giovedì 20 aprile 2017

left n. 8, 3 marzo 2017


L'origine naturale dell'uguaglianza
Ernesto Longobardi e Andrea Ventura

Negli sviluppi delle società a capitalismo maturo sembra realizzarsi l’assunto fondamentale del neoliberismo - che ha trovato la massima espressione nella teoria economica di Milton Friedman e nelle politiche di Ronald Reagan e di Margareth Thatcher - secondo il quale “non esiste la società, ma solo i singoli individui”. Si assiste, infatti, allo sgretolarsi di tutti quei legami sociali che consentirono lo sviluppo civile del secolo passato, e in ogni campo prevalgono frammentazione, isolamento, ricerca delle soluzioni ai problemi della vita sul piano individuale, in assenza di ogni legame relazionale. Il dibattito politico è anch’esso pervaso da fenomeni di concorrenza e contrapposizione, che hanno soppiantato il confronto e la dialettica. Anche quando, nella migliore delle ipotesi, la politica si orienta verso la ricerca di buone soluzioni sul piano tecnico e amministrativo, l’esito risulta alla fine compromesso dalla mancanza di ogni idea sulla collettività cui le politiche dovrebbero rivolgersi. Il fenomeno ha corroso dall’interno le stesse forze di sinistra, che una volta affondavano le proprie radici nel terreno della socialità e dell’uguaglianza. Gruppi e partiti sono infatti lacerati, a sinistra, da divisioni che si consumano dietro singole personalità politiche, mentre manca ciò che dovrebbe conferire un senso alla politica, cioè il confronto tra visioni, idee, programmi.

L’eredità più pesante del neoliberismo è questa diffusa perdita di consapevolezza della centralità della socialità, che ha reso peraltro possibili le devastanti politiche economiche poste in essere in questi anni. Ma è, al contempo, la più bruciante sconfitta dell’idea di socialismo. Questa parola, infatti, secondo Franco Venturi, nasce alla metà del Settecento e deriva dal termine latino socialitas, dunque porta in sé il richiamo alla natura sociale dell’essere umano e alla possibilità di costruire una società basata, appunto, sulla naturale socialità umana.

L’attuale stato di cose è il risultato delle sconfitte di portata storica subite dalle forze del movimento operaio. Esso, oltre che sul piano storico e politico, va indagato nei suoi aspetti antropologici e culturali. La questione fondamentale è se davvero l’uomo sia, per sua natura, un essere sociale. Se la risposta è positiva, allora le storiche rivendicazioni di uguaglianza e di giustizia troverebbero una loro ragion d’essere, oltre il calcolo di convenienza di questo o di quel gruppo sociale. La necessità è dunque individuare in che cosa consista esattamente la natura sociale dell’essere umano. Massimo Fagioli ha fornito una risposta precisa a questa domanda, e l’ha fatto guardando dove nessuno aveva mai guardato: la dinamica della nascita dell’essere umano e la formazione della realtà psichica.Riprendiamo le sue parole dal penultimo articolo scritto per Left (n. 5/2017): 

“E la parola pulsione indica un fenomeno assurdo e paradossale perché simultaneamente alla realizzazione dell’indifferenza nei confronti del mondo non umano, realizza la memoria della sensazione del contatto della pelle del feto con il liquido amniotico che fa la sapienza senza parola che è 'la certezza dell’esistenza di un altro essere umano'. Certezza che non è pensiero verbale ma che è … essere”. 

L’essere umano è dunque per natura essere sociale, perché, nella dinamica che fa seguito alla nascita, trova la certezza dell’esistenza di un essere umano simile a sé stesso: egli, venendo al mondo, non vede, ma sa e sente tale esistenza. La scoperta investe, evidentemente, in primo luogo, la psichiatria, ma, a ben vedere, sovverte anche le basi teoriche e metodologiche delle scienze sociali e si costituisce come insostituibile premessa di ogni tentativo di costruire una teoria e una pratica politica. Finora, nella storia del pensiero umano, si è sempre cercato il fondamento della socialità e dell’eguaglianza su basi logico-razionali o su principi astratti o etici: Dio, l’imperativo kantiano, il contratto sociale (con le varie formulazioni della teoria della scelta razionale sotto il velo di ignoranza), la comunanza dei bisogni fondamentali. Anche in Marx, le forze che dovranno produrre l’emancipazione umana e la costruzione di una società di eguali sono forgiate all’interno della materialità dei rapporti di produzione capitalistici che generano la contrapposizione tra capitale e lavoro. Nessuno aveva finora pensato, come ha fatto Fagioli, a un’origine naturale, non culturale, dell’uguaglianza tra gli esseri umani.
Per Fagioli, in particolare, il fondamento della socialità e dell’uguaglianza sta in una dimensione non cosciente, che ha la sua matrice nella nascita e che consente di riconoscere l’altro come simile a sé stessi. Fondamentale, per lo sviluppo, risulta poi la risposta dell’altro, la donna, che si può costituire come conferma della speranza-certezza dell’esistenza dell’altro simile a sé stessi, oppure, all’opposto, come delusione che genererà anaffettività e scissione. Nell’essere umano adulto, dunque, la consapevolezza profonda, la certezza interiore dell’eguaglianza tra gli esseri umani, al di là di ogni differenza di natura somatica, culturale e sociale, diventa un tratto distintivo di una realtà psichica sana, mentre l’odio per il diverso e il razzismo risultano un sintomo di malattia mentale. Ne discende l’assoluta centralità, nello sviluppo umano, del rapporto donna/bambino che, di nuovo, sovverte una cultura millenaria che considera la donna un essere inferiore, un mero strumento per la riproduzione della specie. E di qui, ancora, si pone la necessità di un rapporto uomo-donna che non neghi la donna e la sua capacità di rispondere alle esigenze evolutive e di conoscenza del bambino e non solo alla soddisfazione dei suoi bisogni. La donna è il futuro dell’uomo: una cultura che distrugge la donna, distrugge, insieme, il proprio futuro.
Si dirà che, sul piano delle scienze sociali e della politica, la rottura antropologica prodotta dalla teoria di Massimo Fagioli, non è sufficiente per rispondere ai giganteschi problemi che abbiamo oggi di fronte. E’ certamente vero, ma è altrettanto vero che si tratta di un imprescindibile punto di partenza. In particolare, sul piano della politica, si pone, con assoluta evidenza la necessità di costruire un progetto che risulti coerente, nel suo insieme, con questi presupposti scientifici, si tratti delle questioni economiche, oppure di quelle di giustizia sociale, o ancora dei diritti civili, o del ruolo della donna (come ha bene messo in evidenza di recente Simona Maggiorelli nel suo Le battaglie culturali di Left. E un sogno: far incontrare sinistra e ricerca,). Una prospettiva politica che aspiri a risultare vincente sul piano culturale non può essere concepita per comparti stagni o addirittura in contrasto gli uni con gli altri, come quando si valorizza il papa per le sue aperture a istanze di giustizia sociale, dimenticando che il pensiero cristiano (da Paolo di Tarso in poi) continua a considerare la donna un essere inferiore e a condannare la sessualità che non sia esclusivamente finalizzata alla procreazione.
A un progetto politico con tali caratteristiche deve necessariamente corrispondere un nuovo soggetto politico al cui interno, secondo l’intuizione di Gramsci dei Quaderni, valgano rapporti fondati “su un’etica di gruppo che deve essere concepita come capace di diventare norma di condotta di tutta l’umanità”: non certo quanto offre il desolante spettacolo della sinistra di oggi.
Una nuova soggettività politica è anche necessaria per rifondare l’economia. E’ ora di tornare a capire quanto gli antichi maestri ben sapevano, che l’economia non la fanno i professori e i tecnici, ma i soggetti politici, che l’economia è dialettica e scontro, non l’esito di astratti modelli di comportamento razionale. L’ultima grande stagione di politica economica, quella keynesiana, poggiava su ben riconoscibili soggetti di massa e sul pieno riconoscimento della socialità, anche come conflitto.
Necessità dunque, da un lato, della politica per fare economia, e, dall’altro, di dirigenti politici che sentano come esigenza il rapporto sociale: la grande eredità dei dirigenti politici comunisti che vivevano in piena empatia con i soggetti sociali, un’eredità tutta da recuperare, perché ora, con il PD, appare inesorabilmente dispersa.