martedì 2 ottobre 2018

left, n. 38, 21 settembre 2018

Il socialismo liberale, un faro nel buio del ‘900

Manca a sinistra una cultura politica all’altezza dei problemi odierni. Senza un’idea di benessere umano da perseguire oltre i bisogni di base, la sinistra non potrà mai ricostruirsi

di Andrea Ventura

Dal New Labour di Blair ai democratici di Bill Clinton, dalla sinistra francese alla socialdemocrazia tedesca e al Pd, in tutto l’Occidente le forze storiche della sinistra hanno scelto di essere parte di quel progetto neoliberista che ha dominato negli ultimi quarant’anni, rimanendo travolte dalla sua crisi. Se punti di resistenza si intravedono, questi nascono da forze non compromesse con quel progetto di società. Manca però l’elemento essenziale per una vera inversione di tendenza: una cultura politica che sia all’altezza dei problemi odierni. In questo quadro, estremamente utile risulta il breve saggio del filosofo politico francese Serge Audier, Il socialismo liberale, Mimesis 2017, che ha il pregio di tracciare una nettissima distinzione tra due pensieri politici solo apparentemente affini: quello che ha guidato la svolta neoliberista della sinistra europea, e quello del socialismo liberale, che non ha mai fatto del capitalismo e del mercato il proprio punto di riferimento. All’interno di quest’ultimo, è significativo il riconoscimento da parte di Audier dell’importanza di autori italiani quali Rosselli, Calamandrei, Calogero, Capitini, Gobetti, Bobbio e tanti altri.

Carlo Rosselli fu tra i fondatori del movimento “Giustizia e libertà”, combatté in Spagna e fu assassinato nel 1937 in Francia, probabilmente su ordine di Mussolini. Nel suo testo del 1929 scritto al confino di Lipari, Socialismo liberale, Rosselli afferma la necessità di introdurre elementi di liberalismo nel pensiero socialista. Rosselli si richiama a principi fondamentali di civiltà quali la difesa dell’individuo, il diritto alla partecipazione politica, la democrazia, rifiutando non solo il fascismo, ma anche l’idea che il socialismo si possa realizzare senza assorbire appunto quegli elementi del pensiero liberale che garantiscono le libertà personali, politiche e di pensiero.

Vicini al socialismo liberale, autori di formazione schiettamente liberale come Gobetti, Calamandrei, Calogero e Capitini sostengono che senza la partecipazione alla vita politica delle masse popolari, e senza le idee di uguaglianza e di giustizia sociale di cui il socialismo (anche quello marxista) è portatore, i principi del liberalismo rimangono sterili. Anzi, a loro avviso, la vittoria del fascismo in Italia dimostra quanto le forze del movimento operaio siano essenziali affinché la democrazia possa essere salvaguardata e i principi liberali possano affermarsi a beneficio di tutta la società. Ricordiamo qui brevemente Gobetti, amico e collaboratore Gramsci all’Ordine Nuovo, morto giovanissimo nel 1926 a seguito delle percosse subite per un’aggressione fascista. Gobetti è di formazione liberale ma auspica un rinnovamento delle élitestramite il conflitto sociale: nel 1920 sostiene dunque gli operai di Torino che occupano le fabbriche e rivendicano il controllo dei processi produttivi. Notevole anche la figura di Calamandrei, insigne giurista, che critica ogni concezione della libertà ridotta alla libertà economica: a suo avviso la libertà e i diritti non sono tali se non comprendono quelli di partecipare alle scelte della comunità di cui si è parte. Abbiamo qui il superamento di ogni separazione tra diritti sociali e diritti politici: per Calamandrei, che fu tra gli autori della nostra Costituzione, essi sono una cosa sola.

Socialisti liberali e liberalsocialisti italiani fondano nel 1942 il Partito d’Azione, che fu molto attivo nella Resistenza. Sconfitto nelle elezioni del 1946, nel 1947 il partito si scioglie. L’ultimo politico di primo piano che si è riferito a quella tradizione fu il socialista Riccardo Lombardi, il quale riteneva che una volta soddisfatti i bisogni di base, lo sviluppo civile avrebbe dovuto investire la cultura, la qualità della vita, la socialità e il tempo libero: un’utopia rimasta tale anche a causa delle scelte suicide della sinistra neoliberista e del ritorno della povertà in questi anni di crisi. Eppure il doppio fallimento del liberalismo e del marxismo indica che molte delle tesi e delle preoccupazioni dei socialisti liberali hanno avuto conferma: il comunismo, nel tentativo di realizzare l’uguaglianza ha distrutto la libertà, mentre il liberalismo, riducendo la libertà a libertà economica, ha distrutto l’uguaglianza e svuotato la democrazia.

Il recupero della distinzione tra neoliberismo e socialismo liberale è utile come primo passo di una ricerca che indaghi a fondo sulle cause della crisi attuale.  Nel corso del Novecento, liberismo economico e marxismo, pur scontrandosi radicalmente, definivano ogni prospettiva di realizzazione umana ponendo al centro la produzione e il possesso dei mezzi materiali. Si riferivano ad un aspetto della vita umana, quello economico, che indubbiamente era pressante e che lo sviluppo industriale prometteva di alleviare. Eppure, il fatto oggi che il liberismo sia entrato in una profondissima crisi, e che il marxismo non riesca a intercettare quel profondo disagio che attraversa le nostre società, indica che siamo difronte ad un passaggio storico di notevole rilievo. L’enorme sviluppo delle forze produttive, infatti, consente ormai di porre direttamente al centro la realizzazione del benessere dell’individuo nella socialità. L’ingiustizia subita da chi soffre per la povertà, l’insicurezza e la mancanza di prospettive risulta intollerabile proprio per l’immensità dei mezzi materiali disponibili alla nostra specie e per gli ingiustificati privilegi di cui gode una fascia sempre più ristretta della popolazione. Oggi, almeno in Occidente, non si tratta di produrre sempre di più, ma di organizzare una società dove l’economia sia subordinata ad altre finalità sociali. Di qui l’interesse di autori che, su basi diverse da quelle poste dal marxismo e dal liberismo, cercavano di superare l’economicismo di entrambi senza cadere nell’idealismo e nella religione.

Proporsi il superamento della centralità dell’economia richiede però una ricerca del tutto nuova sulla socialità e sul benessere, ricerca che i socialisti liberali del secolo scorso non avevano gli strumenti per affrontare. La nuova socialità deve unire la difesa delle conquiste sociali messe a repentaglio dal neoliberismo, con la realizzazione delle esigenze, intendendo con esse affetti, sessualità, arte, tempo libero, partecipazione e qualità della vita anche sul luogo di lavoro. È necessario, a monte, il rifiuto di ogni pessimismo antropologico e di ogni semplicistica contrapposizione tra ciò che è “ragione”, e ciò che non è ragione, togliendo alla prima il dominio sull’identità umana. Piuttosto, la ragione e il calcolo razionale servono per il benessere materiale, ma se usati come criterio di condotta nei rapporti personali e nella socialità cancellano affetti e sensibilità, rendendo l’altro un oggetto da controllare, piegare e sfruttare ai fini dell’utilità pratica. I rapporti economici di sfruttamento sono strettamente connessi al dominio di quella ragione astratta che fonda le teorie del neoliberismo economico. Contro l’uomo economico che annulla ogni socialità, occorre lavorare per l’affermazione di un uomo che si realizzi pienamente come essere sociale: che al di là delle differenze di lingua, cultura, colore della pelle e religione, veda nell’altro un proprio simile e non un pericolo o una fonte di guadagno; che cerchi la propria realizzazione in un armonioso rapporto con i propri simili e non nel possesso di beni materiali; e che infine sia in grado di perseguire una nuova idea di libertà, fondata sulla partecipazione alla vita sociale, la quale si accresce piuttosto che ridursi all’aumento della libertà altrui. Senza una cultura politica interamente nuova, e senza un’idea di benessere umano da perseguire oltre quello legato al soddisfacimento dei bisogni di base, nessuna sinistra potrà mai ricostruirsi.

venerdì 1 giugno 2018

left, n. 21, 25 maggio 2018

Il vero volto di un’Europa spietata

Nonostante i proclami di Junker in riferimento all’equità e all’inclusione sociale, le politiche europee vanno in tutt’altra direzione. I trattati dettano legge imponendo agli Stati membri austerità, svalutazione del lavoro e riduzione delle prospettive sociali

di Andrea Ventura


Oggi ci impegniamo per realizzare 20 principi e diritti che spaziano dall’equa retribuzione all’assistenza sanitaria; dall'apprendimento permanente e una migliore conciliazione tra vita professionale e vita privata alla parità di genere e il reddito minimo: con il pilastro europeo dei diritti sociali, l’UE si batte per i diritti dei cittadini in un mondo in rapido cambiamento”. Sono parole di Junker, Presidente della Commissione Europea, pronunciate il 17 novembre scorso in occasione della proclamazione del pilastro europeo dei diritti sociali. Belle parole, indubbiamente, che addirittura alludono al reddito di cittadinanza. Se un governo “populista” in uno dei paesi fondatori dell’Europa avesse preso questi solenni impegni, avrebbe scatenato una crisi finanziaria epocale. Ma nella bocca di Junker hanno tutt’altro effetto. Sebbene sia uno dei funzionari più potenti d’Europa, Junker, da primo ministro del Lussemburgo, per diciotto anni ha consentito alle grandi multinazionali di utilizzare il suo paese come base per eludere le imposte, sottraendo ingenti risorse agli altri governi europei. E poi si sa che l’Europa non è questo: certo, i documenti ufficiali europei sono pieni di riferimenti all’equità e l’inclusione sociale, ma le politiche europee vanno in tutt’altra direzione.

Vincolanti per i paesi, infatti, non sono questi principi. Piuttosto, dal Trattato di Maastricht del 1992 per l’adesione alla moneta unica, al Patto di Stabilità e Sviluppo del 1997, fino al Patto Fiscale del 2011, le finanze pubbliche dei paesi europei (che quei principi dovrebbero attuare) sono state sottoposte a regole sempre più stringenti. Così, tra trattati e patti europei, e vincoli aggiuntivi imposti dalla scelta dei paesi di rinunciare alla sovranità monetaria, piuttosto che realizzare quei principi l’Europa li ha traditi. L’auspicata convergenza tra le economie del continente, che avrebbe dovuto essere il risultato della creazione di un mercato unico per merci, capitali e servizi, della moneta unica e dell’imposizione di criteri di finanza pubblica uguali per tutti, ha invece generato fratture sempre più profonde tra aree economiche forti e aree in profondissima crisi, generando una crisi sociale sempre più profonda.

Da un lato dunque l’Europa si richiama alla solidarietà e alla giustizia sociale, dall’altro i governi di molti paesi del continente, impoveriti dalle politiche di austerità, impongono la svalutazione del lavoro e la riduzione dei servizi e delle protezioni sociali. Il caso della Grecia rimane emblematico: in un’Europa dove i governi non hanno avuto difficoltà a mobilitare quasi ottomila miliardi di Euro per salvare dalla bancarotta il sistema finanziario, una piccola economia il cui debito totale è meno del 4% della cifra sopra indicata è stata distrutta, tradendo ogni principio di solidarietà. Un’Europa dunque apparentemente basata sul libero mercato, ma che di fatto, improvvisamente, allo scoppio della crisi, è stata capace di realizzare uno strano socialismo che salva le banche fallite e scarica i costi dei salvataggi sui più deboli.

Il dramma che viviamo non è solo legato allo squilibrio tra le affermazioni di principio sulla difesa dei diritti sociali e una gestione dell’economia che ha impoverito mezzo continente. Il fallimento dell’Europa è anche il fallimento di quelle forze della sinistra che sul progetto di integrazione hanno giocato la loro identità. La scomparsa quasi ovunque di quei partiti socialisti e socialdemocratici che hanno rappresentato la sinistra storica in Europa, infatti, non può essere analizzata al di fuori di questo contesto. Eppure, se la scommessa dell’integrazione è stata perduta, da ciò non segue che l’uscita da questo modello di gestione dell’economia passi per la disintegrazione dell’Europa stessa. Su questo ogni scorciatoia è illusoria e ogni semplificazione pericolosa. Anzitutto una nuova crisi causata dall’abbandono disordinato della moneta unica, o dal ripudio del debito da parte di un paese, rischia di peggiorare ulteriormente le condizioni materiali dei ceti meno protetti. Gli altri, certamente, troveranno qualche Junker o qualche paradiso fiscale in grado di proteggerli. In secondo luogo esiste ormai una dimensione globale dell’economia che non può essere regolata su base nazionale: si pensi alla tassazione dei movimenti finanziari (la Tobin Tax), all’adozione di schemi fiscali in grado di controllare l’elusione e l’evasione fiscale delle grandi multinazionali, alla tassazione delle imprese della rete e alle norme per il rispetto della privacy, fino agli scontri sulle regole del commercio mondiale, sono temi questi dove le possibilità di incidere di un singolo paese sono ridottissime. Il fatto poi che nei documenti europei i principi di solidarietà e di giustizia sociale vengano riaffermati, indica comunque la presenza di una tradizione storica non ancora cancellata.

Dove indirizzare dunque l’azione politica? Oggi le forze della sinistra che vorrebbero un’inversione di tendenza appaiono divise tra chi chiede maggiore integrazione e chi invece ritiene che la strada sia quella del recupero pieno della sovranità nazionale. I piani sui quali si gioca il governo delle nostre società sono però talmente intrecciati che difficilmente può essere tracciata una netta distinzione di questa natura. È certo che l’insoddisfazione verso questa Europa ormai è così diffusa che la soluzione di problemi sociali urgenti non può essere rinviata al momento in cui sarà realizzata più democrazia in Europa. La strada pertanto non può essere questa. Il potere degli stati nazionali – che peraltro sono gli spazi dall’interno dei quali si sono potuti affermare democrazia e diritti sociali – va esercitato in un’ottica che sia di solidarietà tra i popoli, di difesa dei diritti dei più deboli e di utilizzo della sovranità statale affinché sui temi dove è necessaria un’azione europea le scelte siano in una direzione opposta a quella perseguita finora.

La disintegrazione, con il fallimento completo del progetto europeo, sarebbe disastrosa per tutti. Peraltro questo è il rischio che corre un’Europa irrigidita nei suoi dogmi di gestione dell’economia. In opposizione a chi difende un’integrazione basata sui mercati, sulla finanza e sull’assenza di democrazia, vanno recuperati quei principi sociali che hanno caratterizzato lo sviluppo civile del nostro continente. Il processo di integrazione come si è svolto finora si è mostrato fallimentare e produrrà altre crisi e ulteriore instabilità. La forza politica affinché l’Europa possa essere l’Europa dei popoli è tutta da costruire.

giovedì 12 aprile 2018

left, n. 14, 6 aprile 2018

Quando la corda si spezza

Le morti sul lavoro costituiscono solo l’aspetto più tragico di un modo di concepire l’economia e la società che non pone al centro l’essere umano bensì la ricerca del profitto. E la logica capitalistica non si ferma a questo ma vuole ottenere il massimo nelle condizioni date 

di Andrea Ventura


Omicidio bianco, si diceva una volta, dizione analoga a “lupara bianca”, in uso per alcuni omicidi mafiosi. Il termine “bianco”, in entrambi i casi, indica la mancanza di qualcosa: nel primo di un’intenzione omicida, nel secondo del cadavere. Oggi quella dizione sembra essere in disuso, venendo sostituita con la più neutra “morti bianche”. Non si tratterebbe di omicidi quindi, ma di morti, la cui causa non va attribuita all’azione violenta di qualcuno, ma al mancato rispetto delle norme di sicurezza o alla disattenzione degli stessi lavoratori. Ci poniamo un problema: è corretto evitare l’uso del termine omicidio per una morte sul lavoro, oppure l’abbandono di quella terminologia indica un cedimento? La parola omicidio, in effetti, porta con sé l’idea che vi sia un responsabile, e che l’assassino debba essere perseguito come tale. La questione è sottile in quanto l’incidente sul lavoro non è intenzionale, essendo molto spesso la conseguenza di un insieme di sfortunate coincidenze difficilmente attribuibili a qualcuno in modo specifico.

Eppure, ad un’analisi più attenta del fenomeno, le aree e i fattori di rischio possono essere individuati con precisione. Anzitutto l’agricoltura e l’edilizia contano circa la metà dei casi di decessi sul lavoro: la causa diretta degli incidenti è in grandissima parte rintracciabile nella scarsa sicurezza dei mezzi e nel mancato rispetto delle misure di sicurezza. Altri fattori che si associano alle morti sul lavoro sono l’età avanzata, la condizione di immigrato, l’assenza del sindacato, il sistema degli appalti, la precarizzazione, la parcellizzazione delle funzioni e la riduzione dei diritti. I fattori sopra ricordati si accavallano tra loro, cosicché le figure a rischio sono ben delineate. Le statistiche, vale ricordarlo, dopo alcuni anni di declino, hanno mostrato nel 2017 un aumento delle morti bianche rispetto all’anno precedente: secondo alcuni commentatori il calo precedentemente registrato fu associato anche alla riduzione della domanda di lavoro, mentre il brutto dato dell’anno appena trascorso sarebbe causato dalla lieve ripresa in atto. Il 2018 non sembra promettere meglio.

Ora, posto che si possano facilmente individuare quali condizioni accompagnino i rischi di infortunio e di decesso, rimane da chiedersi come mai, nel 2017, circa mille lavoratori siano morti per il lavoro. Duole dirlo, ma la ragione ultima è la pressione che il sistema economico esercita sui lavoratori. È infatti ovvio che la ricerca della riduzione dei costi, l’aumento della precarietà, le richieste di più intense prestazioni produttive, lo spettro del licenziamento, le difficoltà economiche degli stessi lavoratori in proprio e delle piccolissime imprese che ottengono sub appalti, siano tutti fattori che aumentano lo stress ed espongono i soggetti più fragili al rischio di incidenti anche mortali. Le morti sul lavoro dunque costituiscono soltanto l’esito più tragico di un modo di concepire l’economia e la società che non pone al centro l’essere umano ma la ricerca del profitto.

Il profitto dunque: parola tanto usata ma poco esaminata. Ogni imprenditore cerca di trarre profitto dalla propria attività economica, ma non si tratta solo di questo. La logica capitalistica non cerca solo il profitto, ma vuole ottenere il massimo profitto nelle condizioni date. La violenza che questa logica esercita sulla società è persistente, perché queste condizioni date non sono statiche, quasi dipendessero dalle tecniche e dai vincoli della natura, ma sono continuamente modificate a vantaggio di questa o quella forza sociale. Il mercato stesso è un’istituzione complessa che funziona solo dopo che sono state prese alcune decisioni collettive riguardanti i diritti di proprietà, quali oggetti possano o non possano essere scambiati liberamente, i limiti e le condizioni all’impiego di lavoro, le tutele dei beni materiali (dell’ambiente ad esempio) e delle persone, le responsabilità, i controlli e le sanzioni per chi quelle tutele non rispetta. La logica del profitto, nella società di oggi, identifica la ricerca dell’efficienza non all’interno di questi vincoli, ma alterando a proprio vantaggio i vincoli stessi. In questa spinta verso l’alterazione dei vincoli e delle regole a vantaggio delle classi dominanti, la teoria economica, in particolare il neoliberismo, è uno strumento fondamentale. Come può essere facilmente ricostruito, infatti, questa teoria indica come necessità per migliorare le prestazioni dei sistemi economici la riduzione di vincoli e tutele, considerando questi come atti arbitrari, artificiali, contrapposti alla naturalità del mercato e delle libere scelte individuali.  Ma nel rapporto tra chi ha bisogno di lavorare e chi è nella condizione di impiegare qualcuno, non si può parlare di “libertà”. Quel rapporto, infatti, non è mai paritario: il primo, pur non avendo alcun obbligo legale, è costretto a lavorare per vivere, mentre il secondo può ben scegliere di rifiutare la sua richiesta di impiego senza gran danno. La classe lavoratrice, fin dall’alba dell’industrializzazione, ha cercato di dotarsi di organizzazioni collettive, proprio perché comprendeva bene che in assenza di esse il lavoratore isolato, davanti al datore di lavoro, è in una condizione di schiacciante inferiorità. L’inno attuale alla flessibilità e la crescente precarietà contrastano dunque con tutta la storia delle rivendicazioni del movimento operaio, creando fratture sempre più profonde tra chi è riuscito bene o male a difendere alcuni diritti fondamentali, e chi li ha perduti definitivamente.

Ora, tornando al quesito iniziale, se è pur vero che la dizione “morti bianche” potrebbe apparire più consona di quella “omicidio bianco”, va considerato che è invece quest’ultima a definire con più precisione il dramma di cui stiamo discutendo. Omicidio bianco dunque. Chiarendo che oggi esso non è più associato alla condizione del lavoro nella grande fabbrica - dove il fenomeno è circoscritto, essendo i lavoratori sindacalizzati (almeno in Occidente) sotto questo profilo abbastanza protetti - ma è causato da meccanismi sociali che sembrano sfuggire ad ogni controllo. La responsabilità di quegli omicidi non è tanto di un “padrone” avido di profitto e ben individuabile, ma di un sistema sociale subalterno al liberismo sfrenato, i cui meccanismi di dominio sono molto più nascosti e difficili da contrastare.

lunedì 19 marzo 2018

left n. 10, 9 marzo 2018

La sinistra nel vuoto di pensiero

I gruppi dirigenti della sinistra non sono stati capaci di elaborare un pensiero politico nuovo. Gli ex comunisti del Pd, pur di arrivare al governo, hanno cercato l’alleanza con la Chiesa e i centri di potere neoliberisti responsabili della crisi.

di Andrea Ventura


Le elezioni del 4 marzo hanno lasciato un paese traumatizzato e forse ingovernabile: Partito democratico ai minimi storici; centro-destra a trazione leghista; exploit del Movimento 5 Stelle. Il terremoto politico che ha travolto il paese è la conseguenza del terremoto sociale che ha investito le classi popolari a causa delle politiche di austerità. Dieci anni di crisi lasciano il segno: impoverito e deluso, l’elettorato si è rivolto a quelle forze che sdegnosamente vengono definite come “populiste” o antisistema, e al Movimento 5 Stelle in particolare.

Populisti dunque. Ma proprio da questa parola possiamo partire per comprendere ciò che è successo. Quando le forze politiche della sinistra, che nelle lotte e nelle conquiste sociali del Novecento hanno la loro origine e traggono la loro ragion d’essere, abbandonano quei riferimenti per volgersi a servire ristrettissime élite economiche e finanziarie, è ovvio che lasciano una prateria al cosiddetto “populismo”. Perché esse diverranno così, certo, affidabili e responsabili agli occhi di quel sistema di potere, ma saranno ritenute irresponsabili da quella parte della popolazione che subisce le politiche di austerità. Di qui la loro sconfitta senza appello.Indubbiamente il potere di cui dispongono le oligarchie nazionali e internazionali è immenso e mette paura: esse si impongono tramite il controllo di giornali e mezzi di comunicazione, il finanziamento della politica, l’occupazione delle funzioni statali, degli organismi internazionali e di tutti i centri di potere, anche di quelli espressione della democrazia. Perfino l’andamento dell’economia e i movimenti della finanza, come mostra il caso della Grecia, possono essere usati come arma di controllo sociale. Eppure, se da queste elezioni possiamo trarre una lezione, è che queste oligarchie non sono onnipotenti: anzi, il fatto che queste forze abbiamo combattuto la loro battaglia all’insegna della demonizzazione del Movimento 5 Stelle, e che questa demonizzazione abbia avuto l’effetto di gonfiare i loro consensi, indica che la loro presa sulla società vacilla. Il crollo dei due partiti che definivano gli assetti politici del paese (Pd e Fi) è dunque anche la sconfitta di questo sistema di potere nel suo insieme. In particolare hanno subito uno smacco quei mezzi d’informazione che, abbandonando la loro funzione appunto informativa, si sono piegati ad essere strumenti di disinformazione. È in atto in sostanza un processo denso di rischi, ma anche di opportunità, che è mosso dalla necessità di un profondo cambiamento e che non può essere arrestato da furbizie o tattiche di corto respiro. Questo processo ha travolto anche le forze della sinistra tradizionale: per esse, la scelta di servire quelle oligarchie è stata una scelta suicida. Infatti, di fonte all’urgenza di un cambiamento, non è a loro che l’elettore si è rivolto.

Ricordare tutto questo è necessario, ma non è sufficiente. Il misero risultato della nova formazione Liberi e Uguali accompagna infatti la sconfitta del Partito Democratico. È dunque l’intero gruppo dirigente della “sinistra” che è stato sconfessato dai propri elettori. Il fatto che questa classe dirigente, da essere strumento per l’emancipazione delle classi popolari si sia da tempo volta al servizio delle élite, non può essere cancellato da ripensamenti dell’ultimo momento. Le radici di questo disastro, più che nella contingenza e nei limiti di questo o quell’esponente politico, vanno pertanto ricercate in un percorso storico, indubbiamente drammatico, che ha le sue radici nell’incapacità dei dirigenti del vecchio Partito comunista di elaborare un pensiero politico in grado di superare la sconfitta del comunismo e proporre una nuova visione per il progresso sociale e civile del paese. Il frettoloso abbandono, nel 1991, del nome Partito comunista, le nuove e inconsistenti denominazioni (dapprima Partito democratico della sinistra, poi Democratici di sinistra, infine Partito democratico) tradiscono il vuoto di pensiero di un gruppo dirigente che, per giungere al governo del paese, non ha saputo far meglio che agganciarsi a strutture di potere in sfacelo: la chiesa cattolica, con la scelta di formare un partito unico con gli ex democristiani; i centri di potere economico e finanziario responsabili della crisi, con la fedeltà all’ideologia neoliberista. L’era di Renzi va dunque vista in continuità con le scelte politiche degli ex comunisti. In quest’ultimo periodo abbiamo assistito alla chiusura dello storico quotidiano l’Unità, al tentativo di liquidare definitivamente la famiglia politica degli ex comunisti (che li ha condotti alla scissione), come anche a decisioni quali l’abolizione di quel che restava dell’articolo 18: quest’ultima scelta, in particolare, è indicativa sia della definitiva recisione del legame tra il partito e le forze del movimento operaio, sia della fedeltà ai dogmi del neoliberismo. Tutto questo è molto di più di un errore politico di cui Renzi sarebbe il responsabile: è l’estrema conseguenza del percorso politico iniziato almeno con lo scioglimento del PCI. Una scissione pre-elettorale non può certo invertire dinamiche storiche di questa portata.

Indubbiamente, già da tempo, il pensiero politico della sinistra (ampiamente ispirato al marxismo) aveva mostrato i suoi limiti. Al centro di quel pensiero vi era l’idea che per una completa realizzazione umana i bisogni materiali di tutti dovessero essere soddisfatti; ma cosa c’è oltre la soddisfazione dei bisogni? L’elaborazione del fallimento del comunismo nei paesi dell’Est, come anche il consolidamento delle conquiste materiali nell’Occidente capitalistico, avrebbero richiesto una ricerca teorica che i dirigenti comunisti di allora non ebbero l’intelligenza di affrontare. Abbandonare le proprie radici, piuttosto che rinnovarle, ha dunque condotto agli esiti devastanti che oggi osserviamo. È certamente necessaria, ovunque e senza incertezze, la difesa di quelle fasce di popolazione gettate nell’insicurezza materiale e attaccate nei loro diritti dalle politiche di austerità. Oltre i bisogni vi è la realizzazione delle esigenze: senza un nuovo pensiero sulla società e sugli esseri umani, e senza una ricerca su ciò che fa star bene o fa star male le persone oltre il soddisfacimento dei bisogni di base, nessuna sinistra, potrà mai essere ricostruita.

venerdì 9 febbraio 2018

left n. 5, 2 febbraio 2018

Potere del neoliberismo: il lavoro rende poveri

La tanto esaltata, dal governo a guida Pd, riduzione del tasso di disoccupazione non dice nulla sul prezzo pagato dalla classe lavoratrice nel suo insieme, in termini di precarietà e di contrazione dei diritti, a causa delle politiche del lavoro culminate nel job act

di Andrea Ventura


Mentre governo e mezzi di comunicazione sbandierano come grande risultato delle politiche di questi anni la recente riduzione del tasso di disoccupazione, da circa un anno il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi (come anche il Fondo Monetario Internazionale) lamenta che i salari dei lavoratori non crescono abbastanza. Ma è proprio vero che la crisi occupazionale è in via di superamento? E per quale motivo il governatore della Bce, il cui mandato è il controllo dei prezzi, si preoccupa perché i salari dei lavoratori non crescono a sufficienza? La risposta a queste domande può aiutarci ad illustrare alcuni aspetti di quel ginepraio di contraddizioni che caratterizza l’attuale governo dell’economia.

A Draghi e all’aristocrazia finanziaria che lo sostiene non è mai importato alcunché delle condizioni di vita dei lavoratori. La teoria economica a cui fanno riferimento, il neoliberismo, è un’arma usata dalle classi dirigenti capitalistiche per distruggere le conquiste politiche, economiche e sociali dei lavoratori: se oligarchie sempre più ristrette continuano ad arricchirsi, e le classi medie e basse si impoveriscono, questo è il risultato della diffusione di quella teoria. Draghi piuttosto, pur seguendo ufficialmente il principio per il quale la moneta emessa dalla Banca centrale determina il livello dei prezzi, sa benissimo esso è un inganno: è interessato alla dinamica dei salari perché quest’ultima influenza i prezzi, e dato che tra gli obiettivi della Bce vi è un tasso di aumento dei prezzi del 2 per cento, se i salari sono fermi quell’obiettivo rimane lontano. Poco conta per tutti quanti noi, ovviamente, se i prezzi aumentano del’1,5 o del 2 per cento l’anno, eppure, ove l’aumento dei prezzi nella zona dell’euro dovesse raggiungere il 2 per cento, Draghi potrebbe affermare che quell’obiettivo a lungo inseguito è stato raggiunto. Questa però rimarrebbe solo la copertura di un fallimento pratico e teorico, che non cancella la sproporzione tra l’enorme quantità di moneta messa in circolazione dalla Bce in questi ultimi sei anni, e i risultati conseguiti in termini di crescita del Pil e, appunto, di aumento dei prezzi: quel 2 per cento, infatti, ora si avvicina, ora si allontana, mostrando che il rapporto tra le politiche monetarie della Bce e il livello dei prezzi è simile a quello tra la danza di uno stregone e l’attivo della pioggia.

La seconda questione da mettere in evidenza riguarda i presunti successi dei nostri governanti per la riduzione del tasso di disoccupazione: riduzione davvero lieve, di circa l’1,5 per cento negli ultimi tre anni, che mantiene quel tasso ancora superiore all’11 per cento. Va chiarito che, purtroppo, solo molto alla lontana il tasso di disoccupazione è un indicatore delle condizioni effettive del mercato del lavoro. La linea divisoria tra chi è occupato e chi non lo è, infatti, non è per nulla definita. Come è noto, il mondo del lavoro è popolato da posizioni estremamente diversificate: chi lavora poche ore, chi ha un posto stabile e sicuro, chi vive nella precarietà o sotto il ricatto del licenziamento etc. Ora, venendo alla definizione di occupato, secondo le statistiche dell’ISTAT sono considerati tali tutti coloro che “nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in natura”, oppure “hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente”. 

La definizione è nota, ma non si riflette abbastanza su di essa: se aiuto un amico per un trasloco in cambio di una pizza, o di un invito a cena, sarei “occupato”, così come lo è un ragazzo che, privo di ogni prospettiva occupazionale, ha passato, nella settimana di riferimento per la statistica, un’ora ad aiutare il padre nel negozietto di famiglia. Ovviamente sono “occupati” anche operai con contratti a tempo indeterminato, professori, professionisti, dirigenti, banchieri lautamente retribuiti. Il punto è che la tanto sbandierata riduzione del tasso di disoccupazione non ci dice nulla sul prezzo pagato dalla classe lavoratrice nel suo insieme, in termini di precarietà e di contrazione dei diritti, a causa delle politiche del lavoro degli ultimi anni, culminate nel job act. E infatti, pur essendo vero che il numero di occupati è tornato ai livelli del 2008, cioè di prima della crisi, da allora il “lavoro” ha subito una pesante contrazione: il numero di ore lavorate rimane inferiore a quelle di allora di circa il 7%, e mancano all’appello circa 1 milione e 300 mila posti di lavoro a tempo pieno, sostituiti appunto da lavori e lavoretti a tempo parziale svolti anche da giovani, i cui livelli di qualificazione professionale meriterebbero ben altro utilizzo. Di qui la ragione di quel preoccupante fenomeno per il quale, se un tempo era povero chi non riusciva a trovare lavoro, oggi può esserlo anche chi, tra un impiego mal pagato ed un altro, fatica tutti i giorni senza arrivare alla fine del mese. L’EUROSTAT ha valutato che, con oltre 10 milioni di poveri nel 2016 (quasi il doppio del periodo antecedente allo scoppio della crisi finanziaria), l’Italia è il paese europeo dove la miseria materiale, soprattutto tra i giovani, è numericamente più concentrata.

Anche le condizioni dei lavoratori a tempo indeterminato si sono progressivamente deteriorate: con la definitiva abolizione dell’articolo 18 nel settore privato, che prevedeva il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento non giustificato, nel cuore della classe lavoratrice è ormai presente lo spettro del licenziamento. La forza contrattuale dei lavoratori, anche di quelli più protetti, non è quella di una volta. Privi di tutele, abbandonati da quei partiti che storicamente sostenevano le rivendicazioni popolari, sempre più, in Italia come in Europa, i lavoratori volgono lo sguardo a forze politiche sdegnosamente definite come “populiste”, o di destra.

Precarietà, flessibilità, elevata disoccupazione, indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori: oggi, dopo decenni di neoliberismo, le classi dirigenti si preoccupano del logoramento del loro consenso, o della mancata crescita dei salari dei lavoratori. Quest’ultima ha anche effetti sulla crescita. Con l’impoverimento della massa della popolazione, infatti, si riduce la domanda di merci per le imprese, e la crescita del Pil rimane stentata anche per questo. Le politiche economiche neoliberiste, in sostanza, hanno alterato profondamente i rapporti di potere tra le classi sociali, distrutto la possibilità dei governi europei di sostenere la domanda e gli investimenti pubblici tramite la spesa, imposto sacrifici ed austerità. Governi e organismi internazionali talvolta rivendicano successi inesistenti, talaltra si lamentano della scarsa dinamica dei salari e della crescita insufficiente dei prezzi, o del Pil. È come se, dopo aver messo alla fame qualcuno, ci si preoccupasse perché non ha energie sufficienti per lavorare. Il pensiero economico dominante è sconnesso e dissociato, e non si vede alcuna prospettiva per una reale inversione di tendenza.

giovedì 11 gennaio 2018

left, n. 1, 6 gennaio 2018

Nell’illusione di libertà del ’68 i semi del liberismo

Nessuna sinistra può rinascere evitando di affrontare la domanda su come la libertà e l’uguaglianza possano comporsi senza che l’una distrugga l’altra. La risposta richiede una ricerca sull’identità umana su basi completamente diverse da quelle del passato.

di Andrea Ventura

Abbiamo un sogno. Lontano dall'incollare pezzi della vecchia sinistra attaccati al potere, la nuova formazione politica "Liberi e uguali” parte da queste due parole per ricostruire l’identità di una nuova aggregazione politica. La sorte di queste parole, infatti, definisce la frattura storica della sinistra degli anni '70, accompagna il suo declino, e segna le sue sconfitte: dunque la ricerca sulla possibilità di una loro composizione è il presupposto per qualsiasi programma politico di sinistra che possa avere qualche possibilità di successo.

La libertà fu rivendicata con forza dai movimenti giovanili del '68 e degli anni '70: libertà da qualsiasi forma di potere, rifiuto dell’autoritarismo nelle scuole e nelle università, libertà sessuale, ma anche purtroppo libertà nell’uso e nell'abuso di sostanze stupefacenti, nel suicidio, in una sessualità troppo spesso priva di affetti. Questa libertà, rivendicata da un’intera generazione in tutto l’Occidente, era una libertà priva di ogni altra qualificazione: e sebbene abbia condotto a conquiste civili importantissime, demolendo culture autoritarie portando ad enormi passi avanti nella parità tra uomini e donne, si è anche accompagnata ad una filosofia che teorizzava la fine del soggetto e il nulla radicale come condizione connaturata all'essere umano. Heidegger, Foucault, Derrida, Althusser e tanti altri, insomma un’intera cultura politica e filosofica ha considerato la libertà umana come aperta a qualsiasi esito: anche la malattia mentale era una “libertà”. E allora, perché no, sono coerenti con questa libertà anche l’arricchimento illimitato, la liberalizzazione dei mercati, la critica al “potere” dello Stato nell’economia, l’individualismo esasperato, la legge del più forte. Il capitalismo fa peraltro della "libertà" la sua bandiera ideologica, dunque, sotto diversi aspetti, gli anni '80 - quelli dell'offensiva del capitalismo contro le forze del movimento operaio -, poterono risultare compatibili con quelle rivendicazioni di libertà.

L'uguaglianza, l’altra grande parola che ha segnato tante lotte sociali, negli anni '60 e '70 fu ancorata all’idea delle forze del movimento operaio per la quale era necessaria l'uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni materiali di tutti. Ma il progresso economico, ottenuto in quei decenni anche grazie all'intervento pubblico nell'economia, aveva generato un benessere sconosciuto ad ogni generazione del passato, rendendo meno pressante la questione della soddisfazione dei bisogni materiali. In seguito, con il crollo del comunismo nei paesi dell’Est, è crollata anche ogni prospettiva di superamento del capitalismo. Privi così sia della loro principale giustificazione storica, sia di qualsiasi base teorica, i partiti della sinistra tradizionale scelsero di aderire all’idea che, per il progresso umano, fosse necessario assecondare il dominio del mercato. Il capitalismo poté affermarsi sempre più radicalmente, erodendo le conquiste sociali del novecento.

In sostanza libertà e uguaglianza, la prima rivendicata dai movimenti di contestazione giovanile nati dal '68, la seconda dalle forze tradizionali del movimento operaio, piuttosto che comporsi per la costruzione di una società più evoluta, dapprima si scontrarono duramente, poi lasciarono il campo a quel capitalismo che entrambi avrebbero voluto superare.

Il dominio del capitalismo e dell'ideologia del mercato sull’intera società mostra ormai limiti che è superfluo qui richiamare. Essenzialmente la libertà si è risolta nell'affermazione della legge del mercato, soffocando ogni altra istanza sociale, mentre l’uguaglianza è stata distrutta da disuguaglianze economiche sempre più inaccettabili. Nessuna sinistra può rinascere evitando di affrontare la domanda su come libertà e uguaglianza possano comporsi senza che l'una distrugga l’altra. La risposta a questa domanda, a sua volta, richiede una ricerca sull’identità umana su basi completamente diverse da quelle del passato.

Non vi può essere anzitutto alcun genuino sviluppo della libertà umana se non fondandolo sulla socialità. La libertà, in sostanza, non può essere tale - o meglio non può portare ad alcuna evoluzione sociale - se comprende la libertà di negare o distruggere l’identità altrui. Per una nuova e più evoluta concezione della libertà bisogna perciò scoprire ciò che fonda la naturale socialità umana. È necessario proporre qui un passaggio teorico di notevolissimo rilievo. Il fondamento della socialità va individuato non nella ragione, e tantomeno nella religione, ma in quelle dimensioni non coscienti e non razionali che, se sane, consentono che la libertà di ciascuno sia accresciuta dalla libertà altrui. Questa nuova concezione della libertà deve trovare espressione sul terreno della conoscenza e della cultura (che sono fenomeni largamente legati allo sviluppo sociale complessivo), dell'arte, della sessualità, della vita sociale, dimensioni queste assai lontane dalla ragione e dal calcolo di convenienza, dunque dallo sfruttamento altrui per il proprio arricchimento. 

Affinché questa nuova idea di libertà possa affermarsi, serve l’uguaglianza. L’essere umano deve cioè essere capace di riconoscere istintivamente che, aldilà delle differenze osservabili oggettivamente con i sensi fisici come quelle tra uomo e donna, tra bianchi e neri, aldilà delle differenze linguistiche e culturali, l’altro essere umano è un nostro simile e non un nemico da opprimere o respingere, o un oggetto materiale da sfruttare. Va sviluppata perciò un ricerca nuova sul mondo del non cosciente, sulla realtà dei primi mesi di vita di dell'essere umano (dove non vi sono ragione e pensiero concettuale ma solo affetti e sensibilità), e sulle condizioni in cui questa realtà non cosciente possa smarrirsi, alterarsi, oppure possa svilupparsi nella vita in società. L'uguaglianza potrà allora accompagnarsi alla libertà, e non scontrarsi con essa. Ricostruire il collettivo dunque, ricostruire la socialità, superare l’idea neoliberista per la quale la società non esiste ma esistono solo i singoli individui, ricomporre uguaglianza e libertà, per pervenire ad una “fraternità” che non sia quella della religione cattolica. Quest'ultima, infatti, offre la carità ma nega l'uguaglianza, affermando che le donne non sono uguali agli uomini perché più lontane da dio, che i non battezzati sono diversi dai battezzati perché corrotti dal peccato originale, e che gli uomini virtuosi saranno liberi nella comunanza con dio, dopo la morte, quando l'anima si sarà liberata dai vincoli del corpo.

L'acronimo di Left comprende anche la T della trasformazione, indicando, oltre al titolo della rubrica che ospitava i contributi teorici di Massimo Fagioli, la possibilità della trasformazione umana e di un nuovo ciclo di sviluppo sociale. Il nostro settimanale, è nato e si è affermato grazie a questa teoria, ed è aperto verso tutti coloro che sono disposti a lavorare affinché il sogno della rinascita della sinistra a partire dalle storiche rivendicazioni di libertà e di uguaglianza, diventi una realtà.

In assenza di una cultura politica adeguata all’attuale fase storica, "Liberi e Uguali" rischia di ripercorrere strade fallimentari. Nessuna genuina libertà, lontana da quella di sfruttare e opprimere il prossimo, e nessuna vera uguaglianza, possono affermarsi senza un pensiero sugli esseri umani e sui loro rapporti reciproci radicalmente diverso da quello del passato.