sabato 16 novembre 2019

left n. 45, 8 novembre 2019

Tutto il potere al mercato

A trent’anni dalla caduta del Muro, la promessa di democrazia e benessere in una parte del mondo è sfociata in guerre e distruzioni, in un’alta ha prodotto diseguaglianze e precarietà. E ovunque il divario tra ricchi e poveri è cresciuto a dismisura

di Andrea Ventura


Nell’estate del 1989, alcuni mesi prima del crollo del muro di Berlino, la rivista americana The National Interest pubblicava un saggio di Francis Fukuyama intitolato “La fine della storia?” Nel breve saggio, il politologo americano propone per la prima volta la tesi che lo ha reso famoso. Fukuyamasostiene che tutti i popoli del mondo stanno pervenendo allo stesso modello di organizzazione sociale, basato sulla democrazia e il libero mercato; alternative ad esso sarebbero fuori dalla storia. Egli non afferma certo la fine dei fatti storici, ma la fine di ogni alternativa al modello occidentale di società. La sua è dunque una proposizione ideologica. Recentemente, infatti, Fukuyama ha ricordato che la sua tesi sarebbe affine a quella di Marx, ma mentre Marx individuava nel comunismo lo stadio finale di una dialettica sociale che avrebbe visto il superamento della società borghese, egli invece vede quest’assetto definitivo nella combinazione tra democrazia e libero mercato che si va affermando nei tempi attuali. A distanza di trent’anni, qualche domanda sulla validità di una tesi che per alcuni aspetti sembra trovare conferma, è necessario porsela. Una proposizione di questa natura, infatti, implica che questo modello sociale corrisponda effettivamente alle aspirazioni più profonde degli esseri umani. Ove la combinazione tra democrazia e libero mercato possa effettivamente costituire una condizione stabile per l’umanità, infatti, le contraddizioni che porta con sé, piuttosto che aggravarsi dovrebbero tendenzialmente sciogliersi; se invece esse dovessero aggravarsi, questo modello sociale potrebbe portare in tempi più o meno lunghi a instabilità, crisi, e a nuove prospettive di sviluppo.

Vediamo dunque quali sono stati i suoi principali successi, e quali i suoi elementi di crisi. Un dato balza agli occhi: il crollo del muro di Berlino non ha aperto una fase di pace e di stabilità, piuttosto sono comparsi nuovi focolai di crisi e nuove guerre. Da un mondo bipolare che aveva il suo equilibrio nella contrapposizione tra Stati Uniti e Unione Sovietica, dopo il crollo dei regimi dell’Est, ma soprattutto dopo l’11 settembre 2001, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria, si è tentato di imporre la democrazia e la legge del mercato seminando terrore e guerre, lasciando i territori aggrediti in preda alla devastazione e senza strutture sociali stabili. Da questo punto di vista, l’imposizione del nostro modello sociale ha trovato resistenze profondissime, generando rancori, sofferenze, paure e povertà. Il fallimento di quella proposizione, sotto questo profilo è totale. Nei paesi avanzati invece, questa composizione tra mercato e democrazia, lungi dall’aver garantito libertà e benessere, ha generato instabilità e proteste sociali. Dobbiamo infatti ricordare che almeno fino alla crisi del 2008 i sistemi politici dei paesi europei erano governati da due schieramenti apparentemente alternativi, ma di fatto interpreti del paradigma di Fukuyama con limitate variazioni programmatiche. Quel sistema è ormai tramontato: non sappiamo cosa ci attende, ma quasi ovunque, in Europa, i ceti medi si sono impoveriti e si sono rapidamente affermate forze antisistema che prima di quella data erano irrilevanti. Anche negli Stati Uniti la vittoria di Trump può essere letta nella stessa chiave: un personaggio interno al vecchio sistema di potere, ma apparentemente dirompente e alternativo, è riuscito contro ogni previsione a interpretare lo scontento sociale e guadagnare la presidenza. La promessa di democrazia e benessere, in sostanza, in una parte del mondo si è risolta in guerre e distruzioni, e in un’altra ha generato impoverimento, diseguaglianze, precarietà, contrazione dei diritti e delle protezioni sociali. 

Il principale successo della globalizzazione è indubbiamente nel miglioramento del tenore di vita delle popolazioni di India, Cina e sud Est asiatico. Mettendo da parte gli sconvolgimenti ambientali che possono derivare dal fatto che alcuni miliardi di persone hanno adottato un modello economico che persegue la crescita illimitata, al momento i progressi sono oggettivi: popolazioni che fino a qualche decennio fa vivevano in condizioni di miseria spaventosa, si avviano a raggiungere quel benessere che era appannaggio esclusivo dell’Occidente. Eppure, anche qui, non è tanto la democrazia e il libero mercato che si sono affermati. In Cina, in particolare, abbiamo un sistema politico dove la dittatura di un partito che si richiama a Marx si accompagna ad un’economia di mercato che utilizza le più moderne tecnologie. Il paese oggi sfida l’Occidente su tutti i terreni. 

In questo radicale cambiamento si trova una delle ragioni della crisi che investe le nostre società. Nel grafico detto dell’elefante, ripreso da un paper della World Bank e spesso utilizzato per descrivere il fenomeno, alcuni degli elementi qui delineati trovano la loro raffigurazione. La coda dell’elefante indica quelle popolazioni, molte delle quali africane, o anche quelle colpite dalle sciagurate iniziative di esportazione della democrazia, che non hanno visto alcun miglioramento delle proprie condizioni di vita. La gobba dell’elefante rappresenta invece quanto appena detto: i popoli della Cina, dell’India e altri pasi del Sud Est asiatico hanno visto migliorare le loro condizioni economiche in misura notevolissima, e sono i vincenti di questa fase del progresso umano. In nessun altro momento della storia umana così tante persone sono uscite dalla povertà. La maggioranza dei popoli dell’Occidente si trova invece nel tratto successivo. Il grafico mostra che qui non si è avuto alcun miglioramento, ma piuttosto, in media, un peggioramento. Emerge bene in questa rappresentazione la crisi delle classi medie, quelle che garantivano il funzionamento di quel modello sociale basato su democrazia e libero mercato: il grafico le vede schiacciate tra l’avanzamento di paesi e popoli prima poverissimi, e l’arricchimento di quelle ristrettissime fasce sociali che, già ricche, escono anch’esse vincenti dai cambiamenti globali seguiti al crollo del muro. Sono i ricchissimi di ogni paese, della Russia, della Cina, dell’India, forse anche di alcuni paesi africani e dell’America Latina, ma sono soprattutto Europei e Americani. Il processo peraltro non sembra arrivato a un limite, anche perché il grafico è antecedente alla crisi finanziaria del 2008, ed è noto che le conseguenze di quell’evento hanno aggravato le difficoltà delle classi medie e favorito ulteriormente la concentrazione della ricchezza. Proseguono perciò le distruzioni provocate dalle guerre, la crescita di Cina e India, prosegue l’arricchimento ingiustificato dei pochissimi e l’impoverimento di gran parte dei popoli dei paesi industrialmente avanzati. 

Il modello che si è affermato in Occidente, in sostanza, aggredisce sempre più in profondità quei diritti e a quelle protezioni sociali che sono essenziali per il nostro sviluppo civile. Il crollo del muro ha dunque colpito anche noi. In presenza dei regimi comunisti dell’Est, che offrivano un modello alternativo al capitalismo, le classi dirigenti dell’Occidente sentivano la necessità di dimostrare che l’equilibrio che offrivano tra capitalismo e democrazia era in grado di garantire benessere per tutti. Crollato il muro, questa necessità è scomparsa. Se da una parte del muro si cercava l’uguaglianza soffocando la libertà, dall’altra parte, crollato il muro, la libertà economica ha distrutto l’uguaglianza. Difficile che la storia possa terminare qui.

mercoledì 6 novembre 2019

left n. 43, 25 ottobre 2019

La macchina della diseguaglianza

Nate con l’idea che la conoscenza fosse un bene comune, le imprese del web hanno finito per ricavare profitti smisurati dalla registrazione, l’analisi e la vendita dei nostri dati. Sfruttandoli a fini pubblicitari, politici, e anche per condizionare l’opinione pubblica

di Andrea Ventura


Se trenta o quarant’anni fa un manager guadagnava circa 40 volte il salario medio di un lavoratore, oggi guadagna centinaia, forse migliaia di volte di più. Stiglitz qualche anno fa ha calcolato che i 50 top manager più ricchi guadagnano circa 19.000 volte il salario del lavoratore medio americano. Se il dato non vi fa abbastanza impressione, considerate che questi signori, in un giorno, guadagnano quanto un operaio in 75 anni di lavoro. Gli Stati Uniti, certo, sono un paese assai diseguale, ma in tutto l’Occidente le diseguaglianze sono aumentate a dismisura: in Italia, ad esempio, mentre la percentuale di popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale è salita al 27%, il 5% più ricco possiede tante ricchezze quante ne ha il 90% più povero. Ma da che dipendono questi squilibri? Secondo l’ideologia neoliberista, maggiori guadagni sono indice di maggiore efficienza e produttività, pertanto il mercato realizza anche l’equità distributiva. Questa teoria stride sia con la complessità dei processi tramite cui si determinano le retribuzioni, sia con le posizioni di potere che i diversi gruppi sociali hanno acquisito, anche grazie ai loro legami con la sfera politica. Non si capisce infatti come potrebbero essere considerati “produttivi” quei top manager dei grandi gruppi finanziari responsabili della crisi del 2008, né in che modo il contributo alla produzione di un dirigente industriale, che è nella posizione di fissare per sé stesso compensi stratosferici – con l’ulteriore possibilità di utilizzare qualche paradiso fiscale –, possa essere misurato e posto a confronto con quello di un operaio, un insegnate o un ricercatore. Si cancella inoltre che nelle moderne società industriali non c’è mercato se a monte non c’è una scelta politica e istituzionale: si deve stabilire, infatti, in che misura i diritti di proprietà e il lavoro debbano essere protetti, chi paga se un’impresa o una banca fallisce, cosa può e cosa non può essere scambiato; leggi e regolamenti devono definire quali tecnologie e quali invenzioni proteggere dal copyright, e per quanto tempo. Infine, dato che nessun mercato può funzionare senza qualcuno che faccia rispettare certe regole e senza infrastrutture, va deciso come finanziare tutto questo e come ripartire il carico fiscale tra i contribuenti. Ciascuna di queste scelte ha effetti sulle retribuzioni, sui profitti e quindi sulla distribuzione della ricchezza.
Le diseguaglianze che si sono accumulate in questi decenni possono essere ricondotte a diversi ordini di ragioni, che nulla hanno a che vedere con la cosiddetta “giustizia distributiva” del mercato. Sintetizzando, due fenomeni sono da mettere in evidenza. Il primo è che negli ultimi decenni le politiche economiche hanno favorito fasce assai ristrette di popolazione. Il carico fiscale per i più ricchi, infatti, si è ridotto radicalmente: secondo l’Oxfam, oltre alla riduzione delle imposte sulle successioni e sulla ricchezza, in media la tassazione sui redditi più elevati è scesa nei paesi industrializzati dal 62% degli anni settanta del secolo scorso al 38% attuale. Nuovi diritti di proprietà su farmaci, tecnologie e materiale vivente hanno lasciato spazi crescenti per il profitto privato, spesso a scapito dei consumatori, mentre la globalizzazione e la finanziarizzazione hanno favorito l’evasione e l’elusione delle imposte da parte delle grandi imprese, alterando a loro vantaggio i rapporti di competitività anche nei confronti delle imprese medie e piccole. Infine la forza contrattuale dei lavoratori si è ridotta ovunque in misura considerevole.
Il secondo elemento è lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Esse hanno portato all’affermazione di un modello industriale dei tratti completamente diversi da quelli di qualunque passato. Come ricostruisce Shoshana Zuboff nel suo volume Il capitalismo della sorveglianza, si sono combinate due spinte. La prima è stata la scoperta, da parte delle aziende informatiche, del valore commerciale delle informazioni che ciascuno di noi fornisce incidentalmente utilizzando i servizi della rete. La seconda è l’indebolimento delle protezioni legali sulla privacy che si sono avute a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Ciò ha completamente alterato il modello di business di queste imprese: nate con l’idea che la conoscenza fosse un bene comune, e che la rete potesse mettere in contatto milioni di persone diffondendo informazioni e conoscenze, le imprese del web hanno ricavano profitti dalla registrazione, l’analisi e la vendita dei dati degli utenti. Ormai tecnologie, programmi e applicazioni sono studiati proprio per raccogliere la maggiore quantità possibile di informazioni sui comportamenti di chi li utilizza. In pochi anni abbiamo pertanto assistito ad un radicale rovesciamento: ciò che avrebbe dovuto rimanere protetto come spazio privato di ciascuno, è invece nella piena disponibilità di imprese private che sfruttano queste informazioni a fini pubblicitari, politici, per condizionare l’opinione pubblica e potenzialmente anche per prevedere l’affidabilità creditizia di un soggetto o la fedeltà aziendale di un richiedente impiego. Ma siamo ancora agli inizi: con l’internet delle cose, in un prossimo futuro gli oggetti della nostra vita quotidiana potranno raccogliere e trasmettere informazioni sull’ambiente circostante, rendendo realistica la possibilità del controllo totale delle nostre vite. 
I colossi della rete, inoltre, proprio per il carattere immateriale dei loro servizi, sono particolarmente favoriti nella possibilità di eludere il fisco. Essi, in Italia come in altri paesi, hanno finora pagato solo poche decine di milioni di euro di imposte, sfruttando sia il fatto di operare su scala globale, sia le condizioni fiscali di favore offerte da alcuni paesi europei e da altri paradisi fiscali sparsi nel mondo. 
Controllo delle informazioni, potere politico e potere economico costituiscono insomma la pericolosa miscela che alimenta il capitalismo contemporaneo, e tutto questo non ha nulla a che vedere né con l’efficienza come tradizionalmente intesa, né con la “giustizia distributiva” del mercato. Eppure non è certo la tecnologia in sé ad avere effetti perversi. Infatti, così come il suo uso attuale presenta tratti sempre più inquietanti, potrebbe anche essere possibile un uso a vantaggio della collettività, che ad esempio, nello specifico, consenta ai governi di contrastare queste pratiche antisociali delle imprese. Sebbene ben poco indichi che si vada in questa direzione, è da seguire con attenzione quello che sta avvenendo negli Stati Uniti. Nel corso delle primarie del partito democratico, sia Bernie Sanders che Elizabeth Warren hanno avanzato due proposte di rilievo. La prima è quella di una tassazione del 2% sulle ricchezze superiori ai 50 milioni di dollari, proposta che ha provocato una levata di scudi da parte di economisti, politici e manager, ma che sembra incontri i favori di larga parte dell’elettorato democratico e repubblicano. La seconda, avanzata in particolare dalla Warren, prevede lo smembramento dei monopoli della rete. Anche in questo caso le proteste non sono mancate, ma gli Stati Uniti hanno una antica tradizione di leggi anti trust: agli inizi del secolo scorso la Standard Oil, che aveva una posizione di monopolio nel settore petrolifero, venne smembrata in diverse società. Difficile valutare quali possibilità vi siano che queste proposte possano essere attuate in un prossimo futuro, eppure è significativo che nel paese chiave per i destini dell’Occidente esse si trovino al centro del dibattito pubblico.

left on line, 8 ottobre 2019

martedì 15 ottobre 2019

Left n. 40, 4 ottobre 2019

Neoliberismo e barbarie, uno sfregio alla memoria

Dire che fu il patto Molotov-Ribbentrop a spianare la strada alla guerra è una lettura arbitraria dei fatti per fini di bassa politica. Del resto, il progetto di omologazione delle società occidentali al modello neoliberista, oltre a quella dell’economia, deve dare una visione semplificata della storia

di Andrea Ventura

Nel 2013 J. P. Morgan, una delle più grandi banche d’affari del mondo, affermava che le costituzioni di alcuni paesi europei sarebbero fortemente influenzate da idee socialiste e dunque, proteggendo i diritti sociali, sono di ostacolo alle politiche di austerità. In effetti è difficile conciliare con queste politiche l’articolo 3 della nostra Costituzione - secondo il quale è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione del paese - o l’articolo 36, che afferma il diritto di ogni lavoratore ad una retribuzione “sufficiente ad assicurare a sé e alla propria famiglia un’esistenza libera e dignitosa”. Oltre ad esprimere il ripudio della guerra, del razzismo, e a difendere le libertà di parola e di pensiero, la Costituzione vieta anche la ricostruzione del disciolto partito fascista. Firmano il testo il presidente della Repubblica Enrico De Nicola, il capo del governo Alcide De Gasperi e Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea Costituente e dirigente del Partito Comunista. Affinché il progetto neoliberista possa affermarsi, quell’insieme di elementi scaturiti dalla sconfitta del nazifascismo, che lega diritti sociali, diritti politici e partecipazione democratica, deve essere sradicato.
La risoluzione approvata dal parlamento europeo, che equipara comunismo e nazifascismo, persegue gli stessi obiettivi del documento di J. P. Morgan. Il progetto neoliberista, infatti opera una radicale semplificazione del funzionamento dell’economia e delle politiche economiche. L’individuo è considerato non come cittadino, ma come consumatore: di qui l’offensiva contro quei diritti sociali che nella Costituzione italiana (come in quelle di altri paesi europei) hanno ancora un importante punto di resistenza; di qui anche il legame tra questo progetto e la risoluzione del parlamento europeo che, con un’analoga semplificazione, legge i crimini della seconda guerra mondiale come generati da un mostruoso e non meglio identificato “totalitarismo”, nato per motivi misteriosi nel cuore della nostra civiltà. Affermando, come fa la risoluzione, che il patto Molotov - Ribbentrop “ha spianato la strada allo scoppio della seconda guerra mondiale”, e invitando gli stati membri a celebrare la ricorrenza di quel patto (il 23 agosto) come “Giornata europea di commemorazione delle vittime dei regimi totalitari”, si cancella quanto avvenuto prima e quanto avvenuto dopo. Prima, solo per ricordare gli episodi più rilevanti, ci furono l’aggressione dell’Italia fascista all’Etiopia (dove per la prima volta furono usate in modo massiccio armi chimiche contro una popolazione civile), la guerra di Spagna (con le democrazie europee che lasciarono massacrare il legittimo governo spagnolo dai nazionalisti sostenuti da Hitler e Mussolini), l’annessione dell’Austria alla Germania nazista e gli accordi di Monaco. Questi ultimi avvallarono le pretese di Hitler sui territori cecoslovacchi dei Sudeti, che furono subito invasi, mostrando la scarsa determinazione di Francia e Inghilterra a contrastare il nazismo. Dopo il patto e la spartizione della Polonia, Hitler invase la Francia, bombardò Londra, e si scatenò uno scontro titanico tra l’Unione Sovietica, che combatteva per la sopravvivenza del proprio popolo (i propositi di Hitler, che a Est cercava lo spazio vitale per la nazione germanica, erano di schiavizzare e forse sterminare l’intera razza slava) e il nazismo. Hitler, infatti, in Europa non aveva più rivali, ma i sovietici resistettero a Mosca, a Leningrado, e sconfissero i nazisti a Stalingrado. Solo dopo ci fu lo sbarco degli Alleati in Sicilia, in Normandia, e la liberazione dell’Europa. L’Unione Sovietica ha pagato un tributo di sangue spaventoso, che secondo alcune stime raggiunge i 25 milioni di morti.
Ogni popolo ha diritto a celebrare la memoria delle proprie vittime, e lo stalinismo si è indubbiamente macchiato di crimini orrendi. A Katyń, nella Polonia invasa, Stalin fece assassinare 22.000 soldati e ufficiali presi prigionieri, il fior fiore della nazione. Crimini, sofferenze e violazioni dei diritti elementari furono patiti dalle popolazioni dei paesi invasi dai sovietici, come anche dagli oppositori del regime, compresi gli stessi dissidenti comunisti. L’invasione di Budapest, la fucilazione di Imre Nagy, i carri armati a Praga e tante altre vicende terribili non possono essere dimenticati. Il punto però è che quella risoluzione, affermando che fu il patto Molotov - Ribbentrop a spianare la strada per lo scoppio della guerra, fornisce una lettura arbitraria degli eventi per fini di bassa politica e di attualità. Il progetto di omologazione delle società occidentali al modello neoliberista, infatti, oltre a proporre una visione semplificata dell’economia, deve anche semplificare la storia: i buoni da una parte, che sarebbero le democrazie liberali dell’Occidente; i cattivi dall’altra, identificati genericamente come “regimi totalitari”. Ma i movimenti comunisti furono fenomeni troppo complessi per essere riconducibili alla categoria del totalitarismo, e tantomeno quella tradizione può essere accostata ad un sistema di sterminio come fu quello nazista. Possono, ad esempio, considerarsi “totalitari” il processo di decolonizzazione, la vittoria del Vietnam sugli Stati Uniti e l’Eurocomunismo di Berlinguer? Oppure furono più totalitari il colonialismo dell’Occidente, il regime di Pinochet, la dittatura Argentina, il piano Condor della Cia per l’America latina (il quale peraltro porta lo stesso nome della legione aerea nazifascista Condor che bombardò la citta spagnola di Guernica nel 1937) e lo sterminio del ‘65 di oltre un milione di comunisti in Indonesia, avvenuto col sostegno a Suharto di Gran Bretagna e Stati Uniti? Lo studio della storia richiede analisi complesse, e non è certo compito del parlamento europeo stabilire verità funzionali a questo o a quel progetto politico.
È curioso peraltro osservare che la riscrittura del passato per giustificare i rapporti di forza del presente caratterizzi i sistemi totalitari e in particolare lo stalinismo. A seguito dei processi degli anni trenta, e per tutto il periodo staliniano, famosi dirigenti rivoluzionari condannati come “nemici del popolo” erano anche cancellati dalle fotografie. I libri sulla storia della rivoluzione venivano continuamente aggiornati alle verità ufficiali, inventando nuovi eroi e eliminando figure cadute in disgrazie. La risoluzione del parlamento Europeo, che tra l’altro invita gli stati membri a inserire “la storia e l’analisi delle conseguenze dei regimi totalitari nei programmi didattici e nei libri di testo di tutte le scuole dell’Unione”, e stigmatizza la permanenza negli spazi pubblici di luoghi commemorativi dei regimi totalitari, sembra porsi sullo stesso terreno. Ma seguire questa strada scivolosa rischia di produrre scomodi paradossi. Cancelliamo i nomi di piazze e strade che si rifanno all’Unione Sovietica e a Stalingrado, ma proseguiamo poi con Gramsci, Togliatti, Rosa Luxemburg e Ho Chi Minh? Dimentichiamo Picasso, iscritto al Partito Comunista, che dipinse anche un ritratto per Stalin? E che facciamo con l’edificio che ospita la sede del parlamento europeo e che porta il nome di Altiero Spinelli, eletto in quel parlamento come indipendente nelle liste del Partito comunista? Rimangono infine un miliardo e 300 milioni di cinesi con cui l’Occidente dovrà confrontarsi. Sono anch’essi governati da un regime analogo a quello nazista?

martedì 8 ottobre 2019

Left n. 39, 27 settembre 2019

La trappola del Pil, un pianeta in ostaggio


La questione ambientale non può essere affrontata in maniera isolata dall’insieme dei temi economici e sociali. Ma il cambiamento è arduo da perseguire se gran parte dei paesi sono in preda al neoliberismo e al principio individualistico dell’homo oeconomicus

di Andrea Ventura

“Il capitale che produce l’interesse composto (…) appare come un Moloch che pretende il mondo intero come vittima a lui spettante, ma che, per un fatto misterioso, non vede mai soddisfatte, anzi sempre frustrate, le richieste che derivano dalla sua stessa natura”. La logica dell’interesse composto, osserva qui Karl Marx, è devastante, in quanto suo fine non è rivolto a soddisfare un bisogno umano: l’unica finalità è invece la crescita del capitale, senza che ciò trovi mai un limite definito. A partire dal secondo dopoguerra, con lo sviluppo dei sistemi di contabilità nazionale, le prestazioni delle nostre economie sono misurate con numero: il tasso di crescita composto del Pil. Non ci si cura se questa crescita, che pretende anch’essa “il mondo intero come vittima”, distrugga o preservi l’ambiente, avvantaggi i pochi già ricchi o i più bisognosi. Eppure c’è una profonda differenza tra il modello di crescita dei decenni successivi alla fine della guerra e quello odierno. Il primo, ispirato al New Dealdi Roosevelt, cercava di conciliare la crescita dei profitti con il miglioramento delle condizioni di vita di fasce sempre più ampie di popolazione. Questo compromesso tra capitale e lavoro, detto anche “compromesso socialdemocratico”, è entrato in crisi nel corso degli anni settanta ed è stato abbandonato nel decennio successivo, lasciando le nostre società in preda del neoliberismo e del principio individualistico dell’homo oeconomicus. Ormai, in Occidente, la crescita economica non garantisce più il benessere e la sicurezza sociale alla maggioranza, ma genera una frattura sempre più radicale tra ricchi e poveri, sia all’interno dei singoli paesi, sia su scala globale: il dato più sconvolgente a questo proposito è forse quello fornito ogni anno dall’Oxfam: nel 2010, 322 persone possedevano una ricchezza equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale;  nel 2015 quel numero si è ridotto a 63, oggi è pari a 26. 

Quando, difronte alle emergenze ambientali, si recupera l’idea di Roosevelt di un “nuovo corso” – un Green New Deal, appunto – si rischia di dimenticare che il sistema sociale del dopoguerra, oltre ad essere diverso dall’attuale per quanto riguarda la struttura dell’economia e la politica economica, aveva alla base un’idea ben precisa del benessere da perseguire: il suo fine era realizzare quelle che Roosevelt riteneva fossero alcuni principi di libertà per tutti gli esseri umani, e in particolare, sul piano economico, la libertà dal bisogno. La domanda è se oggi possa affermarsi un Green New Dealsenza mettere in discussione quella mostruosa logica capitalistica già denunciata da Marx che ormai domina interamente i nostri sistemi sociali. 

Se da un lato il clima culturale e gli equilibri politici non promettono nulla di buono, non per questo mancano le spinte per un cambiamento. Anzitutto le nuove tecnologie dematerializzano la produzione, rendendo necessario un ripensamento sia delle politiche pubbliche, sia degli stessi indicatori dell’economia. Inoltre l’austerità ha pesantemente colpito i più poveri, cioè quei ceti sociali per i quali la crescita dei redditi ha ancora un’importanza preminente, alimentando la protesta sociale. Infine le politiche monetarie espansive si sono mostrate inefficaci, cosicché ormai anche Draghi è costretto a sostenere che serve un intervento dei governi. Tra l’evidenza dei guasti provocati dalle politiche neoliberiste, gli allarmi della comunità scientifica sulla sostenibilità ambientale delle nostre economie e i giovano che in tutto il mondo si mobilitano in difesa del proprio futuro, molti fattori indicano che sta maturando una consapevolezza nuova. In questo quadro, dunque, l’idea di mobilitare risorse per la difesa dell’ambiente e la riconversione ecologica ha un senso, non solo ai fini della sostenibilità ambientale, ma anche per il rilancio dell’occupazione e lo sviluppo stesso dell’economia. 

Eppure il cambiamento non può essere affidato a politiche calate dall’alto, che rischiano di favorire interessi consolidati attorno al vecchio modello di economia, né può ridursi ai vuoti ritornelli che caratterizzano attualmente il dibattito pubblico. Va anche rifiutata l’idea, di derivazione neoliberista, secondo la quale contano anzitutto le scelte individuali, e pertanto dovremmo consumare meno carne, girare in bicicletta o rinunciare ai viaggi in aereo. È invece irrinunciabile l’azione collettiva, cioè la costruzione di un’opposizione sociale e politica che riesca ad incidere a fondo sulle scelte pubbliche, le tecnologie in uso, l’organizzazione sociale ed economica. È necessario unire la difesa delle condizioni materiali dei più disagiati – terreno di scontro abbandonato dalla sinistra storica – con le lotte ambientali, la difesa del patrimonio artistico, dell’istruzione e della ricerca scientifica. Deve diventare consapevolezza comune che non c’è sviluppo umano, né sviluppo economico, senza istruzione, cultura e scienza, e che il contenuto scientifico e la qualità del lavoro che servono per un’economia che rispetti l’ambiente è molto superiore quelli che servono per bucare le montagne ed emettere gas serra: non vi è nelle lotte ambientali alcun ritorno al passato, ma uno sguardo verso il futuro. Le conoscenze e le risorse per questo passaggio sarebbero già disponibili, così come sembra abbastanza diffusa l’idea che il benessere, una volta soddisfatti i bisogni di base, si realizzi sul piano dei rapporti personali, della socialità e della qualità della vita anche nell’impegno sul lavoro. La questione ambientale ha inoltre implicazioni sull’equità e sull’accesso alle risorse, sia su scala globale che locale. Le diseguaglianze che caratterizzano l’attuale condizione umana, infatti, si ripercuotono anche sulle responsabilità delle alterazioni climatiche. Solo per fare un esempio, mentre crescono i profughi ambientali, gli abitanti dei paesi più energivori come Stati Uniti e Canada continuano ad emettere ogni giorno tanti gas serra pro capite quanti ne emettono in uno o due anni quelli dei paesi più poveri.

La questione ambientale non può dunque essere affrontata in maniera isolata dall’insieme delle questioni economiche e sociali. Ma il cambiamento è arduo da perseguire. L’intero sistema economico è costruito sul principio della crescita illimitata, principio che da un lato risponde alle pretese del capitale sul “mondo intero come vittima a lui spettante”, dall’altro ha la sua corrispondenza in quell’antropologia dell’homo oeconomicusche riduce l’individuo a consumatore e nega che l’essere umano sia naturalmente portato alla socialità. Lavorare per l’affermazione di una nuova antropologia che unisca l’uguaglianza, la socialità, la cultura e la difesa dell’ambiente, costituisce la premessa per questo passaggio essenziale per la nostra civiltà.

giovedì 12 settembre 2019

Left n. 21, 24 maggio 2019

Il falso mito del mercato e i suoi effetti collaterali

Oltre a una visione economica diversa da quella neoliberista, si deve lavorare per un nuovo modo di vivere i rapporti sociali. Perseguendo un’idea di benessere collettivo che unisca quello materiale, la difesa dell’ambiente e l’arricchimento culturale.  

di Andrea Ventura

Grazie ai recenti sviluppi tecnologici, i settori più dinamici dell’economia utilizzano una risorsa particolare, l’informazione, che ha caratteristiche diverse da quelle su cui si basavano le fasi di sviluppo del passato. Se un comune bene di consumo, infatti, può essere scarso e dunque è a disposizione di un individuo o di un altro, l’informazione, all’opposto, proprio per sua natura, è sfruttabile nella misura in cui circola liberamente ed è condivisa tra più persone. Questo genera due conseguenze di rilievo: anzitutto le sue potenzialità non possono pienamente svilupparsi all’interno dei mercati, i quali invece funzionano quando l’oggetto scambiato è per usi individuali e pertanto chi non lo possiede deve essere escluso dal suo godimento; in secondo luogo, proprio per questo, uno dei principali terreni di conflitto tra interessi privati e pubblici verte sulle modalità di utilizzo delle tecnologie dell’informazione e dell’immensa quantità di dati e conoscenze che circolano per la rete: da un lato pochi grandi colossi cercano di usarle per il profitto privato, dall’altro forze sociali diffuse tentano di favorire l’uso di queste tecnologia per il benessere di tutti.

Oltre questo conflitto, è oggi in questione l’affermazione o la sconfitta di un modello di società. L’idea liberista basata sulla centralità del mercato, proposta in alcune teorie economiche di fine Ottocento, non solo poggia sulla centralità della produzione e dello scambio di beni materiali, ma fa riferimento ad un modello sociale che ha le sue radici nel razionalismo illuminista del Settecento. Voltaire, ad esempio, vedeva nella borsa di Londra la possibilità che persone con cultura, religione e nazionalità diverse potessero superare le loro contrapposizioni, facendo affari piuttosto che la guerra. Peccato però che l’espansione della borsa di Londra, la quale nel corso del diciottesimo secolo crebbe del 400%, avesse alla base quel turpe commercio degli schiavi che proprio nel secolo dei lumi registrò la sua massima espansione. Voltaire peraltro (così come Locke, l’altro campione della tolleranza) investiva lui stesso i propri risparmi nel commercio degli schiavi.

Dopo la crisi del ‘29 e i disastri della guerra, le teorie liberali sono state superate e il modello di gestione dell’economia che si è affermato in Occidente fu invece ispirato alle idee di Keynes. Esso si reggeva su un “patto sociale” tra Stato, capitalisti e organizzazioni dei lavoratori finalizzato alla crescita economica e alla diffusione del benessere anche verso fasce di popolazione che fino ad allora ne erano rimaste escluse. Grazie a questo patto è stato edificato un sistema sociale che, coniugando democrazia, protezione sociale e mercati delle merci parzialmente liberi, ha trovato la sua massima espressione nel modello sociale europeo, oggi sotto attacco per il ritorno del liberismo.

La crisi di quest’ultimo è radicale. Essa è una crisi economica, ma anche sociale: pertanto il suo superamento necessita che si discuta attorno ad una nuova idea di socialità. Affrontare passaggi di questa natura richiede uno sforzo di comprensione di lungo periodo sui processi di socializzazione, in assenza del quale non è possibile indirizzare l’azione politica. Solo a seguito di questo sforzo si possono aprire prospettive per un cambiamento in positivo delle nostre società. Oltre la critica al neoliberismo, va dunque definito un nuovo patto sociale, che trovi le sue fondamenta su di una nuova idea di socialità. In realtà questa idea di società l’abbiamo già davanti ai nostri occhi: essa è quella della cooperazione all’interno delle comunità scientifiche. In modo simile ma civilmente assai più avanzato del modello della borsa di Londra di Voltaire, le comunità scientifiche che lavorano su base europea e internazionale, infatti, prescindono dalle eventuali divisioni derivanti da religioni, lingue e barrire culturali, portando avanti l’intento comune della ricerca nei diversi campi di interesse. Certo, vi sono contesti in cui ciò non è così semplice, né l’accesso dei singoli ricercatori e lo sviluppo dei progetti di ricerca sono liberi da vincoli e condizionamenti economici e politici. Eppure, quello che qui interessa sottolineare è che, per ogni gruppo di scienziati, maggiori sono la circolazione delle informazioni, la cooperazione, il livello di coesione dei suoi componenti e la libertà di cui essi dispongono, maggiori sono i risultati scientifici raggiunti dal gruppo stesso. 
Anche nelle organizzazioni della società civile e nelle lotte sociali si va affermando questo modello. Le lotte della popolazione della Val di Susa contro il TAV, ad esempio, non sono mai state limitate alle manifestazioni di strada. Piuttosto, per anni, un’intera valle ha discusso del sistema dei trasporti, della difesa dell’ambiente, della possibilità di uno sviluppo economico diverso da quello del passato e più rispettoso della vita delle persone. Lo sguardo di questa gente non è mai stato rivolto all’indietro, piuttosto essi si impegnavano e si impegnano ancora per il superamento di un’economia ormai vecchia che genera sprechi, alterazioni ambientali e diseguaglianze.
Tutto questo ci serve per definire in modo più preciso la sfida che oggi abbiamo di fronte. Essa ci impone la necessità di integrare due aspetti: accanto ad una visione diversa da quella dominante sulle questioni specifiche di politica economica, si deve lavorare per l’affermazione di un nuovo modo di vivere i rapporti sociali. È necessario perseguire un’idea di benessere che unisca il benessere materiale, la difesa dell’ambiente e l’arricchimento culturale, sfruttando anche le potenzialità offerte delle tecnologie dell’informazione. Queste tecnologie, infatti, non solo consentono di raccogliere una mole impressionante di informazioni su noi stessi, che dunque ci appartengono, ma riducono anche i costi della comunicazione, dell’organizzazione e della diffusione della conoscenza. 
Questo modello di società, come si è detto, può ispirarsi ai gruppi di ricerca, ma caratterizza anche la cultura, l’arte, ed in genere a tutti quegli ambiti che Massimo Fagioli ha definito come legati alla realizzazione delle esigenze. Questa idea di socialità dovrebbe affermarsi anche all’interno della sinistra. Oltre la frammentazione e la dispersione, oltre una polemica politica che ormai raccoglie sempre meno interesse, le forze della sinistra devono essere in grado, anche al loro interno, di proporre un’idea di socialità dove l’individuo conta, ma non è nulla senza il collettivo; il collettivo d’altro canto è necessario, ma non deve soffocare la creatività e la libertà del singolo. Uguaglianza e diversità tra individui, percorsi culturali e interessi, devono trovare il modo di armonizzarsi, potenziandosi a vicenda. Questo modello di socializzazione può essere vincente, e noi ci stiamo impegnando per la sua affermazione.

Left n. 20, 17 maggio 2019

PER USCIRE DALLA CRISI RIPRENDIAMOCI L’EUROPA

di Andrea Ventura

Come nota il celebre sociologo tedesco Elias, dall'annomille osserviamo che lo sviluppo umano sembra condurre verso la formazione di aree politico economiche sempre più vase. Dai piccoli feudatari si è passati ai comuni, poi a più ampi aggregati regionali, infine ai moderni stati nazionali. Oggi abbiamo principalmente tre grandi aree geopolitiche, i cui poli sono rappresentati dagli Stati Uniti, dall’Europae dalla Cina. Questo fenomenoha subito una forte accelerazione con lo sviluppo delle nuove tecnologie; è ormai possibile comunicare con immediatezzada ogniparte del mondofavorendo la diffusione delle conoscenze scientifiche e tecnologiche, mentre le grandi imprese sfruttano questa possibilità ramificandosi in ogni angolo del pianeta: pagano imposte irrisorie nei paradisi fiscali, offrono occupazione dove i salari e le protezioni sociali sono inferiori, inquinanodove ci sono meno leggi sull’inquinamento ecc. Le nostre vie di trasporto sono ormai le arterie di un sistema produttivo globale, in gran parte interno alle stesse imprese multinazionali.

Questa realtà può essere considerata come il risultato della tendenza degli esseri umani ad aggregarsi per scambiare e comunicare, e, come si è detto, dello sviluppo tecnologico. Inoltre, più l’area politico-economica è vasta e coesa, più è potente, maggiore è il condizionamento che esercita nei confronti di chi cerca di restarne al di fuori. Le sorti dell’Europa vanno inquadrate in questo sviluppo storico di lungo periodo. Il dramma è che questa tendenza all'aggregazione, negli ultimi decenni, è avvenuta all’insegna del neoliberismo economico. L’Europa dei trattai e della moneta unica ha in sostanza cavalcato questa tendenza all’aggregazione costituzionalizzando dei principi economici errati. Così, se negli Stati Uniti un governo democraticamente eletto può sostenere l’economia ricorrendo al debito pubblico, ai trasferimenti fiscali e alla politica monetaria, in Europa ciò non è possibile. La BCE, ad esempio, ha nel suo statuto il principio secondo il quale la moneta influenza il livello dei prezzi. Pertanto gli è vietato il finanziamento dei debiti governativi e il suo compito sarebbe quello di controllare l’inflazione. Dopo anni di politiche monetarie espansive, l’inconsistenza di questo principio dovrebbe essere ormai evidente, eppure quello statuto non è in discussione e si continua a sostenere che essa “vigila” sull’inflazione. 

L’altro elemento drammaticoè rappresentato dal fatto che le forze della sinistra storica hanno aderito al neoliberismo. Rileggendoil discorso che tenneGiorgio Napolitano per il Partito Comunista Italiano nel1978in occasione del dibattito parlamentare sull’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo, troviamo un’analisi lucidissima delle conseguenze per le classi lavoratrici dell’affermazione di questo modello di integrazione. Eppure, nei decenni seguenti, anche le classi dirigenti delle organizzazioni dei lavoratori hanno aderitoad esso. In sostanza sono stati liquidati cent’anni di storia del movimento operaio, lasciando le classi più disagiate, ma ormai anche i ceti medi, prede della crisi economica e della destra nazionalista. Ci troviamo così in una condizione difficilissima: con la crisi che incalza e che richiederebbe una proposta politica di ampio respiro, abbiamo invece la strada sbarrata sia dalla rigidità dei trattati, sia dalla mancanza di forze sufficienti per interpretare in modo proficuo questa necessità di cambiamento.

La strada della modifica dei trattati è accidentata. È certamente vero che essi, come tutte le cose umane, possono essere cambiati, ma è assai complesso stabilire come, e soprattutto con quali strumenti di pressione, questo risultato possa essere ottenuto. Altrettanto impervia è la strada di chivuole uscire dall’euro, oppure dall’Europa. È questa una via d’uscita impraticabile, e lo è soprattutto per un paese come l’Italia che conta oltre 400 miliardi di euro di esportazioni, che difficilmente potranno essere salvaguardate se il paese sceglie di scontrarsi con i suoi storici alleati.Le forze della sinistra radicale devono quindi muoversi all’interno di una difficile contraddizione:l'Europa attualenon ci piace,ma non abbiamo ancora forze sufficienti per imporre il necessario cambiamento. Certo, è necessario ricordare sempre le principali battaglie che devono essere condotte in Europa (lotta ai paradisi fiscali, modifiche nella gestione della moneta, difesa del lavoro, riconversione ecologica dell’economia, accoglienza, istruzione ecc.) ma per un’azione volta al lungo periodo le nostre forze devono essere in grado di formulare una ben definita proposta culturale. 

Questa proposta si deve basare sull’idea dell’uguaglianza. Solo la ricerca sull’uguaglianza ci consente di sviluppare una prospettiva politica alternativa a quella delle destre. L’idea di uguaglianza è a tutti gli effetti un’idea fondativa della sinistra, e deve basarsi anzitutto sull’uguaglianza tra uomini e donne. Proviamo a fare un po' di ricerca. Salvinièandato a Verona a parlare della famiglia tradizionale, poi però la Lega è favorevole alla riapertura delle case chiuse. I virili padani vorrebbero la donna da subordinata all’uomo nella cosiddetta famiglia tradizionale, e a loro disposizione in una casa chiusa controllata dalla sanità pubblica.Sorge spontanea la domanda sulla ragione ultima per la quale Salvini e la destra hanno queste terribili idee sulla sessualità e sulle donne. La risposta va cercata nel fatto che il rapporto uomo-donnaesprime in massimo grado il rapporto con il diverso da sé.Le altre diversità, come quelle legate al colore della pelle, allalingua, alle tradizioni e alla cultura sono molto più relative. Il cuore della difficoltà nella composizione tra uguaglianza e diversità è lì, nel rapporto uomo-donna, enon è un caso che la destra abbiaquesta idea delle donne. La diversità per loro implica la negazione dell’uguaglianza, dunque un giudizio di valore su chi è superiore e chi è inferiore, che poi ripropongono nei confronti dei migranti, dei rom, dei poveri e dei disoccupati.

Questa idea di uguaglianza la dobbiamo mettere anche al centro delle nostre proposte per l’Europa. I popoli europei hanno alcune tradizioni politiche e culturali che li uniscono. Tra queste, appunto, vi è un secolo di lotte sociali che ha condotto alla costruzione di quel “modello sociale europeo” basato su democrazia e diritti, che le politiche neoliberiste stanno smantellando. Più a fondo, la specie umana è unica, i popoli fin dai tempi del Sapiens hannosempre migrato, e iconfini tra le nazioni non sono altro che linee artificiali legati alla costituzione delpotere politico. L’Europa avrà un futuro se riuscirà a basarsi anzitutto su questa idea di uguaglianza, ma anche sul fatto che i popoli europei sono diversi per tradizioni, culture. Come nel rapporto uomo-donna, mantenendo il solido fondamento dell’uguaglianza, queste diversità possono costituire una ricchezza e una sfida da far valere come modello di socializzazione per tutta l’umanità: in fondo l'Europa è sempre stata un crogiuolo di conflitti da un lato, di contaminazioni e arricchimento tra culturedall’altro. Il Mediterraneo per secoli è stata un'area centrale nello sviluppo del mondo,proprio perchè il nostro mare metteva in comunicazione popoli con culture e tradizioni anche molto diverse. Lontani dal cosmopolitismo astrattoe dalla globalizzazione imposta dai mercati, come anche dal nazionalismo che mette i popoli gli uni contro gli altri, la sinistra deveproporre un'idea di Europa che recuperi questa possibilità di unire uguaglianza e diversità. 

Anche sul piano della pratica politica immediata, dobbiamo superare la contrapposizione – presente anche tra le forze della sinistra – tra chi vuole avanzare verso l’integrazione e chi ritiene invece che si debbano recuperare spazi di democrazia su base nazionale. È opportuno invece utilizzare tutti gli strumenti, nazionali e internazionali, per proporre questa nostra idea di socialità. Un esempio della complessa articolazione del conflitto è costituito dalla vicenda del Fiscal compact. Esso nacque nel 2012 come accordo intergovernativo, al fine di rendere più stringenti i criteri del trattato di Maastrichtdel 1992. Il Fiscal Compact fu approvato come trattato intergovernativo perché tre paesi europei (Gran Bretagna, Croazia e Repubblica Ceca) si rifiutarono di sottoscriverlo. Nel 2017 questo trattato, che era in scadenza, avrebbe dovuto essere inserito all’interno dei trattati europei ma a sorpresa, nel novembre del 2018,  la Commissione economica del Parlamento europeo ne ha rifiutato l’approvazione. Così, oggi, il Fiscal Compact non ha più base legale. Il trattato è stato bocciato anche grazie all’opposizione delle forze della sinistra radicale, ma il rappresentate della Lega non era presente alla votazione. In sostanza, mentre i governi chiedevano l’austerità, il parlamento europeo si è espresso per un’inversione di rotta, con i sovranisti della destra stranamente distratti in un passaggio cruciale. Non è all’interno della contrapposizione tra nazionalismo e globalismo, né in quella tra destra sovranista e neoliberismo, che può svilupparsi la civiltà europea. 

Left, n. 17, 26 aprile 2019

Con "la Sinistra" per una nuova cultura politica

Superamento dell’austerità, Green New Deal, difesa del lavoro, dei diritti dei lavoratori e dello Stato sociale, chiusura dei paradisi fiscali, accoglienza e solidarietà sono temi che con coerenza sono stati portati avanti solo dalle forze della Sinistra europea

di Andrea Ventura

Due ordini di ragioni, una interna e una internazionale, rendono cruciali queste elezioni europee. Sul piano interno si potrà verificare quanto le scelte del PD e del M5S siano riuscite a rendere una formazione che raccoglieva poco più del 17 % dei consensi, il più forte partito politico del paese. Perché di questo si tratta: da un lato il PD, piuttosto che evitare il peggior esito per il governo per il paese, ha scelto di rendere l’attuale maggioranza l’unica possibile, quasi a voler punire un’opinione pubblica che gli ha voltato le spalle; dall’altro il M5S ha deciso di assecondare l’iniziativa di Salvini, facendolo apparire come il vero uomo forte del governo: cavalcando temi quali la legittima difesa, l’invasione degli stranieri, la “famiglia tradizionale”, la “flat tax “, il sovranismo nazionalista, cioè temi di destra, la Lega ha per mesi dominato la scena politica lievitando nei consensi. Ora, dopo questo disastro - che se fosse stato programmato a tavolino non avrebbe potuto avere maggior successo - PD e M5S chiedono un voto per raggiungere il secondo posto nella graduatoria delle forze politiche. Sembra che in palio vi sia una medaglia d’argento in una competizione sportiva, e non una prospettiva di cambiamento da offrire a un paese stremato dalla crisi.

Sul piano europeo, la crisi economica si è trasformata in crisi sociale, politica e istituzionale. Dalla Brexit al movimento dei giubbotti gialli, fino alla formazione in Italia di un governo costituito da due partiti marginali o inesistenti 10 anni fa, la rabbia dei popoli ha colpito il cuore dell’Europa. Ad occidente di quest’area di crisi radicale abbiamo una Spagna sul punto di votare ancora. Ad oriente l’area attorno alla Germania soffre meno della crisi, ma mostra anch’essa segni di cedimento. Nell’insieme la stabilizzazione appare molto lontana.

In questo contesto la sinistra storica è parte del problema, non certo della soluzione. Appiattita all’ideologia neoliberista, come vediamo dai vuoti slogan di Macron e dall’ecumenismo di Zingaretti, essa trova la propria ragion d’essere solo nel costituirsi come argine al “sovranismo antieuropeista”, senza essere in grado di affrontare il cuore del problema: la protesta anti europea prospera proprio grazie alla condizione di abbandono che vivono quelle classi sociali che alla sinistra facevano riferimento. Così i vecchi assetti politici e le cosiddette forze anti establishment si giustificano l’una grazie all’altra, diffondendo indifferenza, paura, sfiducia: nulla sembra poter cambiare nella politica odierna.

Le forze che, in Italia, hanno costituito la nuova lista della “Sinistra”, hanno invece una fisionomia ben definita: superamento dell’austerità, Geen New Deal, difesa del lavoro e dello stato sociale, chiusura dei paradisi fiscali, accoglienza e solidarietà, temi questi che inutilmente cercherete nei programmi delle altre forze politiche. Il rifiuto di opachi accordi con chi in questi anni è stato corresponsabile delle devastanti politiche antisociali, è il necessario punto di partenza per raccogliere consensi. Le competizioni elettorali, però, sono anche occasioni per dibattere, diffondere idee, costruire alleanze e organizzarsi. Va quindi posto al centro della campagna elettorale non solo la critica alle politiche economiche neoliberiste, ma anche alla cultura politica che le sostiene.
Una delle idee più devastanti di questi decenni è stata il “trickle down” (sgocciolammo verso il basso): essa afferma che l’arricchimento dei più ricchi è un bene in quanto, in ultima istanza, ciò porta un maggior benessere per tutti. Questa idea, vera e propria proposta di secessione sociale, trova applicazione anche nei rapporti tra aree economiche e paesi. A essa va sostituita l’idea che i sistemi sociali sono come una catena, la cui capacità di tenuta non è legata all’anello più forte, ma a quello più debole. La crisi sociale europea, esplosa con il disumano trattamento subito dalla Grecia (uno dei paesi più fragili), si è rapidamente estesa a tutta l’Europa, mostrando quanto le sorti dei popoli siano intrecciate.

Left si propone da tempo come luogo di discussione per costruire una nuova cultura politica che ponga al centro il valore del rapporto tra le persone, e non lo sfruttamento del lavoro e della creatività altrui a fini di profitto. Sarà presente anche in questo difficile passaggio della vita politica del paese. Si tratta di lavorare affinché questa nuova cultura, ormai diffusa, possa essere anche forza politica.