False teorie, amenità ed economia
Dal debito pubblico alle politiche
fiscali, fino al concetto di spreco: l’informazione economica è piena di
errori. Lo spiega bene il libro Economia
e luoghi comuni a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani
Andrea Ventura
Secondo
la cosiddetta teoria quantitativa della moneta vi sarebbe un legame diretto tra
quantità di moneta e livello dei prezzi. Quest’idea, dopo decenni di dominio
delle teorie neoliberiste, è diventata uno dei luoghi comuni più diffusi, ma è
un vero mistero come possa sopravvivere a dispetto dei fatti: da anni la BCE
inonda i mercati di liquidità, quasi settimanalmente Mario Draghi tuona e
minaccia ulteriori stimoli monetari, eppure i prezzi in Europa non accennano a
salire. Dell’inconsistenza teorica di quel legame, Draghi, che fu allievo di
Federico Caffè quando l’economia si studiava seriamente, dovrebbe essere ben
consapevole, ma si guarda bene dal denunciarlo essendo governatore di una Banca
Centrale che quel luogo comune ha nel suo atto costitutivo.
L’informazione
economica, purtroppo, è caratterizzata da simili amenità. Queste, ripetute
all’infinito, assumono la veste di verità provate, e bene a fatto la casa
editrice l’Asino d’oro a pubblicare questo prezioso volume (Economia e luoghi comuni. Convenzione,
retorica, riti, a cura di Amedeo Di Maio e Ugo Marani) dove appunto si
procede alla demolizione di una serie di luoghi comuni attorno ai quali ruota
l’informazione economica.
Il
filo conduttore del libro è costituito dai temi della finanza pubblica. Com’è
spiegato nel saggio di Aldo Barba e Giancarlo De Vivo che apre il volume, la
trasposizione dei princìpi di sana gestione dei conti di famiglia all’economia
come un tutto, dunque ai bilanci pubblici, non ha alcun fondamento. Piuttosto
che insistere sul fatto che il debito pubblico vada ridotto, con altrettanta
legittimità, infatti, si potrebbe affermare che deve diminuire la ricchezza finanziaria
privata, essendo l’uno lo specchio dell’altra, cosa che l’informazione
economica, solo per fare un esempio, si guarda bene dal rilevare. Inoltre, proprio
per le caratteristiche dei rapporti finanziari e per gli effetti macroeconomici
della spesa statale in deficit, la categoria dello “spreco” per il pubblico non
ha la stessa valenza che per il privato. Lo spreco peraltro, come ricordano Guglielmo
Forges Davanzati e Gabriella Paulì nel loro saggio, è un concetto culturalmente
e storicamente determinato, dunque per nulla neutrale: per Keynes, spreco era
l’esistenza della disoccupazione, che politiche di bilancio in deficit possono
riassorbire, oppure per un ambientalista lo sono l’inquinamento e il consumo di
risorse non rinnovabili. Parlare di “spreco” nella spesa della pubblica
amministrazione senza altra qualificazione, come troppo spesso si fa, è dunque insensato,
ma l’abuso di quella dizione è funzionale a definite politiche di contenimento
della spesa. Come si mostra nel volume, queste non solo hanno colpito i meno
abbienti, ma hanno anche prodotto un peggioramento della qualità dei servizi
pubblici, della ricerca scientifica (universitaria in particolare), e aggravato
i divari regionali.
Consegue
a questa impostazione di ricerca la critica serrata portata dal saggio di Vittorio
Daniele alla cosiddetta “austerità espansiva”, di cui si ricostruisce la
fragilità teorica e il devastante effetto pratico. Altri contributi affrontano
il tema delle politiche di consolidamento fiscale attuate in Europa, la vuota
retorica della trasparenza fiscale, il luogo comune del Mezzogiorno come
zavorra d’Italia, le liberalizzazioni bancarie.
I
saggi di Amedeo Di Maio e Ugo Marani sono dedicati a un tema che forse è a
monte di tutti gli altri. Viene infatti ricostruito l’intreccio tra ragioni
politiche, storiche e teoriche che ha portato all’attuale costituzione
economica europea, sia sul piano, appunto, delle regole fiscali, sia su quello
delle politiche monetarie. Stridente appare peraltro il contrasto tra
l’affermazione per la quale, in omaggio a quella falsa teoria per la quale la quantità
di moneta ha effetto sul livello dei prezzi, la Banca centrale dovrebbe avere
un ruolo tecnico, dunque essere sottratta al controllo politico, e il contenuto
di quella famosa lettera che nell’estate del 2011 il governatore della BCE inviava
al governo italiano, dove con dovizia di particolari s’indicavano precise linee
di politica economica quali privatizzazioni, liberalizzazioni, interventi su
pensioni, servizi, professioni, mercato del lavoro ecc.
La demolizione dei luoghi comuni e la
ricostruzione di un pensiero economico onesto e coerente sono oggi essenziali,
ma non è questa la direzione in cui si muove la professione. Com’è rilevato nel
volume, è proprio la teoria economica a fornire una spiegazione per questa
reticenza. Essa è nella teoria della “cattura”, cioè in quella tesi per la
quale i portatori di un interesse pubblico possono facilmente essere catturati
dal sistema di potere che dovrebbero contrastare: in quanto uomini economici, schiavi
cioè della loro stessa visione antropologica, troppi economisti dunque,
piuttosto che essere difensori della verità, trovano conveniente diventare
funzionali ai gruppi d’interesse dominanti che esprimono una domanda d’idee a
essi congeniale.
Purtroppo
non è in questione solo l’onesta intellettuale di un gruppo di studiosi, la
qualità dell’informazione offerta all’opinione pubblica o la validità di una
struttura di pensiero: il dibattito economico, infatti, ha ripercussioni su
funzionamento stesso delle nostre democrazie perché contribuisce ad alterare o
chiarire quali sono le scelte effettivamente praticabili per la collettività. Peraltro
le classi dirigenti europee appaiono esse stesse vittime di presupposti teorici
falsi e incoerenti, mentre le forze di opposizione faticano a ricostruirsi
attorno ad un discorso economico, ma al fondo antropologico, alternativo a
quello dominante. Così il futuro della civiltà europea appare a rischio come
poche volte lo è stato nella storia.
Come
è rammentato nel volume, Albert Einstein affermò che è più facile disintegrare
un atomo di un luogo comune. Eppure oggi questo sforzo è sempre più necessario.