche europee.

Il Banco di Santander, legato all’Opus Dei, è interessato al ramo italiano e sudamericano del gruppo olandese, che nel complesso paga 19 miliardi (di cui 6,6 per Antonveneta). Antonveneta però è vicina al fallimento, cosicché i dirigenti del Santander (Botin e Gotti Tedeschi, personaggio di cerniera di tutto l’affare noto per essere stato dal 2009 al 2012 presidente dello Ior) contattano il Monte dei Paschi di Siena per verificarne la disponibilità all’acquisto. L’operazione avviene tra il 2007 e il 2008 e si conclude rapidamente, cosicché il Santander può, con i soldi ricevuti dal Monte, perfezionare l’acquisto di Antonveneta girando la cifra incassata ad Abn Ambro. In sostanza, Mps versa 9 miliardi per una banca - che ha anche più di 7 miliardi di debiti nei confronti di Abn Ambro, i quali ora sono a suo carico - che era appena stata acquistata, senza pagarla, per 6,6 miliardi. Abn Ambro, Fortis e la Royal Bank of Scotland falliscono subito dopo. Santander si salva, forse perché al suo posto fallisce Mps.

Non è pensabile che operazioni di questa portata avvengano all’oscuro degli organi di vigilanza nazionali e internazionali. Più nello specifico, non è pensabile che l’operazione Mps-Antonveneta non sia stata vagliata dagli organi stessi, o che questi siano stati tenuti all’oscuro o messi di fronte al fatto compiuto. E c’è un particolare che merita attenzione: Mps accetta la condizione imposta dal Santander che l’Antonveneta venga acquistata senza effettuare la due diligence cioè senza il controllo dei conti della banca stessa. Cosicché si trova sul groppone, oltre ai 9 miliardi spesi per l’acquisto, altri 7 miliardi di debiti da onorare. Al tempo il governatore della Banca d’Italia, cioè dell’istituzione che avrebbe dovuto vigilare sull’operazione, era Mario Draghi. Quest’ultimo era anche presidente del Financial Stability Board, massimo organo di controllo del sistema finanziario internazionale. Capo della vigilanza della Banca d’Italia era Anna Maria Tarantola, cattolica, giunta in quella posizione grazie a Draghi nel 2006, mentre direttore generale era Fabrizio Saccomanni. Tutti personaggi promossi in seguito ad incarichi assai più prestigiosi. Difficile pensare che quelle promozioni, come la nomina di Draghi a presidente della Bce, siano state ottenute per aver vigilato con attenzione sulla gigantesca operazione.Regista dell’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps è stata dunque la finanza cattolica. In particolare la banca vicina all’Opus Dei - che solo per aver trasferito una banca sull’orlo del fallimento, l’Antonveneta, da Abn Ambro al Monte dei Paschi - ha guadagnato quasi 2 miliardi e mezzo di euro. Forse anche per questo gli inquirenti sono alla ricerca di una presunta tangente di oltre un miliardo che potrebbe essere transitata in parte sui conti dello Ior, conti che, come è noto, risultano quasi del tutto inaccessibili alle autorità giudiziarie extravaticane.

Quanto sommariamente qui ricostruito si trova descritto nei dettagli nel volume di E. Lannutti e F. Fracassi, Morte dei Paschi. Dal suicidio di David Rossi ai risparmiatori truffati. Ecco chi ha ucciso la banca di Siena (PaperFirs, 2017), al quale rimandiamo. Veniamo ora all’aspetto più doloroso della vicenda: quello del suo retroterra politico. Perché la politica qui c’entra, e molto, anche se questo è un terreno di indagine scivoloso e bisogna fare estremamente attenzione a non giungere a conclusioni affrettate. Eppure alcuni tasselli, come i puzzle di un mosaico, se accostati compongono una figura inquietante. Molti elementi invece mancano, e le domande che poniamo, al momento sono prive di risposte. Procediamo con ordine, lasciando al lettore ogni valutazione.
È certo che gli eredi del Partito comunista, i Democratici di sinistra, cercavano in quegli anni di ampliare la loro sfera di influenza nella finanza. Il tentativo di acquisto della Banca nazionale del lavoro da parte di Unipol, compagnia assicurativa storicamente vicina al loro mondo, era stato fermato dapprima dalle inchieste giudiziarie e da una campagna ostile dei mezzi di informazione, infine (nel gennaio 2006) dalla vigilanza della Banca d’Italia. Il potere politico, giudiziario e mediatico si scatenò dunque contro gli ex comunisti. Sebbene tutte le accuse contro Consorte e i dirigenti di Unipol che tentarono la scalata alla Bnl finirono con la loro completa assoluzione, Fassino e D’Alema (al tempo rispettivamente segretario e presidente del partito), che caldeggiavano l’operazione, ne uscirono comunque sconfitti. Di lì a pochi mesi però Prodi e la coalizione dell’Ulivo vincono le elezioni. Nell’ottobre del 2007 nasce il Partito democratico. L’inquietante domanda è se quello scellerato incontro tra finanza rossa e Opus Dei sulla pelle della più antica banca italiana, che non trovò invece ostacoli, possa aver costituito il collante di quella “fusione fredda”, come è stata definita, tra ex comunisti ed ex democristiani. Come peraltro “freddo” (cioè basato su interessi economici e clientelari) è l’accordo finanziario che l’avrebbe accompagnato.

Molte coincidenze, anche se nessuna prova, portano a pensarlo. A Siena, gli ex comunisti controllavano tramite gli enti locali la Fondazione del Monte dei Paschi, mentre la banca era appannaggio principalmente di socialisti ed ex democristiani. Già intorno al 2000 essi premevano per controllare anche la banca (riuscendoci infine nel 2006 con Mussari, storicamente vicino agli ex comunisti, che poi fu l’artefice dell’acquisto di Antonveneta), ma comunque il sistema di potere senese e la comunanza di interessi tra partiti anche in contrasto tra loro, e tra partiti e imprenditori vicini all’Mps come Berlusconi, Verdini, Ligresti e Caltagirone, facevano di Siena il luogo più adatto a rodare proficue alleanze. Considerate le aspirazioni degli ex comunisti, è possibile avanzare l’ipotesi che ad essi sia stato richiesto un prezzo per il pieno accesso al sistema di potere politico-finanziario, e che questo prezzo possa essere stato qualcosa a vantaggio della finanza cattolica e internazionale. Il fallimento della scalata alla Bnl, e il successo della ben più rischiosa acquisizione di Antonveneta, suggeriscono l’esistenza di uno scambio di questa natura. Nulla si sa di preciso della presunta tangente, ma, al di là di questa, vantaggi nell’operazione (sulla pelle della città di Siena) potevano essercene per tutti: gli ex comunisti e gli ex democristiani suggellavano il loro matrimonio, con i primi che guadagnavano la piena accettazione nei centri del potere economico, politico e finanziario; le alte sfere della finanza internazionale, grazie alla ben retribuita mediazione della finanza cattolica, smaltivano un “buco” di parecchi miliardi di euro.

La disastrosa operazione poteva anche restare nascosta nella montagna degli indecifrabili titoli-spazzatura che il sistema finanziario internazionale produceva. Difficile stabilire se, nel tempo, Mps avrebbe potuto smaltirne i costi, e a spese di chi, dato che le banche non creano ricchezza ma si limitano a gestire debiti e crediti. Purtroppo per i protagonisti però, essa coincise con la più grave crisi finanziaria che la storia ricordi. I derivati Alexandria e Santorini che furono varati per coprire i buchi di bilancio - su cui la magistratura sta indagando -, e i vari interventi pubblici (dai Tremonti Bond ai Monti Bond, fino al recente salvataggio del Monte per altri 6,6 miliardi a carico dello Stato) sono finiti così sotto l’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica.

Non sappiamo quanto degli scontri e dei rancori sfociati nella scissione del Partito democratico guidata da Bersani e D’Alema possano a quella vicenda essere attribuiti, né su quali impervie strade si stiano avviando i protagonisti dell’attuale fase politica. Sappiamo solo che i tempi della vicenda Mps sono sovrapponibili, almeno in alcuni passaggi, alla parabola del Partito democratico e al suo esito ultimo, costituito dalla definitiva liquidazione di una famiglia politica e della sua storia. Gli ex comunisti hanno ridotto in macerie il loro centro di potere senese (e toscano) e hanno perso il partito, consegnandolo agli ex democristiani, dunque a Matteo Renzi.

mercoledì 11 ottobre 2017

left n. 39, 30 settembre 2017

Il mercato non è un totem e il capitalismo non è eterno

Oggi la convivenza sociale è dominata dal puro interesse economico. Per liberasi da questa oppressione figlia del neoliberismo la sinistra deve rifiutare un'idea pessimistica della natura umana e portare avanti una nuova cultura politica.

di Andrea Ventura



L’impotenza di quel che resta della gloriosa sinistra del passato costituisce solo l’aspetto più superficiale di un dramma storico di vastissime proporzioni. La sinistra, sia quella di derivazione dai movimenti del sessantotto, sia quella più legata alle forze tradizionali del movimento operaio, è stata infatti sconfitta anzitutto sul piano cultuale, poi sul piano politico e dei rapporti di forza nella sfera dell’economia. Senza una ricerca sulle ragioni ultime di questa sconfitta, nessuna inversione di tendenza è possibile.

     L’ideologia che si è affermata negli ultimi decenni, e che ha condotto a questa sconfitta, è il neoliberismo. Il neoliberismo, anzi, è penetrato profondamente all’interno delle forze della sinistra, rendendole irriconoscibili, indicando dunque la presenza di un problema assai più radicale. Ogni analisi del fallimento e delle contraddizioni di quell’ideologia – i cui sostenitori, ad esempio, per decenni hanno negato ogni ruolo attivo dello Stato, ma dopo la crisi del 2008 hanno invocato interventi pubblici di portata mai vista per salvare il mercato dall’autodistruzione –, non può prescindere dal chiarimento dell’idea di civiltà di cui il neoliberismo è portatore: in assenza di ciò non si comprende perché quell’ideologia svolga un ruolo così egemone nella politica odierna. Quest’idea è molto semplice: il legame sociale fondamentale è l’interesse economico, dunque l’ordine di mercato è l’ordine naturale della società e solo a partire da esso è possibile garantire progresso e sicurezza per tutti.

     Abbiamo qui pertanto non un’idea di regolazione dei rapporti commerciali, ma un principio per il governo dell’intera società; anche problemi relativi ai rapporti tra Stati e aree economiche, o quali siamo i paesi da accettare o da escludere dalla comunità internazionale, vengono affrontati a partire dal riferimento al libero mercato. Il passaggio storico connesso all’affermazione di questo modello di società non è di poco conto. In precedenza, infatti, il pensiero politico si basava su di un principio molto diverso: era piuttosto lo Stato che, assumendo la piena sovranità, con un atto tra l’arbitrio del sovrano e il “contratto sociale” liberamente sottoscritto dai cittadini, svolgeva la funzione di assicurare l’ordine e il rispetto della legge. Le formulazioni più note di questa tesi sono quelle di Hobbes, Locke e Rousseau, dove i cittadini rinunciano allo stato di natura per sottomettersi alla legge. Ora invece l’ordine scaturisce direttamente dalla tendenza naturale degli individui a cercare l’utile economico. Il mercato è perciò esso stesso lo stato di natura per l’uomo, e lo Stato dovrebbe solo preservarne il funzionamento. Il tramonto di un’idea di Stato che interviene nell’economia assicurando, ad esempio, occupazione, protezione sociale e servizi pubblici, a favore di un’idea per la quale invece protegge il mercato, è peraltro il modello di riferimento dell’Europa di oggi, ed è superfluo dilungarci ora sulle sue contraddizioni. Ci basta osservare quanto, nei fatti, l’Europa odierna oscilli tra la protezione a livello costituzionale dei principi del libero mercato, e una realtà dove l’intervento statale, e in particolare il ruolo della Germania, rimangono decisivi per il suo funzionamento.

     Va osservato che in entrambi i casi, cioè sia che si conti sulla sovranità statale che sul mercato, ciò che assicura l’ordine della società è il predominio della ragione: nel primo caso la ragione solleva gli uomini dallo stato di natura e sopprime il loro istinto primario alla violenza; nel secondo indirizza le energie dell’individuo verso il tornaconto economico perché egli trova conveniente commerciare con gli altri piuttosto che derubarli o muovergli la guerra. In sostanza, e questo è un punto cardine, la ragione, il calcolo e la convenienza, costituiscono la base della convivenza civile. Quest’ultima rimane comunque precaria in quanto nessuno può escludere che la convenienza, invece, possa improvvisamente diventare quella della violazione della legge, della guerra, o dell’abbattimento dell’ordine costituito.

   Questa “ragione” basata sulla convenienza economica è rappresentata in massimo grado nelle imprese capitalistiche, che assumono appunto come propria finalità l’arricchimento illimitato. Ormai però il sistema capitalistico, piuttosto che assicurare l’ordine rischia di condurre la specie umana verso la catastrofe: per la pressione che esercita sull’ambiente naturale; perché il mercato ha generato uno sproporzionato arricchimento di ristrette oligarchie, impoverendo la maggioranza e mettendo a rischio la coesione sociale; perché quest’idea di razionalità tradisce ogni idea di giustizia, di eguaglianza e di socialità anche nei rapporti tra i popoli. Il problema della socializzazione non è dunque affatto risolto. La sinistra però, purtroppo, non ha nessuna idea in proposito e dunque non sa proporre alcuna idea di socializzazione veramente alternativa a da quella basata sull’arricchimento e l’interesse materiale. Il punto è che una diversa concezione della socialità si scontra con un presupposto assai consolidato nella cultura dominante. Ci riferiamo all’idea per la quale nella natura dell’essere umano vi sarebbero cattiveria, violenza, perversione, “peccato originale”, e la ragione svolgerebbe una funzione decisiva per il controllo e il contenimento di questi istinti naturalmente violenti. È questo dogma che, al fondo, chiude ogni prospettiva di socializzazione che non sia quella legata al dominio dell’economia e alla riduzione del cittadino a consumatore. Tutto questo ha, purtroppo, conseguenze ancora più nefaste nella misura in cui impedisce ogni ricerca sul perché gli esseri umani siano capaci delle più grandi distruzioni, come anche dei più alti atti di generosità, e quali siano le condizioni che possono favorire un esito piuttosto che un altro.

    Antropologia e psichiatria oggi si stanno indirizzando verso percorsi di ricerca molto più ricchi. Emerge infatti da studi condotti sotto diverse prospettive che l’essere umano, se sano, è naturalmente portato alla socialità e genuinamente interessato anche alla condizione degli altri esseri umani con cui entra in rapporto. La psichiatria mostra inoltre che il rapporto interumano, fin da rapporto del neonato con la donna, è centrale per lo sviluppo dell’identità mentale del soggetto, molto più di quanto possa essere il rapporto con gli oggetti materiali. Superare la visione pessimistica sulla natura umana è però solo un primo passo, certo non sufficiente. Il secondo è quello di sviluppare un’articolata cultura politica che sappia collegarsi a ciò che fa star bene le persone, e non si basi invece su vere e proprie patologie come quella di cui l’uomo economico (razionale, autointeressato, che interagisce con gli altri solo sulla base del calcolo di convenienza) è portatore. Dunque una cultura politica consapevole del fatto che oggi, per lo sviluppo delle nostre società, è necessario accompagnare la lotta contro la povertà materiale con qualcosa di più complesso e articolato: lo sviluppo della cultura, dell’istruzione, la difesa del bene pubblico, dell’ambiente e dei luoghi di socializzazione, come anche l’educazione sessuale e la fine di ogni violenza (non solo fisica) nei confronti delle donne. Fermare questa assurda tendenza all’arricchimento illimitato e centrare la politica su una nuova cultura del rapporto interumano dunque, con la consapevolezza che lo sviluppo delle nostre società richiede un modello di civilizzazione interamente diverso da tutti quelli sperimentati nel passato.

mercoledì 4 ottobre 2017

left n. 37, 22 settembre e left on line, 29 settembre 2017

Varoufakis, un battitore libero si aggira per l’Europa


Il meccanismo di costruzione del potere è costruito da reti e canali d’informazione all’interno dei quali politici ed economisti, opinionisti e media, sono costretti a coprire la verità, sostiene Yanis Varoufakis. Chi sceglie di dirla, paga con l’esclusione dai circuiti informativi e dal potere. 

Il libro dell’ex ministro greco delle finanze (Adults in the Room. My Battle With Europe’s Deep Establishment, The Bodley Head, London, 2017) è una denuncia della capitolazione della sinistra e dell’essenza di democrazia nell’Europa di oggi. Colloqui e riunioni, ufficiali e informali, sono riportati nel dettaglio. 

Dedicato “a coloro che cercano un compromesso, ma preferirebbero essere schiacciati che finire compromessi”, mostra l’impossibilità, in assenza di una ricostruzione della sinistra, di un’economia basata sulla solidarietà tra i popoli.

di Andrea Ventura


      
La sera del 15 aprile 2015 il ministro delle finanze greco Yanis Varoufakis ha un incontro riservato con Lawrence Summers. Nella penombra del bar di un albergo di Washington, davanti a un bicchiere di whisky, l’ex consigliere economico di Obama pone a Varoufakis la seguente alternativa: deve decidere se essere un insider, oppure un outsider. Se sceglie la prima strada, oltre all’accesso alle informazioni rilevanti ha la possibilità di partecipare a importanti decisioni sulle sorti dei popoli. Deve però rispettare una regola fondamentale: non ribellarsi agli altri insider, né denunciare agli outsider quello che gli insider dicono e fanno. Se invece sceglie di essere un outsider, mantiene la libertà di esprimere le proprie opinioni, ma paga questa libertà con l’essere ignorato dagli insider, dunque con l’irrilevanza delle sue posizioni.

       L’apertura del libro di Varoufakis Adults in the Room, è illuminante. Quello che molti intuiscono, fin dalle prime pagine del volume è raccontato con precisione: il meccanismo di costruzione del potere è costituito da reti e canali d’informazione all’interno dei quali politici ed economisti, ma anche opinionisti e mezzi di comunicazione, sono costretti a coprire la verità, oppure, se scelgono di dirla, pagano questa scelta con l’esclusione dai circuiti informativi e dal potere. L’opacità e la copertura delle informazioni rilevanti, o più semplicemente l’attitudine alla menzogna, sono in sostanza la naturale condizione di ogni insider. Illuminante è però tutto il libro di Varoufakis, il quale nell’occasione risponde a Summers di essere per carattere un outsider, ma che è disposto a comportarsi come un insider se questo può servire ad aiutare il proprio paese; poi Varoufakis, nell’impossibilità di cambiare il corso degli eventi, racconta nel dettaglio, da outsider, tutto quello che ha visto e sentito nei mesi in cui ha avuto la possibilità di vivere tra gli insider. Unico nel suo genere, il volume ci consente pertanto di comprendere i meccanismi del potere nell’Europa di oggi e il ruolo dei vincoli monetari nel condizionare la sovranità dei paesi. La lettura del volume è imprescindibile per chiunque voglia seriamente affrontare il tema della democrazia nell’ambito dellattuale costituzione europea.

     La prima menzogna che gli insider sono costretti a raccontare, e i media acriticamente a riprendere, riguarda la questione del debito della Grecia e la necessità delle politiche di austerità per ripagarlo. Nel suo primo incontro con Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, Varoufakis spiega che, se è vero che una famiglia indebitata, per restituire un debito, deve ridurre i consumi, la stessa logica non si applica ai governi; la spesa statale, infatti, sostiene l’economia ed è fonte di reddito per i cittadini, perciò le politiche di austerità, indebolendo il sistema economico, riducono le entrate dello stato e rendono più difficile al governo onorare i propri debiti. La risposta della Lagarde è sconcertante: “Hai ovviamente ragione, Yanis, gli obiettivi su cui i creditori insistono non possono essere raggiunti. Ma devi capire che abbiamo investito troppo in questo programma (di austerità), e dunque non possiamo tornare indietro. La tua credibilità dipende dall’accettare di lavorare all’interno del programma”. Il capo del Fondo Monetario Internazionale dice dunque al ministro delle finanze che le politiche imposte al suo paese non possono funzionare, ma che non c’è modo di fare altrimenti: la sua “credibilità” - come insider appunto - consiste nel continuare a imporre inutili sofferenze alla popolazione.

     La ragione è presto detta. Abbiamo a suo tempo ricostruito anche noi su left il meccanismo del cosiddetto salvataggio della Grecia (Controstoria della crisi greca, left n. 10, 21 marzo 2015), salvataggio che in realtà, lungi dall’aver aiutato il popolo greco, si è risolto in una colossale truffa ai danni di tutti gli europei. Il debito greco nei confronti delle banche (principalmente francesi e tedesche), infatti, è stato trasferito agli stati, anche a quelli più poveri della stessa Grecia, cosicché un default della Grecia, oggi, rischia di essere destabilizzante per l’intero continente. Scorre dunque nelle pagine del volume il film di una classe dirigente europea intrappolata nelle proprie menzogne e nei doppi giochi: da una parte la realtà di un paese, la Grecia, che non può uscire dalla sua crisi senza l’abbandono delle politiche seguite finora, dall’altra un messaggio ripetuto all’infinito per il quale, per la Grecia come per gli altri paesi indebitati, l’austerità e l’adesione ai dogmi del neoliberismo sarebbero l’unica soluzione. Scorrono anche le miserie umane e le doppiezze, in ossequio appunto alla loro posizione di insider, dei vari leader della sinistra socialista e socialdemocratica.
      Varoufakis racconta del suo incontro con Michel Sapin, ministro delle finanze del governo Hollande, che in una conversazione privata esprime pieno sostegno alle sue richieste – ristrutturazione del debito, politiche fiscali compatibili con le condizioni del paese, riforme che colpiscano gli oligarchi, rispetto della sovranità del paese e dell’esito elettorale – e pochi minuti dopo, in una conferenza stampa pubblica, con durezza richiama il ministro greco al rispetto delle politiche di austerità. “Devi capirlo Yanis, la Francia non è più quella di una volta” gli ricorda Sapin al termine della conferenza stampa: non è più quella di una volta da quando Hollande, eletto nel 2012 con un programma contrario all’austerità, fu informato dal governatore della propria Banca centrale che era impensabile contrastare Berlino perché senza il sostegno della Banca Centrale Europea, dunque della Germania, il sistema bancario francese sarebbe andato in frantumi. Pertanto, se anche la Francia fu costretta a cedere, cosa potrebbe fare la piccola Grecia? Un’analoga doppiezza Varoufakis la sperimenta tra i tanti con Sigmar Gabriel, Ministro dell’economia tedesco della SPD, e con Pierre Moscovici, presidente della Commissione Europea, umiliato dall’arroganza di Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo, vero luogo dove si prendono le principali decisioni sulle sorti dei popoli europei ma che, come si scopre nel volume, è privo di qualsiasi statuto legale. L’asse tra l’olandese Dijsselbloem, il potente ministro delle finanze tedesco Shäuble, e la Merkel, è troppo saldo perché Varoufakis e il governo greco possano aver successo nell’opporsi alla devastazione del paese.

     Il volume di memorie di Varoufakis ci consente anche di seguire tutte le fasi di quella vera e propria guerra mediatica ed economica attivata per piegare il governo greco alle politiche di austerità. In conformità al mandato ricevuto dagli elettori il 25 gennaio 2015, il governo greco cerca di uscire dalla logica dei cosiddetti “salvataggi”: chiede pertanto una ristrutturazione del proprio debito, l’abbandono delle politiche di austerità, il recupero della sovranità fiscale per colpire gli oligarchi e l’evasione (il ministro delle finanze è privo di controllo sui suoi uffici fiscali, affidati invece ai creditori), il varo d’iniziative per far fronte all’emergenza umanitaria del paese. All’interno del governo Varoufakis sostiene fermamente che la Grecia non debba abbandonare la moneta unica, ma ritiene anche che sarebbe inutile entrare in una trattativa con le più potenti istituzioni del mondo senza un piano da attivare nell’eventualità che non si giunga ad un compromesso onorevole. Egli pensa quindi che il governo debba dotarsi di alcuni deterrenti da far valere nella trattativa: la minaccia di default sui titoli di stato detenuti dalla BCE, la predisposizione di una moneta fiscale, una proposta di legge che riporti la Banca centrale sotto il controllo del governo. Questi deterrenti, se usati con accortezza, a suo avviso possono servire per indicare che il governo greco, pur non volendolo, piuttosto che abdicare alla propria sovranità è disposto a uscire dalla moneta unica, innescando una crisi di enormi proporzioni negli assetti dell’Europa.

      Sul piano economico i margini per un accordo erano ampi. Vi è sempre, infatti, un interesse comune tra i creditori e i debitori affinché i debiti impossibili da esigere siano cancellati (o formulati diversamente), lasciando quelli che il debitore può realisticamente onorare riprendendo a produrre. Le proposte tecniche di Varoufakis trovavano pertanto apprezzamento in una parte del mondo finanziario e dell’Amministrazione americana, come anche in think-tank liberisti quali l’Adam Smith Institute che, ricorda con ironia l’autore del volume, rappresentava tutto quello che egli aveva combattuto nella sua vita accademica. Sul piano politico, invece, un successo del nuovo governo greco costituiva un incubo per le istituzioni europee: altri popoli e altri governi sarebbero stati indotti a perseguire quella stessa strada, rendendo non più praticabili in Europa le politiche di austerità. Nell’opinione di Shauble, inoltre, se ciascuno dei diciannove paesi della moneta unica avesse il diritto di rivedere gli accordi ogni volta che elegge un nuovo governo, l’Europa diventerebbe ingovernabile. Dunque o austerità o democrazia, dunque ogni arma fu impiegata per piegare il paese.

     L’arma principale fu la vera e propria azione eversiva esercitata dalla Banca Centrale Europea di Mario Draghi, che, riducendo la liquidità alle banche greche, le costrinse infine alla chiusura. I dettagli e i tempi della manovra sono illustrati nel volume. Non solo, ma Draghi si rifiuta anche di versare al governo greco 1,9 miliardi di profitti ottenuti su operazioni di compravendita compiute dalla BCE. Le ripetute richieste di Varoufakis che la BCE rispetti i suoi obblighi, consentendo alla Grecia di saldare a sua volta una rata del proprio debito verso il FMI per un importo analogo, cadono regolarmente nel vuoto.

  Accanto al ricatto economico e al blocco delle trattative, Varoufakis subisce anche un pesante linciaggio mediatico: inconcludente, dilettante, narcisista, privo d’idee e di proposte concrete, i mezzi di comunicazione travisano e alterano i fatti, rendendo invece acritici omaggi alla concretezza, al realismo e alla buona volontà dei negoziatori europei. Nel volume troviamo invece un resoconto completo degli scontri e i colloqui intercorsi, finora privi di smentita, che ci mostrano piuttosto come tutte le sue proposte, anche le più moderate, cadessero nel vuoto.

      Nel corso dei mesi le divergenze tra lui e i membri del partito aumentano, cosicché la sua posizione si indebolisce. Tsipras, con cui egli aveva concordato la linea da seguire prima di accettare l’incarico ministeriale, confidava nell’appoggio della sinistra europea, degli Stati Uniti, della Cina e della Russia. Presto realizza invece di essere completamente isolato. Si affida dunque alle promesse della Merkel, che appare in effetti come l’unica persona che avrebbe potuto favorire un esito positivo delle trattative. Varoufakis confida anch’egli nella Merkel, ma ritiene che solo se il governo greco si mostra unito e determinato nell’attivare i suoi deterrenti, essa interverrà per favorire un accordo.

    Mentre proseguono lo stallo e il logoramento del paese, Varoufakis comincia invece a essere anche visto, anche all’interno del governo, come un ostacolo all’esito positivo delle trattative. Così, infine, per sbloccare una situazione sempre più insostenibile, Tsipras decide per la convocazione del referendum del 5 luglio: il popolo greco è chiamato a esprimersi con un Sì o con un No all’accordo nei termini posti dai creditori. Tutte le previsioni sono che il paese, stremato dalla crisi, si pronunci per il Sì, ma il No vince con un largo 61,3%. Varoufakis però è l’unico a festeggiare: gli altri membri del governo invece, nonostante fossero ufficialmente schierati per il No, si attendevano un Sì che potesse legittimare la loro capitolazione.

    Gli ultimi colloqui tra Tsipras e Varoufakis, riportati ampiamente nel volume, illustrano bene il dramma della democrazia greca (ed europea). Tsipras, con le banche chiuse e la campagna referendaria in corso, chiede al suo ministro quali possibilità ha il governo di raggiungere un accordo con i creditori perseguendo nel rifiuto dell’austerità. Sebbene Varoufakis nel testo esprima spesso la convinzione che, ove il governo fosse rimasto compatto e abbia predisposto i suoi deterrenti, un accordo sarebbe stato raggiunto, ci racconta che in quell’occasione fornisce una risposta diversa: se avessimo di fronte dei creditori che pensano ai propri interessi, un accordo sarebbe certo; ma siccome le classi dirigenti agiscono spesso in modo autodistruttivo, la probabilità che si giunga a un esito disastroso per tutti è del cinquanta per cento.

      Tsipras, logorato da mesi di pressioni umanamente insostenibili, sfiduciato e isolato in campo internazionale, con una compagine governativa debole e incerta, si trova di fronte a una scelta drammatica: proseguire nella linea del rifiuto rischiando di condurre il paese fuori dalla moneta unica, oppure capitolare alle richieste delle cosiddette istituzioni. Messo anche in allarme sui presunti preparativi di un colpo di stato dal Presidente della Repubblica, dal governatore della Banca centrale, dai servizi segreti e da membri del governo, nonostante l’esito del referendum decide per la capitolazione. Varoufakis, in disaccordo, si dimette e rifiuta altri incarichi ministeriali. Nelle settimane successive la Grecia firma tutte le condizioni imposte dai creditori, senza ottenere nulla in cambio. 


martedì 22 agosto 2017

left n. 30, 29 luglio 2017


Fine vita e ius soli, perché la Chiesa dice no.

La concezione che vede contrapposti i diritti dell'uomo rivendicati dalla rivoluzione francese, e i diritti della persona che proverrebbero da dio, non è stata superata. Così come non si è mai pienamente affermata la dottrina dell'uguaglianza indipendentemente dal credo religioso

di Andrea Ventura 


    E così i centristi, che alla Camera avevano dato il loro assenso, non sono stati più disponibili a fornire alla legge sullo ius soli il sostegno per la sua approvazione al Senato. L’ostilità alla legge del Movimento 5 Stelle, della destra, e il mancato appoggio di una parte della maggioranza, hanno spinto il governo a rinviare a dopo l’estate. Non sappiamo se questo sia solo un rinvio, oppure segni la fine di quella legge, ma al di là delle ragioni contingenti che avrebbero indotto il governo a rinunciare, qualche domanda dobbiamo porcela. Come mai proprio i centristi, il partito più vicino alla Chiesa – che dunque sappiamo a quali sollecitazioni risponda – , ha cambiato posizione su questa scelta di civiltà. Come mai il cattolicissimo Mattarella ha espresso sollievo per la rinuncia del cattolicissimo Gentiloni? E perché, pur vedendo la legge con favore, su questo tema la Chiesa ha mantenuto un certo riserbo? Non invochiamo qui certo l’ennesima ingerenza, ma porci appunto qualche domanda sul fatto che il mondo cattolico sia stato così tiepido nei confronti della legge, fornendo infine un contributo decisivo alla sua mancata approvazione. E la risposta non è difficile da trovare.
    La dottrina cattolica considera come atti d’amore la carità, il sostegno alla sofferenza, l’aiuto ai bisognosi, ma quando si tratta dell’esercizio dei diritti e del principio di uguaglianza ha sempre mostrato estrema cautela. La ragione di ciò va individuata in un nodo di difficile scioglimento. Per la Chiesa, infatti, i diritti non provengono dalla sovranità popolare, dunque non sono connessi allo sviluppo della democrazia e all’esercizio della libertà, ma da Dio. E questo è un fatto che l’analisi della storia e del pensiero cattolico può facilmente accertare. Non solo la Chiesa ha sempre contrastato la concezione dei diritti dell’uomo come definiti dalla Dichiarazione del 1789 – affermando che la libertà di culto, di pensiero, di stampa, come anche l’idea che tutti gli uomini siano uguali, sono principi contrari alla religione cattolica –, ma anche quando, con la Rerum Novarum del 1891, Leone XIII ha riconosciuto alla “persona” alcuni diritti di tipo economico (giusto salario, vita dignitosa, diritto alla proprietà, contratti e protezioni nei luoghi di lavoro) egli è rimasto ben lontano dal sostenere quei diritti politici che erano lo strumento tramite il quale le classi subalterne potevano emanciparsi anche economicamente. È per questa sua opposizione alla libertà politica che la Chiesa si è sempre trovata a suo agio accanto alle peggiori dittature, da quella di Mussolini, a Franco (la cui costituzione fu a lungo considerata come modello ideale per i rapporti tra Stato e Chiesa), all’America latina.
    L’ostilità della Chiesa all’affermazione dei diritti dell’uomo prosegue fino al secondo dopoguerra, quando, dopo le catastrofi generate dalla loro negazione, con le discussioni e le lacerazioni tra i cattolici attorno ai principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite del 1948, e poi con Giovanni XXIII, si giunge al fatto che la Chiesa riconosce i diritti della “persona umana”, indicando però con questa dizione la necessità che i diritti dell’uomo rimangano subordinati ai diritti della persona: questi ultimi, in realtà, più che diritti dell’individuo sarebbero diritti di Dio, e di essi dunque la Chiesa vuole esserne l’interprete.La libertà e l’uguaglianza (tra uomini e donne anzitutto, ma anche tra battezzati e non battezzati, tra credenti e non credenti, tra ebrei – definiti fino al Concilio Vaticano II come “popolo deicida” – e cattolici, e via elencando) dunque, non sono temi che trovano spazio nella sua dottrina. Così, anche per questo, la Chiesa è a suo agio quando deve fare la carità, ma lo è molto meno quando si tratta di affermare un’uguaglianza nei diritti. Dunque la legge sulla cittadinanza può anche essere messa da parte.
    Certo, il mondo cattolico ormai è un mondo assai articolato: nel secondo dopoguerra si è mosso con relativa autonomia, portando grandi masse alla partecipazione alla vita politica dell’Italia post fascista; oggi le organizzazioni cattoliche svolgono un ruolo importante su diversi terreni, anzitutto quello dell’accoglienza, tema che, allo stato attuale, non può certo essere trascurato. Eppure quella concezione che vede contrapposti i diritti dell’uomo rivendicati dalla Rivoluzione francese, e i diritti della persona che proverrebbero invece da Dio, non è mai stata superata, così come non si è mai pienamente affermata la dottrina dell’uguaglianza indipendentemente dal credo religioso. Forse è anche per questo che frange del mondo cattolico vedono con diffidenza l’allargamento della cittadinanza a ragazzi molti dei quali sono vissuti in famiglie non cattoliche.

    Questo nodo non risolto lo ritroviamo nelle posizioni della Chiesa sul fine vita, altra legge approvata alla Camera la cui discussione definitiva, come è accaduto per lo ius soli, è stata rinviata a dopo l’estate, rischiando di non essere approvata prima della fine della legislatura. L’idea di fondo dei cattolici è che la vita umana non appartiene all’individuo, ma a Dio, cosicché se Dio non le pone un termine, medico, paziente e familiari non possono operare in autonomia. In sostanza, se Dio ha deciso diversamente, lo Stato non può garantire il diritto dell’individuo ad una morte dignitosa.
    Anche qui abbiamo divergenze all’interno del mondo cattolico: alcuni si dichiarano favorevoli ad una legge che lasci al medico e al paziente, nei casi dei malati terminali, ogni decisione sul proseguimento delle cure, altri invece sono contrari, eppure la dottrina ufficiale è chiara. La troviamo espressa con precisione in quel testo che purtroppo molti a sinistra hanno apprezzato: l’enciclica di papa Francesco, Laudato sì. L’enciclica ruota attorno al no alla cosiddetta “cultura dello scarto”. No dunque all’aborto, al fine vita, alla contraccezione e al controllo delle nascite, assimilati, in questa idea dello scarto, all’inquinamento e al consumismo. Ancora un no alla libertà umana dunque, perché nel cuore umano ferito dal peccato si nascondono violenza e malattia (§2). Dio, ricorda papa Francesco, non ha “affidato il mondo all’essere umano”, “la vita umana stessa è dono di Dio” (§5). E ancora “il libro della natura è uno e indivisibile” (§6), tutto è connesso, poveri, embrioni, disabili, dunque “non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto” (§120).
    L’enciclica termina con una nota di fiducia nel futuro, in uno strano futuro, quello che ci attende dopo la morte, dunque in un’eternità che costituisce l’annullamento assoluto del fatto che la vita umana ha un inizio e una fine:

“Alla fine ci incontreremo faccia a faccia con l’infinita bellezza di Dio (...) La vita eterna sarà una meraviglia condivisa, dove ogni creatura, luminosamente trasformata, occuperà il suo posto e avrà qualcosa da offrire ai poveri definitivamente liberati” (§243).

    Contano poco dunque queste nostre misere vicende terrene. Lotte per i diritti, povertà, sofferenze, delusioni e ingiustizie saranno tutte superate nella beatitudine eterna: la confusione tra vita e morte, tra il fine della vita e la fine della vita, raggiunge qui gli esiti più disastrosi.Il dramma nei rapporti tra la sinistra e il mondo cattolico è che quest’ultimo ha un pensiero, o meglio un insieme di credenze basate su alcuni dogmi, mentre la sinistra appare priva di un pensiero alternativo sulla realtà umana e sulla società. Non bisogna infatti dimenticare che il rapporto con Dio, per un cattolico, è più importante del rapporto interumano, e i voleri di Dio – come interpretati dalla Chiesa di Roma – contano più dei voleri liberamente espressi dagli esseri umani. Lunghe battaglie hanno per questo accompagnato conquiste civili elementari quali il divorzio, la contraccezione e l’aborto, duri scontri hanno segnato leggi come quella sulla fecondazione assistita, e oggi siamo ancora in attesa di una legge decente per il fine vita.

    Tutto questo è particolarmente grave nella misura in cui ci si accinge a costruire una nuova formazione o aggregazione delle forze della sinistra. La paralisi politica del PD, che vede il partito lontano dai temi della giustizia sociale, perché compromesso col neoliberismo, e in difficoltà su due leggi care alla sinistra come quella sulla cittadinanza e sul fine vita, perché compromesso con il cattolicesimo, mettono in evidenza la necessità che questa nuova forza politica sia nuova anche sul piano delle idee. La dialettica con i cattolici va svolta a partire da un soggetto politico autonomo da quelle credenze, e non da un paralizzante compromesso con esse. Più che “posizionarsi” in funzione del vuoto lasciato dalla deriva del PD, come stanno facendo pezzi della vecchia classe dirigente, si tratta di individuare strade che non si siano già mostrate fallimentari.

giovedì 20 luglio 2017

left n. 36, 1 luglio 2017

Uguali e diversi, tutti cittadini

La legge sul diritto di cittadinanza basata sullo ius sanguinis affonda le proprie radici ideologiche in una mentalità razzista. La stessa che ispirò le vergognose leggi razziali del 1938

di Andrea Ventura


L’idea che le leggi razziali del 1938 fossero una conseguenza di quell’avvicinamento tra Hitler e Mussolini culminato nel Patto d’acciaio del 1939, non regge all’analisi storica. L’Italia, infatti, aveva una propria tradizione di pensiero razziale risalente a ben prima di quei fatidici anni. Nutrito da figure quali i celebri economisti Pareto e Maffeo Pantaleoni, lo statistico Gini, Rocco e Agostino Gemelli, il razzismo fu infatti una componente significativa del pensiero sociale italiano. Vale la pena di ricordarlo, oggi, anche perché non ha altro fondamento, se non quello razziale, l’idea che l’identità dei membri di un popolo possa essere definita su base biologica, e dunque quest’ultima debba figurare come requisito per l’acquisizione della cittadinanza.

In tema di cittadinanza si hanno due principi: il primo, quello seguito da paesi quali Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, riconosce sotto alcune condizioni lo ius soli, cioè muove dall’idea per la quale la cittadinanza è assegnata a chi nasce sul territorio nazionale. Il secondo principio, quello che vige in Italia e che il Senato – nonostante l’opposizione della destra e del Movimento 5 Stelle si spera riesca finalmente ad abolire, è basato all’opposto sul ius sanguinis: è cittadino chi, nato in Italia o all’estero, è di discendenza italiana e non lo è, salvo il verificarsi di alcune condizioni, chi nasce sul territorio italiano da genitori che non sono già cittadini del paese. Quest’ultimo principio tradisce la sua origine nel pensiero razziale: non contano la lingua, la cultura, l’istruzione, o anche il periodo più o meno lungo di permanenza nel paese, ma vige un’idea per la quale vi sarebbe, come indica la dizione stessa, un diritto alla cittadinanza italiana che si dovrebbe trasmettere per via fisico/biologica. Chi ne è privo è pertanto costretto a vivere una condizione diversa, con meno diritti, in conseguenza appunto di una circostanza a carattere genetico.

Ora, a parte il fatto che non è rintracciabile alcuna specificità nel sangue o nel patrimonio biologico che sia in grado di definire questa italianità, è evidente il senso d’ingiustizia – o meglio la vera e propria violenza – di cui questo principio è portatore. Si stima in circa ottocentomila, infatti, la popolazione giovanile che nel nostro paese, a causa di questa malsano fondamento per la concessione della cittadinanza, è in vario modo discriminata. Cittadini di serie B dunque, che studiano, lavorano, pagano le tasse, hanno amicizie, affetti e riferimenti culturali del tutto indistinguibili dai loro coetanei, ma non i diritti corrispondenti. E se appare odiosa una società che esclude chi batte alle sue porte in cerca di rifugio da guerre e miseria, a maggior ragione è odiosa la creazione, tra quelli che a tutti gli effetti possono essere considerati cittadini del paese, di due classi di persone sulla base di una presunta diversità nell’eredità sanguigna.

Ma, al di là della ridicola rivendicazione di un’identità umana basata sul sangue in un paese come il nostro che, per storia e posizione geografica, è sempre stato caratterizzato da ingenti flussi migratori sia in entrata sia verso paesi lontani, esistono “razze” umane? Se la risposta, com’è ovvio, è negativa, su che base possiamo affermare l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani?Un primo argomento relativo all’unità della specie umana è legato al fatto che, com’è ormai certo, siamo tutti discendenti da un ceppo unico, originario dell’Africa, vecchio di circa 200.000 anni. Recentissime ricerche hanno spostato ancora all’indietro quest’origine, ma, al di là di questo, ciò che rileva per il nostro argomento è che la specie umana ha un’origine unica e ha colonizzato il pianeta caratterizzandosi, più che per la sedentarietà, per il nomadismo, l’esplorazione di terre sconosciute e la capacità di adattamento agli ambienti anche più estremi. Ma questa capacità di esplorare, modificare, inventare strumenti – come anche forme artistiche – a che cosa fa capo?

Secondo la teoria della nascita di Massimo Fagioli la specificità umana è legata a una particolare reazione che la materia cerebrale attiva quando, alla nascita, è colpita dallo stimolo luminoso. Con questa reazione l’essere umano annulla ciò che lo circonda e crea contestualmente una realtà mentale intera che definisce la sua identità, appunto, di essere umano. Questa realtà interna dapprima spinge l’essere umano a immaginare l’esistenza di un altro essere simile a se stesso con cui prendere rapporto, poi, sviluppandosi e arricchendosi nel corso della vita per mezzo di esperienze e conoscenze, fa sì che gli uomini siano creativi di fenomeni quali l’arte, la scienza, la scrittura, come anche la cultura in senso lato e la storia, fenomeni questi del tutto assente nelle altre specie viventi che seguono invece comportamenti ripetitivi, prevedibili e largamente prefissati.

Gli uomini sono dunque uguali non solo per le loro caratteristiche fisiche e biologiche, ma soprattutto per le loro caratteristiche psichiche, e in particolare per la dinamica della formazione del pensiero che consente loro di inventare e di modificare la propria condizione. Questa dinamica è uguale per tutti, anche se poi ciascuno sviluppa contenuti propri in funzione dell’esperienza, delle opportunità, della cultura in cui si forma, e forse anche delle personali capacità creative. L’individuo si può anche ammalare se subisce delle violenze – non solo fisiche, ma soprattutto di tipo psichico – specie nei primi anni di vita. Per questo gli esseri umani possono essere creativi, ma anche distruttivi: se diventano tali, la loro distruttività è di natura del tutto diversa da quella delle altre specie, le quali, se distruggono, lo fanno per sopravvivere, non certo per esercitare un’inutile violenza.

Ora, per tornare al nostro tema, i ragazzi a cui molti, in questi giorni, verrebbero negare ancora la cittadinanza, subiscono una violenza che non è solo quella legata alla mancata possibilità di esercitare dei diritti pienamente riconosciuti ai loro coetanei, dunque una violenza legata a una discriminazione materiale. I giovani che questa legge attendono da anni subiscono anche una violenza psichica legata a un pensiero per il quale essi costituirebbero un’umanità inferiore. Ma l’umanità inferiore è quella di coloro che appunto negano diritti elementari a una parte sempre più cospicua della nostra società sulla base di un criterio discriminatorio privo di senso. Costoro ci fanno dubitare che, dai tempi dei nostri progenitori africani, tutto questo progresso ci sia effettivamente stato. O meglio, se c’è stato, esso ha investito la scienza, la tecnica, la potenza materiale, mentre è rimasto povero, se non addirittura potrebbe essere arretrato, per quanto riguarda il piano del rapporto sociale. Da questa povertà nella socialità hanno origine sia quell’incapacità nel gestire in modo equilibrato il progresso economico, generando la distruzione degli equilibri naturali del pianeta, sia l’artificiosa creazione di barriere tra individui, popoli e culture.

Eppure non possiamo guardare indietro, dunque non abbiamo scelta: la caratteristica umana è la contaminazione, il nomadismo, l’aspirazione a una vita migliore, la realizzazione nel rapporto con i propri simili. Oltre la lotta contro ogni discriminazione, è necessario che si abbia chiarezza su dove volgere lo sguardo affinché possa affermarsi una nuova idea di uguaglianza e di giustizia sociale, per l’effettivo esercizio dei diritti, non solo quelli di cittadinanza.