martedì 23 giugno 2015

Left, n. 19, 23 maggio 2015


Quello che non dicono Giavazzi e Alesina

Il duo sul Corriere dice che gli inglesi hanno premiato i Conservatori attenti ai bilanci. Ma non è così. Nella vittoria di David Cameron incide molto la spesa pubblica, usata contro la crisi


Andrea Ventura

Il risultato delle recenti elezioni inglesi ha fornito spunti per diverse e contrastanti interpretazioni, ma indubbiamente tra le più ardite e originali vi è quella proposta da Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere della Sera del 13 maggio. A detta dei nostri, in sostanza, la vittoria di Cameron sarebbe dovuta al fatto che, contrariamente a quanto pensano molti, gli elettori apprezzano la prudenza fiscale dei governi conservatori: “Dovremmo sempre aspettarci che politiche di austerità siano bocciate dagli elettori? Non è così, proseguono trionfanti. La storia insegna che gli elettori capiscono bene, e molto più di quanto gli si dia credito, le difficoltà in cui il loro Paese si trova”. Dato che, a seguito delle politiche restrittive degli ultimi anni l’economia del Regno Unito oggi cresce e la disoccupazione è la metà di quella italiana, ne segue che la cosiddetta “austerità espansiva” - di cui Alesina e Giavazzi sono accaniti sostenitori - funziona ed è premiata dagli elettori.

Osserviamo meglio i risultati di quella tornata elettorale, risultati non riportati nel dettaglio da nessuno dei quotidiani che ospitano questo genere di commenti ma reperibili in rete (si veda ad esempio il seguitissimo blog di Carlo Clericetti, Ma che bello il “Britannicum”): rispetto al 2010 i laburisti hanno ottenuto l’1,5% in più di consensi, mentre il partito nazionalista scozzese, che si colloca alla loro sinistra e raccoglie voti nello stesso bacino elettorale, ha guadagnato oltre il 3%. All’opposto i tre partiti di governo sono passati dal 59% al 45,2% dei voti. Ma il sistema elettorale del Regno Unito, di tipo maggioritario, può produrre effetti sulla rappresentanza parlamentare del tutto scissi dall’andamento dei suffragi. Così l’UKIP di Farage con il 12,6% dei voti ottiene un solo deputato, mentre i nazionalisti scozzesi con il 4,7% ne ottengono 56. Il piccolo Democratic Unionist Party ottiene addirittura 8 seggi con 184.000 voti, lo stesso numero di seggi dei liberaldemocratici che hanno 2,4 milioni di voti.  La vittoria del partito conservatore è dovuta al fatto che, grazie al crollo dei suoi alleati-competitori liberaldemocratici, con un aumento di appena lo 0,8% dei voti ha guadagnato 24 seggi, raggiungendo la maggioranza assoluta in parlamento; i laburisti al contrario, per la crescita dei nazionalisti scozzesi, nonostante abbiano preso più voti del 2010, ne hanno persi 26. Facendo riferimento ai consensi popolari dunque, i partiti di governo non sono stati per nulla premiati dagli elettori, avendo invece perso quasi un quarto dei voti.

Vediamo ora l’altro polo del nesso proposto da Alesina e Giavazzi: l’austerità espansiva, cioè la tesi in base alla quale politiche fiscali restrittive avrebbero effetti espansivi sull’economia. Negli anni immediatamente successivi allo scoppio della crisi finanziaria la politica fiscale del Regno Unito ha generato un deficit di bilancio fino all’11% del Pil; di seguito il deficit si è ridotto ai più contenuti valori attuali, attestandosi comunque nel 2014 a un generoso 5,7%. La quantità di denaro immessa dallo stato nell’economia è stata perciò notevolissima. Il debito pubblico del paese, infatti, dai valori attorno al 40% degli anni prima della crisi, oggi sfiora il 90% del Pil e sarebbe assai superiore se si considerasse l’insieme di tutti gli interventi e delle garanzie legate ai salvataggi bancari. Sebbene questo non interessi molto i vari talebani del mercato, il Regno Unito, a causa delle pessime prestazioni e del settore privato e del suo debito, è uno dei paesi più indebitati al mondo.
Forse Alesina e Giavazzi intendono con “austerità” questo sforzo di riduzione del deficit. Essi però trascurano gli effetti sull’economia della gigantesca dalla spesa sostenuta dai governi in questi anni di crisi. Un percorso per certi versi simile di uscita dalla crisi è stato seguito dagli Stati Uniti dove, dopo diversi anni di spesa pubblica in disavanzo, il deficit di bilancio ha assunto valori più contenuti: non è dunque l’austerità che ha generato la crescita, ma al contrario quest’ultima è stata possibile anche grazie al disavanzo.
Purtroppo in Italia e nell’Europa continentale l’obiettivo del controllo dei conti pubblici, squassati dagli effetti automatici sui bilanci della recessione e dalla necessità di salvare il sistema finanziario dal fallimento, ha gettato gran parte del continente in una crisi economica e sociale che ancora non ha termine. In questo ingeneroso confronto con il nostro paese, va anche tenuto presente che la Gran Bretagna, come gli Stati Uniti, ha una banca centrale che può acquistare all’emissione i titoli del debito pubblico (la Banca d’Inghilterra ne detiene il 25%). Una banca centrale che finanzia il debito pubblico è anche in grado di proteggerlo dagli attacchi speculativi. Qualcuno può immaginare cosa sarebbe successo all’Italia se nel pieno della crisi finanziaria il nostro deficit avesse superato il 10% del Pil e viaggiasse oggi oltre il 5%? E se la BCE lo avesse finanziato, avremmo ancora un tasso di disoccupazione oltre il 12%?

In sostanza il capitalismo anglosassone ha reagito alla crisi lasciando crescere il disavanzo pubblico e finanziandolo con l’emissione di moneta. Una mal costruita unione economica e monetaria ha invece costretto i paesi dell’Europa continentale a seguire politiche fiscali recessive i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Dispiace per la qualità dell’informazione in materia economica che i lettori del Corriere della Sera ricevono, ma le elezioni nel Regno Unito possono semmai servire a riflettere sul problematico rapporto che il sistema elettorale del paese stabilisce tra voto popolare e rappresentanza parlamentare, non certo a riaffermare principi economici palesemente smentiti dai fatti.