martedì 12 gennaio 2016

left 50, 24 dicembre 2015

False teorie, amenità ed economia

Dal debito pubblico alle politiche fiscali, fino al concetto di spreco: l’informazione economica è piena di errori. Lo spiega bene il libro Economia e luoghi comuni a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani

Andrea Ventura

Secondo la cosiddetta teoria quantitativa della moneta vi sarebbe un legame diretto tra quantità di moneta e livello dei prezzi. Quest’idea, dopo decenni di dominio delle teorie neoliberiste, è diventata uno dei luoghi comuni più diffusi, ma è un vero mistero come possa sopravvivere a dispetto dei fatti: da anni la BCE inonda i mercati di liquidità, quasi settimanalmente Mario Draghi tuona e minaccia ulteriori stimoli monetari, eppure i prezzi in Europa non accennano a salire. Dell’inconsistenza teorica di quel legame, Draghi, che fu allievo di Federico Caffè quando l’economia si studiava seriamente, dovrebbe essere ben consapevole, ma si guarda bene dal denunciarlo essendo governatore di una Banca Centrale che quel luogo comune ha nel suo atto costitutivo.
L’informazione economica, purtroppo, è caratterizzata da simili amenità. Queste, ripetute all’infinito, assumono la veste di verità provate, e bene a fatto la casa editrice l’Asino d’oro a pubblicare questo prezioso volume (Economia e luoghi comuni. Convenzione, retorica, riti, a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani) dove appunto si procede alla demolizione di una serie di luoghi comuni attorno ai quali ruota l’informazione economica.
Il filo conduttore del libro è costituito dai temi della finanza pubblica. Com’è spiegato nel saggio di Aldo Barba e Giancarlo De Vivo che apre il volume, la trasposizione dei princìpi di sana gestione dei conti di famiglia all’economia come un tutto, dunque ai bilanci pubblici, non ha alcun fondamento. Piuttosto che insistere sul fatto che il debito pubblico vada ridotto, con altrettanta legittimità, infatti, si potrebbe affermare che deve diminuire la ricchezza finanziaria privata, essendo l’uno lo specchio dell’altra, cosa che l’informazione economica, solo per fare un esempio, si guarda bene dal rilevare. Inoltre, proprio per le caratteristiche dei rapporti finanziari e per gli effetti macroeconomici della spesa statale in deficit, la categoria dello “spreco” per il pubblico non ha la stessa valenza che per il privato. Lo spreco peraltro, come ricordano Guglielmo Forges Davanzati e Gabriella Paulì nel loro saggio, è un concetto culturalmente e storicamente determinato, dunque per nulla neutrale: per Keynes, spreco era l’esistenza della disoccupazione, che politiche di bilancio in deficit possono riassorbire, oppure per un ambientalista lo sono l’inquinamento e il consumo di risorse non rinnovabili. Parlare di “spreco” nella spesa della pubblica amministrazione senza altra qualificazione, come troppo spesso si fa, è dunque insensato, ma l’abuso di quella dizione è funzionale a definite politiche di contenimento della spesa. Come si mostra nel volume, queste non solo hanno colpito i meno abbienti, ma hanno anche prodotto un peggioramento della qualità dei servizi pubblici, della ricerca scientifica (universitaria in particolare), e aggravato i divari regionali.
Consegue a questa impostazione di ricerca la critica serrata portata dal saggio di Vittorio Daniele alla cosiddetta “austerità espansiva”, di cui si ricostruisce la fragilità teorica e il devastante effetto pratico. Altri contributi affrontano il tema delle politiche di consolidamento fiscale attuate in Europa, la vuota retorica della trasparenza fiscale, il luogo comune del Mezzogiorno come zavorra d’Italia, le liberalizzazioni bancarie.
I saggi di Amedeo Di Maio e Ugo Marani sono dedicati a un tema che forse è a monte di tutti gli altri. Viene infatti ricostruito l’intreccio tra ragioni politiche, storiche e teoriche che ha portato all’attuale costituzione economica europea, sia sul piano, appunto, delle regole fiscali, sia su quello delle politiche monetarie. Stridente appare peraltro il contrasto tra l’affermazione per la quale, in omaggio a quella falsa teoria per la quale la quantità di moneta ha effetto sul livello dei prezzi, la Banca centrale dovrebbe avere un ruolo tecnico, dunque essere sottratta al controllo politico, e il contenuto di quella famosa lettera che nell’estate del 2011 il governatore della BCE inviava al governo italiano, dove con dovizia di particolari s’indicavano precise linee di politica economica quali privatizzazioni, liberalizzazioni, interventi su pensioni, servizi, professioni, mercato del lavoro ecc.
 La demolizione dei luoghi comuni e la ricostruzione di un pensiero economico onesto e coerente sono oggi essenziali, ma non è questa la direzione in cui si muove la professione. Com’è rilevato nel volume, è proprio la teoria economica a fornire una spiegazione per questa reticenza. Essa è nella teoria della “cattura”, cioè in quella tesi per la quale i portatori di un interesse pubblico possono facilmente essere catturati dal sistema di potere che dovrebbero contrastare: in quanto uomini economici, schiavi cioè della loro stessa visione antropologica, troppi economisti dunque, piuttosto che essere difensori della verità, trovano conveniente diventare funzionali ai gruppi d’interesse dominanti che esprimono una domanda d’idee a essi congeniale.
Purtroppo non è in questione solo l’onesta intellettuale di un gruppo di studiosi, la qualità dell’informazione offerta all’opinione pubblica o la validità di una struttura di pensiero: il dibattito economico, infatti, ha ripercussioni su funzionamento stesso delle nostre democrazie perché contribuisce ad alterare o chiarire quali sono le scelte effettivamente praticabili per la collettività. Peraltro le classi dirigenti europee appaiono esse stesse vittime di presupposti teorici falsi e incoerenti, mentre le forze di opposizione faticano a ricostruirsi attorno ad un discorso economico, ma al fondo antropologico, alternativo a quello dominante. Così il futuro della civiltà europea appare a rischio come poche volte lo è stato nella storia.

Come è rammentato nel volume, Albert Einstein affermò che è più facile disintegrare un atomo di un luogo comune. Eppure oggi questo sforzo è sempre più necessario. 

left 49, 19 dicembre 2015

Quattro piccole banche e la crisi di un sistema

Andrea Ventura

La società non esiste, esistono solo i singoli individui, afferma il motto degli anni ottanta. Ciascuno è il miglior giudice delle proprie scelte, afferma un principio cardine della teoria economica. Bene, è qui che dobbiamo cercare le ragioni ultime dei drammi personali legati al fallimento delle quattro banche locali. In omaggio a questi principi, infatti, ciascuno di noi quotidianamente è costretto a fare delle scelte senza avere piena consapevolezza delle loro conseguenze: firmiamo clausole indecifrabili quando stipuliamo contratti di fornitura di servizi, compiamo operazioni bancarie, acquistiamo una carta di credito; ci è chiesto il consenso alle pratiche mediche, all’installazione degli aggiornamenti sui nostri dispositivi elettronici, all’uso dei cookies per navigare. Non potendo essere informati su tutto, nella gran parte dei casi accettiamo e basta seguendo l’avviso di chi quel consenso ci chiede; dovremmo altrimenti avere un paio di avvocati sempre a nostra disposizione.

I danni subiti dai risparmiatori delle banche fallite rientrano in questo contesto. Le banche, infatti, operano in pieno conflitto d’interessi e questo conflitto, nelle condizioni attuali, è del tutto insuperabile. Proprio per tutelare il risparmio, a seguito della crisi del 1929 gli Stati Uniti e altri paesi industrializzati adottarono delle disposizioni in conseguenza delle quali le banche d’affari, che effettuavano operazioni più rischiose, furono separate dalle banche  commerciali. Queste ultime raccoglievano il risparmio, effettuavano prestiti alla piccola clientela ed erano sotto lo stretto controllo della Banca centrale. Oggi, a seguito dei processi di deregolamentazione, questa distinzione è sparita e ogni banca può spaziare in ogni tipo di investimento, cosicché è suo interesse indirizzare i fondi dei propri clienti verso operazioni più redditizie ma anche a maggior rischio. La radice di questo e di tanti altri problemi è qui, per cui, come spesso accade, il piccolo investitore è spinto ad assumere rischi non nel suo interesse, ma in quello della banca.

La crisi della quattro piccole banche, inoltre, riassume sotto diversi profili alcuni mali specifici del nostro sistema economico: oltre al conflitto d’interessi di cui si è detto, abbiamo una cattiva gestione dei fondi e una rete di rapporti poco chiari con la politica. Infine siamo di fronte ad una crisi senza precedenti nel tessuto produttivo locale: se un’area economica entra in crisi, i prestiti effettuati dalle banche alle imprese diventano inesigibili e le banche stesse, in particolare quelle legate al territorio, rischiano l’insolvenza. Anche da qui nasce il fallimento dei quattro istituti.


Problemi per certi versi simili furono alla base della crisi americana del 2007-2008. Quella statunitense colpì il capitalismo occidentale al suo centro e ne paghiamo ancora le conseguenze. Questa è scoppiata alla periferia del nostro paese e non è chiaro quanto possa essere circoscritta. In entrambi i casi le ragioni vanno ricercate nella crisi di un modello di società dove il cittadino è ridotto a consumatore, il mercato non è un luogo di scambio ma un principio ordinatore della società nel suo complesso, e la tutela pubblica è stata sostituita da una cultura privatistica delle “regole” sempre più inadeguata a fornire una tutela effettiva. I singoli individui, che quel motto degli anni ottanta voleva valorizzare, sono così preda della legge del più …furbo. Non s’intravede alcuna inversione di tendenza.