Il neoliberismo non è scienza, è politica. Anzi teologia
Questa teoria concepisce "uomini economici" che cercano sempre di massimizzare il proprio utile. Perchè gli economisti dovrebbero uscire da questo schema
Questa teoria concepisce "uomini economici" che cercano sempre di massimizzare il proprio utile. Perchè gli economisti dovrebbero uscire da questo schema
Andrea Ventura
L’idea che troviamo alla base della teoria economica dominante è che
gli uomini sono come degli atomi mossi dalla spinta alla massimizzazione della
propria utilità. In questa teoria il mercato non è visto come un’istituzione la
quale, assieme ad altre, concorre a determinare il funzionamento dei nostri
sistemi sociali, ma costituisce il nesso sociale fondamentale. Sul mercato,
infatti, il conflitto tra gli interessi economici individuali si trasformerebbe
in un armonico ordine sociale e ciascuno sarebbe in grado di compiere le
proprie scelte in piena libertà. Privatizzazioni, liberalizzazioni, riduzione
del ruolo pubblico nell’economia, flessibilità del lavoro, sono politiche che
discendono tutte da un unico presupposto: per il benessere umano è necessario
ampliare i mercati ed eliminare ogni ostacolo loro funzionamento. Questa è
l’essenza del neoliberismo.
Prima della crisi del 2008 si poteva ancora pensare che questa teoria,
per quanto errata, facesse parte della scienza. I critici di essa si
concentravano principalmente sulla sua scarsa coerenza logica e sulla sua
difformità rispetto all’esperienza storica; i sostenitori ponevano invece l’accento
sul carattere formale e matematicamente strutturato delle sue proposizioni.
Diffusa era comunque la considerazione secondo la quale, a differenza delle
scienze della natura, per gli economisti fosse impossibile compiere degli
esperimenti di laboratorio e verificare anche per questa via la validità delle
diverse strutture di pensiero. Dopo quella data, dopo i disastri provocati da
politiche economiche ispirate alle stesse idee che quella crisi hanno generato,
si sente dire spesso che abbiamo assistito a qualcosa di simile a un
esperimento controllato: con esso sarebbe stato definitivamente dimostrato che
la teoria economica dominante non funziona. Certo, se si continua a guardare a
essa come teoria scientifica, assistiamo a un indubbio fallimento. Il fatto è
che invece il neoliberismo è una teoria politica, o meglio una teologia, e come
tale sembra ancora funzionare. A esso, infatti, continuano a ispirarsi partiti,
governi, istituzioni pubbliche nazionali e internazionali; è sulla base di
questa teoria che sono formulate politiche pubbliche e riforme istituzionali. In
altri termini la teoria economica neoliberista non serve a spiegare la realtà,
come può essere una scienza della natura. Essa svolge invece funzioni di
controllo sociale e di dominio, sia appunto per le politiche che propone, sia
per la cultura economicista che contribuisce a diffondere. Se poi così facendo
si generano miseria, crisi e disgregazione sociale, è sempre a essa che si
ricorre per trovare soluzioni, magari suggerendo che le politiche indicate non
sono state applicate in modo abbastanza radicale.
Gli uomini, dice questa teoria, sono uomini economici, dunque cercano
sempre di massimizzare il proprio utile. Perché gli economisti dovrebbero
uscire da questo schema di comportamento? Abbiamo qui un vero e proprio corto
circuito: il sostegno teorico alle tesi neoliberiste e il perseguimento del
proprio tornaconto personale diventano guida al pensiero e all’azione di troppi
economisti. Essi si trovano dunque perfettamente a proprio agio nel sostenere politiche
funzionali ai gruppi di potere dominanti. Al contempo, l’impoverimento del
settore pubblico e la crescente concentrazione della ricchezza in mani private rendono
l’intera produzione scientifica e culturale sempre più dipendente dagli
interessi di gruppi e fondazioni che operano sulla base di un orizzonte
privatistico. Urge costruire su nuove basi antropologiche e culturali
un’opposizione che sia in grado di spezzare questa soffocante TINA, “there is
no alternative”, che la teoria dominante propone ma che l’esperienza storica
non ha mai confermato.