Quello che non dicono Giavazzi e Alesina
Il duo sul Corriere dice che gli inglesi hanno
premiato i Conservatori attenti ai bilanci. Ma non è così. Nella vittoria di
David Cameron incide molto la spesa pubblica, usata contro la crisi
Andrea Ventura
Il risultato delle recenti elezioni
inglesi ha fornito spunti per diverse e contrastanti interpretazioni, ma
indubbiamente tra le più ardite e originali vi è quella proposta da Alberto
Alesina e Francesco Giavazzi sul Corriere
della Sera del 13 maggio. A detta dei nostri, in sostanza, la vittoria di
Cameron sarebbe dovuta al fatto che, contrariamente a quanto pensano molti, gli
elettori apprezzano la prudenza fiscale dei governi conservatori: “Dovremmo
sempre aspettarci che politiche di austerità siano bocciate dagli elettori? Non
è così, proseguono trionfanti. La storia insegna che gli elettori capiscono
bene, e molto più di quanto gli si dia credito, le difficoltà in cui il loro
Paese si trova”. Dato che, a seguito delle politiche restrittive degli ultimi
anni l’economia del Regno Unito oggi cresce e la disoccupazione è la metà di
quella italiana, ne segue che la cosiddetta “austerità espansiva” - di cui
Alesina e Giavazzi sono accaniti sostenitori - funziona ed è premiata dagli
elettori.
Osserviamo meglio i risultati di
quella tornata elettorale, risultati non riportati nel dettaglio da nessuno dei
quotidiani che ospitano questo genere di commenti ma reperibili in rete (si
veda ad esempio il seguitissimo blog di Carlo Clericetti, Ma che bello il “Britannicum”): rispetto al 2010 i laburisti hanno ottenuto
l’1,5% in più di consensi, mentre il partito nazionalista scozzese, che si
colloca alla loro sinistra e raccoglie voti nello stesso bacino elettorale, ha
guadagnato oltre il 3%. All’opposto i tre partiti di governo sono passati dal
59% al 45,2% dei voti. Ma il sistema elettorale del Regno Unito, di tipo
maggioritario, può produrre effetti sulla rappresentanza parlamentare del tutto
scissi dall’andamento dei suffragi. Così l’UKIP di Farage con il 12,6% dei voti
ottiene un solo deputato, mentre i nazionalisti scozzesi con il 4,7% ne ottengono
56. Il piccolo Democratic Unionist Party ottiene addirittura 8 seggi con
184.000 voti, lo stesso numero di seggi dei liberaldemocratici che hanno 2,4
milioni di voti. La vittoria del partito
conservatore è dovuta al fatto che, grazie al crollo dei suoi alleati-competitori
liberaldemocratici, con un aumento di appena lo 0,8% dei voti ha guadagnato 24
seggi, raggiungendo la maggioranza assoluta in parlamento; i laburisti al
contrario, per la crescita dei nazionalisti scozzesi, nonostante abbiano preso
più voti del 2010, ne hanno persi 26. Facendo riferimento ai consensi popolari
dunque, i partiti di governo non sono stati per nulla premiati dagli elettori,
avendo invece perso quasi un quarto dei voti.
Vediamo ora l’altro polo del nesso
proposto da Alesina e Giavazzi: l’austerità espansiva, cioè la tesi in base
alla quale politiche fiscali restrittive avrebbero effetti espansivi
sull’economia. Negli anni immediatamente successivi allo scoppio della crisi
finanziaria la politica fiscale del Regno Unito ha generato un deficit di
bilancio fino all’11% del Pil; di seguito il deficit si è ridotto ai più
contenuti valori attuali, attestandosi comunque nel 2014 a un generoso 5,7%. La
quantità di denaro immessa dallo stato nell’economia è stata perciò notevolissima.
Il debito pubblico del paese, infatti, dai valori attorno al 40% degli anni
prima della crisi, oggi sfiora il 90% del Pil e sarebbe assai superiore se si
considerasse l’insieme di tutti gli interventi e delle garanzie legate ai
salvataggi bancari. Sebbene questo non interessi molto i vari talebani del
mercato, il Regno Unito, a causa delle pessime prestazioni e del settore
privato e del suo debito, è uno dei paesi più indebitati al mondo.
Forse Alesina e Giavazzi intendono
con “austerità” questo sforzo di riduzione del deficit. Essi però trascurano gli
effetti sull’economia della gigantesca dalla spesa sostenuta dai governi in
questi anni di crisi. Un percorso per certi versi simile di uscita dalla crisi
è stato seguito dagli Stati Uniti dove, dopo diversi anni di spesa pubblica in
disavanzo, il deficit di bilancio ha assunto valori più contenuti: non è dunque
l’austerità che ha generato la crescita, ma al contrario quest’ultima è stata
possibile anche grazie al disavanzo.
Purtroppo in Italia e nell’Europa
continentale l’obiettivo del controllo dei conti pubblici, squassati dagli
effetti automatici sui bilanci della recessione e dalla necessità di salvare il
sistema finanziario dal fallimento, ha gettato gran parte del continente in una
crisi economica e sociale che ancora non ha termine. In questo ingeneroso
confronto con il nostro paese, va anche tenuto presente che la Gran Bretagna,
come gli Stati Uniti, ha una banca centrale che può acquistare all’emissione i
titoli del debito pubblico (la Banca d’Inghilterra ne detiene il 25%). Una banca
centrale che finanzia il debito pubblico è anche in grado di proteggerlo dagli
attacchi speculativi. Qualcuno può immaginare cosa sarebbe successo all’Italia
se nel pieno della crisi finanziaria il nostro deficit avesse superato il 10%
del Pil e viaggiasse oggi oltre il 5%? E se la BCE lo avesse finanziato,
avremmo ancora un tasso di disoccupazione oltre il 12%?
In sostanza il capitalismo
anglosassone ha reagito alla crisi lasciando crescere il disavanzo pubblico e
finanziandolo con l’emissione di moneta. Una mal costruita unione economica e
monetaria ha invece costretto i paesi dell’Europa continentale a seguire politiche
fiscali recessive i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Dispiace per la
qualità dell’informazione in materia economica che i lettori del Corriere della Sera ricevono, ma le
elezioni nel Regno Unito possono semmai servire a riflettere sul problematico rapporto
che il sistema elettorale del paese stabilisce tra voto popolare e
rappresentanza parlamentare, non certo a riaffermare principi economici
palesemente smentiti dai fatti.