venerdì 20 novembre 2015

left 44, 14 novembre 2015

Una sinistra senza visione autonoma combatte con i piedi nelle sabbie mobili 

Andrea Ventura

Grande folla al Quirino di Roma per la nascita del nuovo soggetto politico di sinistra; molti i temi sollevati, folto il pubblico, manca però qualcosa. Anzitutto i temi, pochi se non assenti i riferimenti ai diritti civili e alla laicità dello stato.
A guardar meglio questa mancanza potrebbe non essere casuale. Essa, purtroppo, indica qualcosa di molto più profondo: perché questo vuoto è colmato da un’ingombrante presenza. Infatti, da parte di alcuni leader di primo piano della nuova formazione - anche Fassina - come anche nell’enunciazione dei suoi valori fondativi, s’intende far riferimento alla dottrina sociale della chiesa cattolica e alla recente enciclica Laudato Sì di papa Francesco. E qui, leggendola, troviamo tutte le ragioni della mancanza sopra osservata.
Vediamo: qual è, secondo papa Francesco, l’origine ultima della crisi che investe le nostre società? “La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato” [§ 2]; e più oltre: “L’idea che non esistano verità indiscutibili che guidino la nostra vita, per cui la libertà umana non ha limiti” [§ 6], cioè si rifiutano le verità divine di cui la chiesa sarebbe portatrice. Già, perché le due proposizioni sono connesse: se la violenza, per natura, è dentro ciascuno di noi, la libertà è pericolosa; è necessario dunque che l’individuo sia posto sotto il controllo dell’autorità politica sul piano dei comportamenti pratici, e della chiesa sul piano del pensiero. È qui riproposto un tema da sempre presente nella dottrina cattolica; esso fonda le ragioni ultime di quel fatto - troppo spesso dimenticato - per il quale la chiesa di Roma si è sempre schierata contro l’affermazione delle moderne libertà civili e politiche, fino a trovarsi accanto ai peggiori regimi: dal fascismo di Franco e Mussolini alle dittature dell’America Latina. La critica del papa all’individualismo è tutta qui.
Riprendiamo qualche altro passaggio dell’enciclica. “La crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale” [§ 50]: dunque niente informazione sulla sessualità, né diffusione dei metodi anticoncezionali. “Quando non si riconosce nella realtà stessa l’importanza di un povero, di un embrione umano, di una persona con disabilità (…) difficilmente si sapranno ascoltare le grida della natura stessa” [§ 117] e poco oltre: “dal momento che tutto è in relazione, non è neppure compatibile la difesa della natura con la giustificazione dell’aborto” [§ 120].
Questi passi dovrebbero essere sufficienti a indicare l’abisso che separa il papa da tutte le battaglie della sinistra sui temi della sessualità, dell’aborto e della ricerca scientifica. La questione, lo ripete più volte l’enciclica, è antropologica, e l’antropologia della chiesa colloca sullo stesso piano un ammasso informe di cellule e un essere umano. Che cosa ha a che fare con noi tutto questo?

Si dirà: sono presenti nell’enciclica papale pagine assolutamente condivisibili sull’ecologia. Perché allora non usarla per rafforzare le nostre ragioni? Anzitutto, per l’azione politica è necessario un soggetto politico, ma un soggetto privo di una visione autonoma del mondo è condannato a combattere con i piedi nelle sabbie mobili. In secondo luogo, non basta denunciare ciò che tutti sanno, cioè che le nostre economie sono incompatibili con gli equilibri ambientali. Ormai anche Goldman Sachs ha capito che la questione della sostenibilità è centrale e, fiutato l’affare, si prepara a investire somme ingenti nella green economy. Allora perché, accanto al papa, nei valori di riferimento della “Sinistra italiana” non inseriamo anche lo statuto di Goldman Sachs? 

lunedì 20 luglio 2015

left 26, 11 luglio 2015


Questa Europa sciancata

La Comunità ha marciato su due gambe: una economica, l’altra sociale e politica. Le due gambe però, piuttosto che muoversi in modo armonioso, hanno generato un processo del tutto sbilanciato: da un lato la moneta unica, dall’altro i diritti sociali alla sbarra
di Andrea Ventura

“I problemi a cui assistiamo in Europa oggi sono soprattutto il risultato di errori nelle politiche: punizioni per aver scelto sequenze errate (prima l’unione monetaria a cui sarebbe seguita l’unione politica); per aver adottato ragionamenti economici errati (incluso l’aver ignorato la lezione di Keynes e trascurato l’importanza dei servizi pubblici per i popoli europei); per l’autoritarismo nei processi decisionali; per la persistente confusione intellettuale tra riforme e austerità. Niente è più importante oggi in Europa di un lucido riconoscimento di ciò che si rivelato è così manifestamente sbagliato nel realizzare la grande visione di un’Europa unita”. È Amartya Sen che così si esprimeva nel luglio del 2012 sul Guardian, eppure forse solo oggi, per l’evidenza dei rischi di disgregazione che corre l’area dell’Euro, si va diffondendo la consapevolezza dell’urgenza di un serio dibattito su questi nodi fondamentali. È necessario pertanto dare risposta anzitutto ad alcune domande: qual è il denominatore comune che unisce i popoli europei? In che cosa essi si distinguono dagli altri popoli? Le basi del progetto europeo rispettano quello che essi hanno in comune, oppure marcia su un terreno diverso?
Il primo tassello del progetto europeo fu posto nel 1951 con la fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. La sua motivazione fondamentale fu di dotare i principali paesi europei di un nucleo d’interessi economici comuni che impedisse il rischio di altre devastanti guerre. Di seguito, com’è noto, da un lato l’integrazione economica si è approfondita e allargata a un sempre maggior numero di paesi, dall’altro si è tentato di affiancare a essa un’integrazione sul lato dei diritti sociali e delle procedure politiche. La Comunità ha dunque marciato su due gambe: una economica, l’altra sociale e politica. Le due gambe però, piuttosto che muoversi in modo armonioso, hanno generato un processo del tutto sbilanciato: da un lato l’integrazione economica ha proceduto a grandi passi, fino alla costituzione della moneta unica; dall’altro il riconoscimento sul piano europeo dei diritti sociali, nonostante in una prima fase abbia accompagnato la costituzione del welfare dei singoli paesi, dagli anni novanta ha incontrato resistenze sempre maggiori. Infine i processi di liberalizzazione e finanziarizzazione dell’economia hanno indebolito quegli stati nazionali che storicamente hanno reso possibile appunto l’affermazione dei diritti sociali e politici. Ma si tratta veramente, come afferma Sen, di “errori nelle politiche”, o piuttosto dobbiamo vedere in tutto questo l’affermazione di un progetto di dominio e di controllo sociale nel cui ambito il durissimo scontro tra le Grecia e le istituzioni costituisce l’estrema espressione?

L’idea che l’ordine di mercato non costituisca solo un mezzo per accrescere il benessere di tutti ma sia anche un principio politico, un mezzo per limitare quei poteri statali che tenderebbero al dispotismo e alla dittatura, è espressa in modo chiaro da un autore che da alcuni è considerato l’ispiratore dell’intero progetto europeo: von Hayek. Nella concezione di Hayek, in sostanza, il mercato ha in sé un principio di uguaglianza e un’idea di libertà. Sul mercato, infatti, tutti gli individui sono formalmente uguali e ciascuno ha la possibilità di compiere le proprie scelte senza vincoli esterni o imposizioni di alcun genere; inoltre, essendo il mercato visto come il risultato di un processo spontaneo, l’ordine sociale che impone non contempla che possa esservi un esito ingiusto “poiché non vi è alcun soggetto che possa commettere una tale ingiustizia”. Per fare un esempio, quando nel 2011 il ministro Antonio Martino affermò che scioperare contro la crisi non aveva senso perché era come protestare contro la pioggia, aveva in mente la concezione del mercato di Hayek.
In realtà l’ordine di mercato ha ben poco di spontaneo e richiede invece una serie di regole e la costruzione di una struttura istituzionale che lo protegga. Da qui quell’insieme infinito di criteri, direttive e regolamenti che l’Unione Europea si è data sia per agevolare la libera circolazione delle merci e dei capitali, sia per limitare i poteri d’intervento sull’economia degli stati membri. Così, inseguendo un delirio razionalistico di uniformità e di uguaglianza, paesi con storie, economie e istituzioni diverse sono costretti a uniformarsi a una serie di parametri insensati e talvolta incoerenti tra loro riguardanti l’economia e la finanza pubblica. Il fatto che il cosiddetto “libero mercato” autoregolantesi abbia generato una crisi spaventosa, che le conseguenze estreme della crisi siano state evitate solo grazie ingenti interventi pubblici, che la norma sia costituita non dal rispetto dei criteri ma dalla loro violazione, che le strutture statali si siano indebolite ma la Germania mantenga in pieno la sua sovranità, tutto questo sembra irrilevante: al momento l’attuale sciancata costituzione dell’Europa pare non abbia alternative di sorta.
Ma è proprio vero che il denominatore comune dei popoli europei può essere rintracciato solo nell’adesione ai principi del libero mercato? Vediamo: molti paesi dell’Europa del secondo dopoguerra, dopo la sconfitta del nazifascismo si dotano di Costituzioni dove sono garantiti i principi basilari della democrazia rappresentativa e una serie di diritti politici e sociali. Su questa base nella seconda metà del XX secolo le masse popolari, grazie anche alle loro organizzazioni politiche e sindacali, ottengono l’affermazione di un principio di uguaglianza molto diverso da quello del mercato hayekiano: istruzione, salute, sicurezza sociale non sono più privilegi per pochi ma diventano diritti disponibili per tutti. I paesi facenti parte dell’Unione prima dell’allargamento ad Est del 2004, in varia forma, aderivano tutti a quel modello unico al mondo che è stato chiamato “modello sociale europeo”, mentre per quelli dell’ex blocco comunista la protezione sociale non era certo a loro estranea. È ovvio che un’unione tra popoli avrebbe dovuto essere costruita a partire dagli elementi che essi hanno in comune: quella europea, all’opposto, marcia spedita verso la loro soppressione.
Il disastro cui assistiamo dunque non è dovuto solo alla distruttività del mercato capitalistico lasciato a se stesso, fatto noto da tempo e ben illustrato da Marx, Keynes, Polanyi, Minsky e tanti altri. Il disastro va imputato allo stato comatoso della sinistra storica europea, la quale ha abbandonato la sua ragion d’essere per aderire all’ideologia della parte avversa.  Al di là dello sconcerto per la miseria umana e culturale dei suoi gruppi dirigenti - di cui il vergognoso isolamento subito da Syriza è l’ultima gravissima manifestazione - dobbiamo pensare che un percorso di progresso sociale e civile si è interrotto perché le idee fondamentali che lo sostenevano si sono mostrate insufficienti.  Possiamo proporci una ricerca per la quale è l’idea di uguaglianza basata sul sistema dei bisogni che ha mostrato i suoi limiti e che dunque è stata costretta ad arretrare, lasciando spazio al mercato, o meglio all’antropologia del moderno homo oeconomicus. Si è affermato, in sostanza, l’assurdo pensiero secondo il quale l’uomo realizza se stesso nel possesso degli oggetti materiali, pensiero che si contrappone al senso più profondo della parola socialismo, il quale, nel suo legame con la parola latina socialitas, rinvia invece alla natura sociale dell’essere umano. La socialità presuppone certo la soddisfazione dei bisogni materiali, ma, oltre l’eliminazione della sofferenza del corpo, la sua piena realizzazione avviene appunto sul terreno del rapporto tra esseri umani. Gli uomini sono sì uguali per la dinamica della nascita e nei loro bisogni fisici, ma sono anche molto diversi. Superata la soddisfazione dei bisogni, in sostanza, si apre la grande questione del rapporto con il diverso da sé: il diverso è anzitutto e in modo assolutamente radicale la donna per l’uomo e l’uomo per la donna, ma diverso in senso relativo può anche essere il paese di origine, la cultura, la lingua o la condizione economica. Una nuova consapevolezza della centralità del rapporto con il diverso per l’identità di ciascuno di noi, oltre a consentirci di guardare in altro modo tutti coloro che cercano nell’evoluta Europa una vita migliore, potrebbe favorire il superamento della centralità del mercato, come anche l’abbandono del tentativo di uniformare popoli e stati ad astratti parametri economici, tentativo che in modo un po’ sinistro ricorda l’idea nazista di realizzare la “razza ariana” nella sua purezza: tutti biondi, con gli occhi azzurri…

 

 

 

martedì 23 giugno 2015

Left, 22, 13 giugno 2015



Alcune semplici verità sul debito greco

di Andrea Ventura

Cercando di superare lo sconcerto nell'apprendere che, dopo mesi di trattative, il piano dei creditori rifiutato dal governo greco ripropone le fallimentari politiche di austerità degli ultimi anni, ricordiamo alcune semplici verità. Anzitutto, come si sa, la Grecia non può restituire i suoi debiti. In realtà qualsiasi istituzione, pubblica o privata che sia, ove i mercati chiedano l’integrale restituzione dei suoi debiti entrerebbe in gravissima crisi. Il problema è che nel lungo periodo i debiti devono essere sostenibili, cioè non si devono creare condizioni che rendano i creditori diffidenti sulla possibilità che i propri prestiti possano essere recuperati. Per quanto riguarda il debito pubblico della Grecia, i creditori sono ormai, per quasi l'80%, istituzioni internazionali e governi di altri paesi europei che hanno assorbito i crediti delle banche. Dunque se il paese fallisce, è perché queste istituzioni non si fidano dell'attuale governo e rivogliono indietro i propri soldi. Eppure i vecchi governi corrotti e controllati dalle élite dominanti in Europa sono stati generosamente finanziati da banche e istituzioni internazionali. Tenere oggi il paese alle corde ha perciò il solo scopo di togliere ai popoli europei ogni speranza che, a partire dalla Grecia, tramite libere elezioni possa aprirsi una fase nuova. Non è dunque una scelta dettata da una logica economica: è un attacco alla democrazia.
Un'altra importante verità è che i 7,2 miliardi di euro che il governo greco chiede alle istituzioni internazionali non servono a finanziare spese sociali già ridotte all’osso, ma a far fronte ad alcune scadenze nei confronti di quelle stesse istituzioni (in particolare al FMI). La Grecia, infatti, ha già attuato pesantissime politiche di austerità e secondo uno studio dell’OCSE sarebbe anche il paese che nel periodo 2007-2014 ha compiuto il maggior numero di riforme. I conti pubblici, inoltre, dal 2013 presentano ha un avanzo primario, cioè i cittadini ricevono per pensioni, stipendi e servizi pubblici meno delle imposte che versano allo stato. Un accordo definitivo potrebbe invertire le aspettative - sempre decisive per l’andamento economico di un paese -, e allontanerebbe il rischio del fallimento; un default all’opposto, oltre ad avere pesanti conseguenze per la Grecia e per la stabilità europea, comporterebbe consistenti perdite per i suoi creditori: sarebbe cioè un esito nefasto per tutti.

L'altra verità spesso dimenticata è che i "soldi" in un'economia moderna sono prodotti dalle istituzioni finanziarie: in fondo sono soltanto numeretti che compaiono su schermi di computer. Non c'è dunque mai una scarsità oggettiva di denaro, piuttosto si è sempre in presenza di una scelta sul dove, come e quanto metterne in circolazione. Attualmente la BCE, con il "quantitative easing", produce 60 miliardi di euro al mese comprando titoli pubblici e privati dalle banche dell'eurozona: questi soldi non hanno alcuna provenienza ma, come avviene in tutti sistemi finanziari moderni, nascono contestualmente a operazioni di acquisto di titoli o di prestito della banca centrale. Lo scontro dunque non è causato dall’oggettiva mancanza di denaro, ma dalla scelta delle classi dirigenti europee di persistere nelle attuali modalità di gestione della crisi. 
 
Torniamo dunque al tema della sostenibilità del debito. Un punto fondamentale deve essere chiaro: al fondo delle dinamiche della crisi vi è un gigantesco problema connesso alla gestione dei rapporti di debito/credito tra i paesi aderenti all’euro. È in conseguenza di questo di problema che tra questi paesi, piuttosto che una convergenza, si sta generando una frattura sempre più profonda. In estrema sintesi, quando un’area economica o un paese economicamente più debole accumula debiti, qualcun altro ovviamente sta concedendo dei crediti. Oltre al fatto evidente che l’indebitamento di una parte è legato all’esistenza di un’altra parte che concede un credito, e che perciò la responsabilità dell’accumulo degli squilibri dovrebbe essere condivisa, quale meccanismo può condurre alla stabilizzazione del processo o al suo riassorbimento? Esso può essere di diversa natura: fiscale, come avviene all'interno di uno stato sovrano dove sempre ci sono aree economicamente più forti in avanzo e più deboli in disavanzo; qui il governo può interviene a sostegno delle aree più deboli con la spesa pubblica e con strumenti di politica economica. Oppure i paesi che accumulano debiti possono svalutare la propria moneta, e chi è in avanzo può rivalutarla: la svalutazione, in un'economia ben funzionante, consente al paese debitore di aumentare le esportazioni nette, acquisire moneta estera e con questa pagare o contenere i propri debiti. In Europa le due vie sono precluse: non abbiamo un'unione fiscale, né i paesi in debito, privi di una propria moneta nazionale, possono svalutarla. Così i paesi in crisi debitoria, senza una propria moneta, con una sovranità fiscale limitata e con politiche interne dettate da istituzioni prive di legittimità democratica, assomigliano a paesi occupati da potenze straniere. Per essi non resta che la cosiddetta “svalutazione interna”, cioè il tentativo di perseguire l'aggiustamento con l'impoverimento materiale generato dalle politiche di austerità. Anni di crisi e di sofferenza sociale, non solo in Grecia, mostrano gli esiti nefasti di queste politiche. 

Il nuovo governo greco, al suo insediamento, ha proposto una conferenza europea sul debito. La proposta è caduta nel nulla: i rapporti di forza sono di 27 governi contro uno. I 27 governi, compreso il nostro, evidentemente pensano che la soluzione di una crisi di così vasta portata passi per il peggioramento delle condizioni materiali di vita di una popolazione già allo stremo.

Left, n. 19, 23 maggio 2015


Quello che non dicono Giavazzi e Alesina

Il duo sul Corriere dice che gli inglesi hanno premiato i Conservatori attenti ai bilanci. Ma non è così. Nella vittoria di David Cameron incide molto la spesa pubblica, usata contro la crisi


Andrea Ventura

Il risultato delle recenti elezioni inglesi ha fornito spunti per diverse e contrastanti interpretazioni, ma indubbiamente tra le più ardite e originali vi è quella proposta da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 13 maggio. A detta dei nostri, in sostanza, la vittoria di Cameron sarebbe dovuta al fatto che, contrariamente a quanto pensano molti, gli elettori apprezzano la prudenza fiscale dei governi conservatori: “Dovremmo sempre aspettarci che politiche di austerità siano bocciate dagli elettori? Non è così, proseguono trionfanti. La storia insegna che gli elettori capiscono bene, e molto più di quanto gli si dia credito, le difficoltà in cui il loro Paese si trova”. Dato che, a seguito delle politiche restrittive degli ultimi anni l’economia del Regno Unito oggi cresce e la disoccupazione è la metà di quella italiana, ne segue che la cosiddetta “austerità espansiva” - di cui Alesina e Giavazzi sono accaniti sostenitori - funziona ed è premiata dagli elettori.

Osserviamo meglio i risultati di quella tornata elettorale, risultati non riportati nel dettaglio da nessuno dei quotidiani che ospitano questo genere di commenti ma reperibili in rete (si veda ad esempio il seguitissimo blog di Carlo Clericetti, Ma che bello il “Britannicum”): rispetto al 2010 i laburisti hanno ottenuto l’1,5% in più di consensi, mentre il partito nazionalista scozzese, che si colloca alla loro sinistra e raccoglie voti nello stesso bacino elettorale, ha guadagnato oltre il 3%. All’opposto i tre partiti di governo sono passati dal 59% al 45,2% dei voti. Ma il sistema elettorale del Regno Unito, di tipo maggioritario, può produrre effetti sulla rappresentanza parlamentare del tutto scissi dall’andamento dei suffragi. Così l’UKIP di Farage con il 12,6% dei voti ottiene un solo deputato, mentre i nazionalisti scozzesi con il 4,7% ne ottengono 56. Il piccolo Democratic Unionist Party ottiene addirittura 8 seggi con 184.000 voti, lo stesso numero di seggi dei liberaldemocratici che hanno 2,4 milioni di voti.  La vittoria del partito conservatore è dovuta al fatto che, grazie al crollo dei suoi alleati-competitori liberaldemocratici, con un aumento di appena lo 0,8% dei voti ha guadagnato 24 seggi, raggiungendo la maggioranza assoluta in parlamento; i laburisti al contrario, per la crescita dei nazionalisti scozzesi, nonostante abbiano preso più voti del 2010, ne hanno persi 26. Facendo riferimento ai consensi popolari dunque, i partiti di governo non sono stati per nulla premiati dagli elettori, avendo invece perso quasi un quarto dei voti.

Vediamo ora l’altro polo del nesso proposto da Alesina e Giavazzi: l’austerità espansiva, cioè la tesi in base alla quale politiche fiscali restrittive avrebbero effetti espansivi sull’economia. Negli anni immediatamente successivi allo scoppio della crisi finanziaria la politica fiscale del Regno Unito ha generato un deficit di bilancio fino all’11% del Pil; di seguito il deficit si è ridotto ai più contenuti valori attuali, attestandosi comunque nel 2014 a un generoso 5,7%. La quantità di denaro immessa dallo stato nell’economia è stata perciò notevolissima. Il debito pubblico del paese, infatti, dai valori attorno al 40% degli anni prima della crisi, oggi sfiora il 90% del Pil e sarebbe assai superiore se si considerasse l’insieme di tutti gli interventi e delle garanzie legate ai salvataggi bancari. Sebbene questo non interessi molto i vari talebani del mercato, il Regno Unito, a causa delle pessime prestazioni e del settore privato e del suo debito, è uno dei paesi più indebitati al mondo.
Forse Alesina e Giavazzi intendono con “austerità” questo sforzo di riduzione del deficit. Essi però trascurano gli effetti sull’economia della gigantesca dalla spesa sostenuta dai governi in questi anni di crisi. Un percorso per certi versi simile di uscita dalla crisi è stato seguito dagli Stati Uniti dove, dopo diversi anni di spesa pubblica in disavanzo, il deficit di bilancio ha assunto valori più contenuti: non è dunque l’austerità che ha generato la crescita, ma al contrario quest’ultima è stata possibile anche grazie al disavanzo.
Purtroppo in Italia e nell’Europa continentale l’obiettivo del controllo dei conti pubblici, squassati dagli effetti automatici sui bilanci della recessione e dalla necessità di salvare il sistema finanziario dal fallimento, ha gettato gran parte del continente in una crisi economica e sociale che ancora non ha termine. In questo ingeneroso confronto con il nostro paese, va anche tenuto presente che la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, ha una banca centrale che può acquistare all’emissione i titoli del debito pubblico (la Banca d’Inghilterra ne detiene il 25%). Una banca centrale che finanzia il debito pubblico è anche in grado di proteggerlo dagli attacchi speculativi. Qualcuno può immaginare cosa sarebbe successo all’Italia se nel pieno della crisi finanziaria il nostro deficit avesse superato il 10% del Pil e viaggiasse oggi oltre il 5%? E se la BCE lo avesse finanziato, avremmo ancora un tasso di disoccupazione oltre il 12%?

In sostanza il capitalismo anglosassone ha reagito alla crisi lasciando crescere il disavanzo pubblico e finanziandolo con l’emissione di moneta. Una mal costruita unione economica e monetaria ha invece costretto i paesi dell’Europa continentale a seguire politiche fiscali recessive i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Dispiace per la qualità dell’informazione in materia economica che i lettori del Corriere della Sera ricevono, ma le elezioni nel Regno Unito possono semmai servire a riflettere sul problematico rapporto che il sistema elettorale del paese stabilisce tra voto popolare e rappresentanza parlamentare, non certo a riaffermare principi economici palesemente smentiti dai fatti. 

Left, n. 18, 16 maggio 2015



La Grecia? È in gioco la democrazia europea

Occorre tempo per attuare le riforme del nuovo governo. Ma questo è incompatibile con la logica di brevissimo periodo che muove la speculazione finanziaria e condiziona l’orizzonte degli interlocutori del paese.

Andrea Ventura


Difficile prevedere se nello scontro tra la Grecia e i suoi creditori prevarranno le ragioni di un accordo o si arriverà a una rottura. Più delle incerte e spesso faziose ricostruzioni giornalistiche, il nervosismo che a tratti mostrano i mercati sembra indicare che la vicenda è aperta a qualsiasi esito, anche il più traumatico. Dunque, in un quadro che potrebbe evolversi in modi incontrollabili oppure trovare un punto di composizione, è utile tener fermi alcuni elementi certi. 

Il primo è che nel 2014 la Grecia ha raggiunto un consistente avanzo primario. Questo significa che, escludendo gli interessi che il paese deve corrispondere sul debito, le spese per i servizi pubblici sono inferiori a quanto i cittadini pagano d’imposte. Ciò ha diverse implicazioni: anzitutto il paese, se non fosse schiacciato dal debito, non avrebbe bisogno di aiuti; quelli che vengono forniti sono perciò volti a pagare gli interessi o a rinnovare i vecchi debiti in scadenza e non ad aiutare il popolo greco. In secondo luogo parte delle imposte serve appunto a pagare i creditori e non a fornire servizi ai cittadini, contribuendo all’impoverimento materiale della popolazione. Infine l’economia è sottoposta a una spinta recessiva (la “trappola dell’austerità”) in conseguenza della quale il Pil tende a contrarsi. Tra la contrazione del Pil e la crescita del debito per il peso degli interessi che comunque il paese non riesce interamente a pagare, il rapporto debito/Pil che si vorrebbe stabilizzare schizza invece verso l’alto.

Il secondo elemento da tener presente è che le condizioni di base per la crisi finanziaria che sta devastando il paese vanno in gran parte ricercate nell’adesione della Grecia alla moneta unica. Questa, infatti, ha eliminato il rischio della svalutazione della moneta nazionale e ha favorito l’afflusso di capitali speculativi. Ogni crisi finanziaria, dall’Argentina al Sud Est asiatico alla Grecia, ha peraltro una dinamica assai simile. Dapprima i capitali internazionali individuano un paese o un’area geografica, dove si presentano occasioni di profitto. L’afflusso di capitali fa salire i valori immobiliari, la borsa, i prezzi dei titoli pubblici e privati, generando bolle speculative; la disponibilità di fondi a buon mercato alimenta anche l’indebitamento e la corruzione, fino a che le aspettative s’invertono, i tassi d’interesse crescono, investimenti profittevoli si rivelano improvvisamente rischiosi, le banche falliscono e il paese rimane devastato come può essere devastato un campo dove è passato uno sciame di cavallette. La ripresa economica, per il nesso che sempre sussiste tra andamento di un’economia e qualità della sua classe dirigente, necessita innanzitutto di un cambiamento del ceto politico del paese. Questo è quello che è avvenuto in Grecia: per mezzo di un regolare processo democratico, i politici implicati nelle vecchie modalità di gestione del potere sono stati sostituiti da una nuova classe dirigente. Può non piacere a molti, eppure le democrazie dovrebbero funzionare così. Ma questo è solo il primo passo. La Grecia, priva di una moneta, indebitata e strangolata dai vincoli europei, non può uscire dalla crisi in cui è precipitata senza attuare quelle riforme che appunto troviamo nel programma del suo nuovo governo: una riforma del sistema fiscale, lotta all’evasione e alla corruzione, modernizzazione della pubblica amministrazione, consistenti investimenti finalizzati a rendere competitive le sue imprese. Dovrebbe avere del tempo per fare tutto questo, tempo che però non è compatibile con la logica di breve e brevissimo periodo che muove la speculazione finanziaria e condiziona l’orizzonte mentale dei suoi interlocutori. 

Dunque la Grecia si trova nell’alternativa drammatica tra subire ancora quelle politiche di austerità che da anni devastano il paese, oppure, da sola, nell’assordante silenzio della cosiddetta sinistra storica europea, scontrarsi con le istituzioni internazionali e gli altri governi dell’eurozona. Altrettanto difficile è però la scelta di questi ultimi. Il miraggio di una ripresa che sarebbe alle porte serve solo a rinviare il dilemma tra lasciare che la Grecia fallisca, con il rischio di avviare una crisi dagli esiti imprevedibili, oppure dare il tempo alla sua nuova classe politica di rinnovare il paese, con il rischio altrettanto grave di mostrare all’Europa e al mondo che un governo di sinistra “populista” può far meglio dei governi asserviti ai poteri finanziari dominanti. Nel primo caso il rischio è quello del contagio finanziario, nel secondo del “contagio” politico. Nonostante la scelta più sensata sia ovvia, le élite europee non sembrano aver sciolto il dilemma: il calcolo razionale dei costi e dei benefici delle due alternative è peraltro difficile da compiere.

Secondo Karl Polanyi il fascismo si caratterizza per lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Quello degli anni trenta, con il manganello, s’ispirava alla legge della sopravvivenza del più adatto e distruggeva fisicamente l’avversario. Quello odierno dei colletti bianchi e delle agenzie di rating, considera il sistema sociale non dal punto di vista della vita concreta delle persone che lo vivono ma di un’unica finalità: l’accumulazione capitalistica fine a se stessa. Si tratta dunque di ricondurre alla ragione la piccola e recalcitrante Grecia. Ma non è solo in questione la sorte di un paese. All’esito di questa crisi, infatti, sono connesse le sorti della democrazia europea. Per chi non ne fosse convinto, ricordiamo che la settimana scorsa alcune agenzie di rating hanno mostrato apprezzamento per la riforma elettorale del governo Renzi, decisivo tassello per la demolizione degli equilibri costituzionali del nostro paese: sono le stesse agenzie che prima del 2008 attribuivano ai titoli tossici della finanza strutturata il massimo livello di affidabilità. Nel 2013 J.P. Morgan, una banca d’affari statunitense, consigliò ai governi dell’Europa di liberarsi delle costituzioni nate dall’antifascismo in quanto le tutele dei diritti da esse garantite sarebbero alla base dei problemi economici europei. Fascismo finanziario, appunto.

Left, n. 10, 21 marzo 2015



Controstoria della crisi greca

Mario Draghi è il presidente della BCE, salvatore dell’euro o uomo Goldman Sachs che ha aiutato a truccare i bilanci greci? Ecco una ricostruzione degli anni che ci hanno portato fin qui

di Andrea Ventura

1999-2001
La Grecia aderisce alla moneta unica. I suoi conti pubblici non rispettano i criteri fissati per l’adesione, ma la Goldman Sachs offre al governo socialista un contratto (elegantemente detto “swap”) grazie al quale il deficit di bilancio è occultato. Ricordiamo che Mario Draghi dal 2002 al 2005 è vicepresidente di Goldman Sachs. Secondo il New York Times del 30 ottobre 2011 Draghi avrebbe proposto a diversi paesi europei contratti simili. [L. Thomas and J. Ewing, “Can Super Mario Save the Day for Europe?”, New York Times del 30 ottobre 2011]

2001-2008
L’adesione all’euro fa perdere competitività al paese e facilita l’afflusso di capitali esteri, indebitandolo. Sono due facce della stessa medaglia: senza la possibilità di svalutare la moneta nazionale, le merci prodotte all’interno non reggono la concorrenza straniera, dunque si comprano merci estere, tedesche in particolare. Ma con quale moneta? Con l’euro, che le banche francesi e tedesche prestano generosamente ai greci. L’afflusso di capitali esteri consente ai consumatori greci di prendere soldi a prestito a condizioni estremamente vantaggiose, sostenendo così la domanda di prodotti tedeschi. Il meccanismo dell’indebitamento è simile a quello dei mutui sub prime che ha causato la crisi negli Stati Uniti. La Grecia è anche un grande acquirente di armi, in parte a credito, il cui acquisto è associato ad una diffusa corruzione. In particolare dal 1997 compra carri armati e alcuni sottomarini della TyssenKrupp. (S. Daley, “So Many Bribes, a Greek Official Can’t Recall Them All, New York Times del 7 febbraio 2014).

2008-2010 
Con la crisi scoppiata negli Stati Uniti i nodi della costituzione dell’euro vengono al pettine: l’assenza di una Banca Centrale che garantisca per i debiti pubblici fa salire i tassi di interesse sul debito dei paesi giudicati a rischio, della Grecia anzitutto. Si profila in sostanza il rischio della disgregazione dell’euro e il ritorno alle monete nazionali. Gli ambienti da cui partono gli attacchi speculativi che in breve tempo portano alle stelle i tassi di interesse sono peraltro ben informati sui conti pubblici della Grecia, essendo gli stessi che hanno contribuito a truccarli. Nell’ottobre 2009 il socialista Papandreou vince le elezioni e dichiara che il deficit statale è molto superiore a quanto indicato dal precedente governo di centrodestra. Dall’aprile 2010 la Grecia non è più in grado di pagare gli interessi sul suo debito.

2010-2012 
La comunità internazionale interviene con due salvataggi (maggio 2010, ottobre 2011) per 240 miliardi di euro. Hanno salvato la Grecia? No; di questi solo 27 sono andati a vantaggio dello stato. Gli altri sono prestati alla Grecia perché potesse restituirli …a chi glieli aveva prestati. In altri termini, prima della crisi la Grecia era indebitata principalmente con le banche tedesche e francesi. Con i cosiddetti salvataggi questi debiti sono stati trasferiti ai bilanci pubblici, per la maggior parte di Germania, Francia, Italia e Spagna (Info Data Blog, Sole 24 ore, 18 febbraio 2015). Sono state dunque salvate le banche private, non i greci, i quali all’opposto hanno dovuto adottare immediate politiche di austerità: queste, oltre ad aver fatto crollare il Pil del 25%, hanno causato una vera e propria emergenza umanitaria: in Grecia la mortalità infantile è cresciuta del 43% e quasi mezzo milione di bambini sono sottoalimentati. In compenso, per l’ulteriore aumento dei tassi di interesse e il crollo del Pil,  il suo debito pubblico è al 177% del Pil (prima dello scoppio della crisi era al 130%).  Ricordiamo che l’Italia ha contribuito ai salvataggi per 40 md di euro. Tremonti ha raccontato di recente che Berlusconi avrebbe voluto opporsi a questo trasferimento del debito, a meno della messa in opera di forme di condivisione di esso tra i paesi aderenti all’euro [Giulio Tremonti, Bugie e verità, Mondadori 2014, pp. 34 e ss]. Non è chiaro quanto l’attacco speculativo del 2011 contro l’Italia fosse dovuto all’oggettiva debolezza del paese nell’ambito di una crisi che avrebbe potuto causare la fine della moneta unica, e quanto costituisse invece una pressione per indurre il nostro governo a non ostacolare quest’occultamento della natura della crisi e il trasferimento del suo peso dal settore privato al settore pubblico; di fatto, esso ha portato alla caduta di Berlusconi e la formazione del governo Monti. È un caso che Mario Draghi sia passato dalla Banca d’Italia alla presidenza della BCE negli stessi frangenti delle dimissioni di Berlusconi e della formazione del governo Monti (novembre 2011), oppure è ipotizzabile che sia stata una compensazione offerta all’Italia in cambio del nostro contributo al salvataggio delle banche francesi e tedesche?


Oggi, stremati da cinque anni di crisi, i greci stanno cercando di condurre il loro paese fuori dal vicolo cieco, dove si trova. Troppi però vogliono il loro fallimento. La ragione è presto detta: non devono comparire alternative al perpetrarsi di questa vera e propria truffa finanziaria, all’assenza di democrazia in Europa, al continuo arricchimento di pochi alle spese di molti. All’opposto, non c’è alternativa al cambiamento: o nel senso della formazione di una classe dirigente che, a livello nazionale ed europeo, sia in grado di ripensare a fondo le ragioni del vivere comune, oppure nella prevalenza di forze xenofobe e antieuropee. Non sarà certo sventolando il miraggio di una timidissima ripresa economica che si potrà eludere questo dilemma.