La teoria economica ha fallito.
Ecco perché
Incapaci
di prevedere la crisi del 2008, gli economisti neoclassici, che da trent’anni
dettano legge, sbagliano metodo. Lo sostiene il fisico teorico Francesco Sylos
Labini
Andrea Ventura
Quando
la regina Elisabetta, nel novembre 2008, chiese ad alcuni professori della
London School of Economics come mai non avevano previsto la crisi appena
scoppiata, l’economia aveva appena ricevuto la migliore valutazione accademica tra
tutte le discipline del Regno Unito. Quanto al dibattito che ne è seguito,
Robert Lucas, premio Nobel e fondatore della moderna macroeconomia, che solo
qualche anno prima aveva affermato che “il problema della prevenzione della
depressione, per tutti gli scopi pratici è ormai stato risolto”, sviluppò un
contorto ragionamento secondo il quale la crisi non era stata prevista perché
secondo la teoria economica certi eventi non possono essere previsti. Come può sussistere
un contrasto così stridente tra l’effettiva capacità di una disciplina di
interpretare la realtà e il prestigio di quella stessa disciplina
nell’accademia e nell’opinione pubblica? Come mai, a distanza di otto anni, si
ricorre ancora a quella teoria per superare questa perdurante fase di crisi?
È
attorno a queste domande che scorre uno dei percorsi di ricerca del volume di
Francesco Sylos Labini, Rischio e
previsione. Cosa può dirci la scienza, appena pubblicato per i tipi della
Laterza. Le discipline economiche, ci ricorda Sylos Labini, si sono sempre
caratterizzate per la presenza di diverse scuole di pensiero, ciascuna delle
quali si associava a differenti concezioni della storia, della società e della
politica. Purtroppo, negli ultimi trent’anni, tra di esse ha preso il sopravvento
la teoria economica neoclassica. Difficile dare pienamente conto del perché una
scuola di pensiero, nata nella seconda metà dell’800 e accompagnata, fin dai
suoi esordi, da critiche assai fondate, sia oggi il principale se non unico
riferimento per accademici, politici e tecnici. Alcune di queste ragioni
possono essere rintracciate nel fatto che, sul piano metodologico, essa è
riuscita a presentarsi come interprete dei successi ottenuti in quel secolo dalla
fisica newtoniana, imitandone la struttura e il metodo. Da qui scaturiscono i
caratteri fondamentali di questa teoria: la riduzione del soggetto ad atomo
isolato sul mercato (individualismo metodologico), l’idea della tendenza
all’equilibrio tra forze (interessi) contrapposti, l’eliminazione dal campo
della teoria pura di qualsiasi problematica non trattabile matematicamente. In
sostanza, è nella scelta metodologica la ragione ultima della devastante
emarginazione dall’economia neoclassica di tutti quei temi – culturali, storici,
giuridici, connessi alla giustizia sociale – che nel moto dei pianeti non
trovano alcun corrispettivo.
Questo
nucleo teorico ha affermato la propria egemonia culturale avvalendosi anche di
operazioni propagandistiche ai limiti della truffa. La vicenda del cosiddetto “premio
Nobel” in economia è particolarmente istruttiva. Alfred Nobel, inventore della
dinamite, non voleva che il suo nome restasse associato a uno strumento di
distruzione, dunque con i suoi ingenti guadagni istituì un fondo per premiare
chi si fosse reso utile all’umanità nei campi della fisica, della chimica, della
medicina, della letteratura e per la pace. Nel 1969 la Banca di Svezia, per
dare all’economia il prestigio e la visibilità connessi all’assegnazione di un
premio di così gande successo, istituì un “premio in Scienze economiche in
memoria di Alfred Nobel” con fondi che non hanno nulla a che vedere con
quest’ultimo. Recentemente, come ricorda Sylos Labini, Peter Nobel, avvocato e
discendente di Alfred Nobel, ha dichiarato che “quello che è accaduto è un
esempio senza precedenti di violazione di un marchio di successo”.
Sostenuta
dunque da un potente apparato propagandistico e da un’immensa disponibilità di risorse
private e pubbliche, piuttosto che rendere un servizio utile all’umanità, l’economia
neoclassica è riuscita in questi ultimi anni a trasformare una crisi nata nella
finanza privata in una crisi causata dall’eccessiva generosità delle
retribuzioni e del welfare. Di qui i colpi alla scuola, all’università, al
lavoro, e quelle politiche di austerità che stanno devastando gran parte del
continente europeo.
Eppure,
lungi dal seguire quelle prescrizioni, quale debba essere la strada per il
progresso e il benessere sembra evidente: in una società in continua evoluzione
scientifica e tecnologica, dove la competitività dei sistemi produttivi è
sempre più legata alla capacità delle imprese di innovare, la centralità dello
sforzo pubblico per l’istruzione e la ricerca non dovrebbe neanche essere
oggetto di discussione. Assistiamo invece all’assurdo di un ex presidente del
consiglio, Silvio Berlusconi, che esprimendo un modo di pensare assi diffuso
tra le nostre classi dirigenti, affermò: “Perché dobbiamo pagare uno scienziato
quando facciamo le scarpe più belle del mondo?”. In sintonia con altri paesi
dell’Europa meridionale, l’Italia rischia così di compromettere per generazioni
il proprio futuro. Non solo, ma l’assegnazione dei fondi per la ricerca segue
criteri che nulla hanno a che vedere con la qualità di quest’ultima: l’analisi
impietosa di Sylos Labini dello stato delle discipline economiche e del modo in
cui l’economia dominante impedisce lo sviluppo di programmi di ricerca
alternativi, non è isolata. Troviamo qui un secondo pregio del volume: emergono
con chiarezza i limiti di una concezione della formazione che trascura la
ricerca di base per quella applicata e, per distribuire i fonti e valutare studenti,
docenti e ricercatori, si affida a improbabili indicatori di tipo quantitativo.
L’Autore – che è anche co-fondatore e redattore di Roars.it, brillante rivista dedita proprio a discutere dei temi
connessi alla ricerca – ci illustra bene quale sorte avrebbero avuto oggi Wittgenstein,
Frege, Semmelweis; lo stesso Einstein, il quale fu escluso dall’accademia e
trovò posto all’ufficio brevetti di Berna, alla luce dei criteri oggi vigenti per
le pubblicazioni scientifiche, nel 1905 si sarebbe visto rifiutare l’articolo
in cui espone la teoria della relatività ristretta.
In
sostanza, la credenza nel fatto che tutto ciò che ha un valore debba avere una
misura quantitativa, che troviamo in economia, investe anche cultura e ricerca.
Il metodo neoliberista si costituisce dunque come simbolo di un modo di pensare
agli esseri umani e alla società che rischia di inaridire le fonti principali del
nostro progresso sociale e civile.