Questa Europa sciancata
La Comunità ha marciato su due gambe: una economica,
l’altra sociale e politica. Le due gambe però, piuttosto che muoversi in modo
armonioso, hanno generato un processo del tutto sbilanciato: da un lato la
moneta unica, dall’altro i diritti sociali alla sbarra
di Andrea Ventura
“I problemi a cui assistiamo in Europa oggi sono
soprattutto il risultato di errori nelle politiche: punizioni per aver scelto
sequenze errate (prima l’unione monetaria a cui sarebbe seguita l’unione
politica); per aver adottato ragionamenti economici errati (incluso l’aver
ignorato la lezione di Keynes e trascurato l’importanza dei servizi pubblici
per i popoli europei); per l’autoritarismo nei processi decisionali; per la
persistente confusione intellettuale tra riforme e austerità. Niente è più
importante oggi in Europa di un lucido riconoscimento di ciò che si rivelato è
così manifestamente sbagliato nel realizzare la grande visione di un’Europa
unita”. È Amartya Sen che così si esprimeva nel luglio del 2012 sul Guardian, eppure forse solo oggi, per l’evidenza
dei rischi di disgregazione che corre l’area dell’Euro, si va diffondendo la
consapevolezza dell’urgenza di un serio dibattito su questi nodi fondamentali. È
necessario pertanto dare risposta anzitutto ad alcune domande: qual è il
denominatore comune che unisce i popoli europei? In che cosa essi si
distinguono dagli altri popoli? Le basi del progetto europeo rispettano quello
che essi hanno in comune, oppure marcia su un terreno diverso?
Il primo tassello del progetto europeo fu posto nel
1951 con la fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. La sua
motivazione fondamentale fu di dotare i principali paesi europei di un nucleo d’interessi
economici comuni che impedisse il rischio di altre devastanti guerre. Di
seguito, com’è noto, da un lato l’integrazione economica si è approfondita e
allargata a un sempre maggior numero di paesi, dall’altro si è tentato di
affiancare a essa un’integrazione sul lato dei diritti sociali e delle
procedure politiche. La Comunità ha dunque marciato su due gambe: una economica,
l’altra sociale e politica. Le due gambe però, piuttosto che muoversi in modo
armonioso, hanno generato un processo del tutto sbilanciato: da un lato l’integrazione
economica ha proceduto a grandi passi, fino alla costituzione della moneta
unica; dall’altro il riconoscimento sul piano europeo dei diritti sociali,
nonostante in una prima fase abbia accompagnato la costituzione del welfare dei
singoli paesi, dagli anni novanta ha incontrato resistenze sempre maggiori.
Infine i processi di liberalizzazione e finanziarizzazione dell’economia hanno
indebolito quegli stati nazionali che storicamente hanno reso possibile appunto
l’affermazione dei diritti sociali e politici. Ma si tratta veramente, come
afferma Sen, di “errori nelle politiche”, o piuttosto dobbiamo vedere in tutto
questo l’affermazione di un progetto di dominio e di controllo sociale nel cui
ambito il durissimo scontro tra le Grecia e le istituzioni costituisce
l’estrema espressione?
L’idea che l’ordine di mercato non costituisca solo un
mezzo per accrescere il benessere di tutti ma sia anche un principio politico,
un mezzo per limitare quei poteri statali che tenderebbero al dispotismo e alla
dittatura, è espressa in modo chiaro da un autore che da alcuni è considerato
l’ispiratore dell’intero progetto europeo: von Hayek. Nella concezione di Hayek,
in sostanza, il mercato ha in sé un principio di uguaglianza e un’idea di
libertà. Sul mercato, infatti, tutti gli individui sono formalmente uguali e
ciascuno ha la possibilità di compiere le proprie scelte senza vincoli esterni
o imposizioni di alcun genere; inoltre, essendo il mercato visto come il risultato
di un processo spontaneo, l’ordine sociale che impone non contempla che possa
esservi un esito ingiusto “poiché non vi è alcun soggetto che possa commettere
una tale ingiustizia”. Per fare un esempio, quando nel 2011 il ministro Antonio
Martino affermò che scioperare contro la crisi non aveva senso perché era come
protestare contro la pioggia, aveva in mente la concezione del mercato di
Hayek.
In realtà l’ordine di mercato ha ben poco di
spontaneo e richiede invece una serie di regole e la costruzione di una
struttura istituzionale che lo protegga. Da qui quell’insieme infinito di criteri,
direttive e regolamenti che l’Unione Europea si è data sia per agevolare la
libera circolazione delle merci e dei capitali, sia per limitare i poteri d’intervento
sull’economia degli stati membri. Così, inseguendo un delirio razionalistico di
uniformità e di uguaglianza, paesi con storie, economie e istituzioni diverse sono
costretti a uniformarsi a una serie di parametri insensati e talvolta
incoerenti tra loro riguardanti l’economia e la finanza pubblica. Il fatto che il
cosiddetto “libero mercato” autoregolantesi abbia generato una crisi spaventosa,
che le conseguenze estreme della crisi siano state evitate solo grazie ingenti
interventi pubblici, che la norma sia costituita non dal rispetto dei criteri ma
dalla loro violazione, che le strutture statali si siano indebolite ma la
Germania mantenga in pieno la sua sovranità, tutto questo sembra irrilevante: al
momento l’attuale sciancata costituzione dell’Europa pare non abbia alternative
di sorta.
Ma è proprio vero che il denominatore comune dei
popoli europei può essere rintracciato solo nell’adesione ai principi del
libero mercato? Vediamo: molti paesi dell’Europa del secondo dopoguerra, dopo
la sconfitta del nazifascismo si dotano di Costituzioni dove sono garantiti i
principi basilari della democrazia rappresentativa e una serie di diritti
politici e sociali. Su questa base nella seconda metà del XX secolo le masse
popolari, grazie anche alle loro organizzazioni politiche e sindacali, ottengono
l’affermazione di un principio di uguaglianza molto diverso da quello del
mercato hayekiano: istruzione, salute, sicurezza sociale non sono più privilegi
per pochi ma diventano diritti disponibili per tutti. I paesi facenti parte dell’Unione
prima dell’allargamento ad Est del 2004, in varia forma, aderivano tutti a quel
modello unico al mondo che è stato chiamato “modello sociale europeo”, mentre
per quelli dell’ex blocco comunista la protezione sociale non era certo a loro
estranea. È ovvio che un’unione tra popoli avrebbe dovuto essere costruita a
partire dagli elementi che essi hanno in comune: quella europea, all’opposto, marcia
spedita verso la loro soppressione.
Il disastro cui assistiamo dunque non è dovuto solo alla
distruttività del mercato capitalistico lasciato a se stesso, fatto noto da
tempo e ben illustrato da Marx, Keynes, Polanyi, Minsky e tanti altri. Il
disastro va imputato allo stato comatoso della sinistra storica europea, la
quale ha abbandonato la sua ragion d’essere per aderire all’ideologia della
parte avversa. Al di là dello sconcerto
per la miseria umana e culturale dei suoi gruppi dirigenti - di cui il
vergognoso isolamento subito da Syriza è l’ultima gravissima manifestazione - dobbiamo
pensare che un percorso di progresso sociale e civile si è interrotto perché le
idee fondamentali che lo sostenevano si sono mostrate insufficienti. Possiamo proporci una ricerca per la quale è
l’idea di uguaglianza basata sul sistema dei bisogni che ha mostrato i suoi
limiti e che dunque è stata costretta ad arretrare, lasciando spazio al
mercato, o meglio all’antropologia del moderno homo oeconomicus. Si è affermato, in sostanza, l’assurdo pensiero
secondo il quale l’uomo realizza se stesso nel possesso degli oggetti materiali,
pensiero che si contrappone al senso più profondo della parola socialismo, il quale,
nel suo legame con la parola latina socialitas,
rinvia invece alla natura sociale dell’essere umano. La socialità presuppone
certo la soddisfazione dei bisogni materiali, ma, oltre l’eliminazione della
sofferenza del corpo, la sua piena realizzazione avviene appunto sul terreno del
rapporto tra esseri umani. Gli uomini sono sì uguali per la dinamica della nascita
e nei loro bisogni fisici, ma sono anche molto diversi. Superata la
soddisfazione dei bisogni, in sostanza, si apre la grande questione del rapporto
con il diverso da sé: il diverso è anzitutto e in modo assolutamente radicale
la donna per l’uomo e l’uomo per la donna, ma diverso in senso relativo può
anche essere il paese di origine, la cultura, la lingua o la condizione economica.
Una nuova consapevolezza della centralità del rapporto con il diverso per
l’identità di ciascuno di noi, oltre a consentirci di guardare in altro modo
tutti coloro che cercano nell’evoluta Europa una vita migliore, potrebbe favorire
il superamento della centralità del mercato, come anche l’abbandono del tentativo
di uniformare popoli e stati ad astratti parametri economici, tentativo che in
modo un po’ sinistro ricorda l’idea nazista di realizzare la “razza ariana”
nella sua purezza: tutti biondi, con gli occhi azzurri…