martedì 24 gennaio 2017

left n. 1, 13 gennaio 2017

Perché il Pil deve crescere all'infinito?

di Andrea Ventura


In un celebre discorso del 1968, Robert Kennedy si pronunciava più o meno in questi termini: Il Pil aumenta con la produzione di napalm, missili e testate nucleari e non fa che crescere ancora quando sulle rovine si ricostruiscono i bassifondi popolari; non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei momenti di svago. Non comprende la bellezza della poesia, la solidità dei valori familiari o l'intelligenza dei nostri discorsi. Il Pil non misura né la nostra intelligenza, né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né la nostra conoscenza, né la nostra compassione, né la devozione al nostro paese. In poche parole il Pil misura tutto eccetto ciò che rende la vita realmente degna di essere vissuta”

Molta acqua da allora è passata sotto i ponti, eppure, nonostante quelle critiche siano diventate forse senso comune e sia ormai più facile trovare critici che sostenitori del Pil, esso continua a rappresentare il principale riferimento per le prestazioni di un’economia. Il motivo delle critiche è facilmente comprensibile. Quel numero non ci dice come la ricchezza è distribuita, quanto degrado ambientale genera, non è in grado di misurare le prestazioni del settore pubblico e utilizza i prezzi come indicatore del valore dei beni per i consumatori: per paradosso, ad esempio, se l’acqua che beviamo dai nostri rubinetti diviene inquinata e siamo costretti a lavorare un po' di più per comprare acqua minerale, il Pil aumenta. Tutto ciò ormai è abbastanza noto. 
Così, nel tentativo di superarlo - o almeno di affiancare al Pil qualche misura della soddisfazione di bisogni concretamente identificati - in Italia, nel 2014, la Commissione ISTAT-CNEL, istituì un progetto per il “Benessere equo e sostenibile” (Bes), progetto che individua 12 domini di benessere (salute, istruzione e formazione, lavoro e tempi della vita, benessere economico, relazioni sociali, politica e istituzioni, sicurezza, benessere soggettivo, paesaggio e cultura, ambiente, ricerca e innovazione, qualità dei servizi) e 124 indicatori. Da allora i rapporti annuali sul Bes ci forniscono preziose indicazioni su come ciascun indicatore si evolve, come si differenzia tra le varie aree del paese e quali siano gli elementi di criticità per la popolazione. 

Nonostante l’interesse di queste ricerche, e più in generale nonostante l’ampia letteratura critica nei confronti del Pil, troppi commentatori, governanti ed economisti continuano a bombardare l’opinione pubblica con notizie sul Pil e previsioni infondate su quella che sarà la sua crescita. Non solo, ma questa o quella politica - dalla flessibilità del lavoro al debito pubblico, dalle politiche monetarie al TTIP -, è proposta come buona o cattiva in funzione di quanto potrà far crescere il Pil. È necessario interrogarsi pertanto sullo scarto tra l’insensatezza di quell’indicatore e la pressione che tutti costoro esercitano affinché l’intera società sia subordinata alla crescita esponenziale del Pil. Sì, perché di questo si tratta: non di far crescere il Pil per raggiungere un livello di produzione in grado di assicurare la soddisfazione di bisogni e servizi di base, ma di farlo crescere all’infinito, ad un tasso più alto possibile, senza che ci si interessi di cosa quella produzione distrugga e di come i benefici della sua crescita siano distribuiti tra la popolazione. Perché dunque?

Diverse possono essere le risposte: il debito pubblico pesa di più sui cittadini se il loro Pil non cresce; oppure lo sviluppo tecnologico espelle sempre forza lavoro dalle fabbriche, pertanto affinché la disoccupazione non cresca deve crescere il prodotto complessivo; i servizi costano, quindi un Pil crescente garantisce che quei dodici domini di benessere possano più facilmente essere soddisfatti. Queste e altre risposte indubbiamente colgono elementi di verità, ma non dicono tutto. In fondo altre strade più dirette per affrontare quei problemi possono essere trovate. Non solo, ma indirizzare risorse pubbliche per rispondere a problemi specifici (occupazione, istruzione, servizi, ambiente, cultura) potrebbe anche far crescere il Pil, mentre la crescita del Pil, di per sé, non è la soluzione di nulla. Dunque ancora, perché? 

Una risposta può essere trovata nel fatto che indirizzare le politiche pubbliche verso la soluzione di problemi specifici significa mettere la politica prima del mercato, cioè abbandonare i dogmi del neoliberismo. In secondo luogo, e più a fondo, in un sistema capitalistico il fine è quello di ottenere il massimo tasso di profitto monetario dall’attività finanziaria o produttiva. Il capitale, infatti, non ha un obiettivo definito, ma deve crescere su se stesso al tasso più alto possibile. È la logica dell’interesse composto: 100, 110, 121, 133, 146 se il tasso di crescita è il 10%, di meno o di più se è più basso o più alto. Al di là del valore specifico che il tasso di profitto può avere, la crescita esponenziale del reddito assorbito dall’attività capitalistica prima o poi impoverisce la società nel suo insieme se il tasso di crescita complessivo dell’economia non è almeno altrettanto elevato. 
Tensioni sociali e crisi pertanto possono accompagnare un’economia guidata dalla logica del profitto ove non vi sia una crescita sostenuta del valore monetario della produzione. Insomma, è come se le nostre economie fossero governate da un mostro, o forse da una macchina, il cui unico obiettivo è divorare una fetta sempre crescente di una torta, il Pil, senza che a lui interessi se quella torta sia buona o cattiva, né se producendola si avveleni il mondo e con esso tutti quanti noi. 

Purtroppo, a detta di diversi studiosi, i tassi di crescita che il Pil ha avuto nel passato furono legati a fenomeni difficilmente ripetibili. La crescita esponenziale della produzione, infatti, ha accompagnato il passaggio dall’agricoltura all’industria, la diffusione dei consumi di massa, la costruzione delle infrastrutture ecc. Oggi, non essendo in vista un ciclo espansivo di questa natura, anzi, avendo le tecnologie dell’informazione un effetto opposto, è difficile che in futuro si potranno osservare tassi di crescita paragonabili a quelli del passato. Inoltre le politiche economiche neoliberiste seguite in tutto l’occidente impoveriscono quelli che di un maggior reddito avrebbero bisogno, favorendo quelli che invece ne hanno fin troppo. Così, coloro che dovrebbero spendere di più per soddisfare dei bisogni reali sono alle corde, mentre ricchezze sempre crescenti affluiscono verso chi possiede ingenti fortune. La crescita langue anche per questo. 

In breve abbiamo un’economia fondata su una serie di malsani paradossi: il Pil è un indicatore insensato, ma l’economia capitalistica, per la sua logica interna, impone che esso cresca il più possibile. Le politiche economiche assumono come obiettivo finale la crescita del Pil, ma pongono in essere provvedimenti che hanno l’effetto opposto. Si confida che prima o poi la crescita riprenderà a ritmi sostenuti, ma tutto indica che questo sia abbastanza improbabile. Urge un diverso paradigma teorico: affinché tutte quegli studi sul Bes trovino un terreno più solido su cui svilupparsi va anzitutto affrontata in modo nuovo la ricerca sul benessere delle persone; inoltre, in relazione a ciò, deve essere definita una prospettiva di superamento della logica capitalistica e dei criteri di razionalità economica ad essa connessi. Terreni di ricerca, questi, necessari per evitare l’erosione sempre più profonda di tutte quelle conquiste sociali e politiche che sono alla base del benessere di cui ancora godiamo.

left, n. 49, 3 dicembre 2016


E se i poteri forti avessero cambiato idea?

Nel 2013 J. P. Morgan affermò che un maggior potere all'esecutivo è necessario per la stabilità e l'integrazione europea. Ma da allora le cose sono cambiate. Oggi sia il Financial Times che l'Economist bocciano la riforma

di Andrea Ventura

Nel maggio del 2013 la banca d’affari J. P. Morgan ammoniva che le costituzioni di alcuni paesi del Sud dell’Europa, ispirate ai principi del socialismo e scritte sull’onda della caduta del fascismo,    sarebbero di ostacolo all’integrazione europea. Eppure, sempre secondo J. P. Morgan, sia sul piano delle riforme che su quello della finanza pubblica, i progressi di molti di quei paesi – e dell’Italia in particolare – sono stati notevoli: dal fiscal compact alla riduzione delle protezioni sul lavoro, fino controllo della spesa pubblica, la “convergenza” procedeva speditamente. L’ostacolo da rimuovere rimaneva dunque quello politico-costituzionale.
All’inizio di ottobre il Financial Times stroncava la riforma costituzionale di Renzi definendola “un ponte verso il nulla”. La settimana scorsa anche l’Economist si è schierato per il No, sostenendo che un paese come l’Italia, che ha avuto Berlusconi e Mussolini, è meglio che si tenga una costituzione dove i poteri di chi vince le elezioni non siano troppo forti. L’Economist ha poi rivisto le sue posizioni, mentre non sappiamo quale esito auspichi oggi J. P. Morgan per il referendum. Sebbene non sia compito delle banche dettare agende politiche ai governi, tutto questo potrebbe essere significativo. Se nel 2013 J. P. Morgan auspicava un rafforzamento dell’esecutivo mentre oggi il Financial Times e l’Economist ne temono le conseguenze, forse è perché da allora le forze cosiddette “populiste” o antisistema si sono rafforzate. Peraltro questo timore era ben presente nella parte conclusiva del documento di J. P. Morgan: l’avvento al potere in un paese chiave come l’Italia di un partito politico ostile alle élite dominanti avrebbe rappresentato un durissimo colpo al processo d’integrazione dell’Europa all’insegna della finanza.
In effetti, nel referendum che si terrà domani, più che essere in discussione i principi sanciti nella prima parte della nostra costituzione – il diritto al lavoro e ad una retribuzione dignitosa, i limiti al diritto di proprietà, il rifiuto della guerra, principi questi tanto solennemente dichiarati quanto allegramente dimenticati dai nostri governanti –, sono in questione i limiti che il partito uscito vincente dalle urne, anche con una risicata maggioranza relativa, può avere nel governare il paese. Con il Sì e con il No, infatti, gli elettori indirettamente si pronunceranno su quel vergognoso Italicum approvato a colpi di fiducia da un parlamento eletto a sua volta da una legge elettorale, il Porcellum, che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale. L’Italicum assegna ad una minoranza la maggioranza dei deputati alla Camera, eletti senza preferenze e senza controllo democratico nella compilazione delle liste elettorali dei partiti. Se prevale il No, la legge elettorale andrà riscritta in quanto pensata per entrare in vigore assieme alla riforma costituzionale, dove solo la Camera dà la fiducia al governo.In conclusione con il Sì il potere del “capo” esce rafforzato, sia per il controllo che ha sulle liste elettorali del suo partito, sia per la legge elettorale, sia per il rafforzamento dell’esecutivo che queste modifiche costituzionali garantiscono. Un maggior potere dell’esecutivo, affermò nel 2013 J. P. Morgan, è necessario per la stabilità e l’integrazione europea. Ma da allora molte cose sono cambiate. Potrebbe darsi che la vittoria del Sì al referendum, all’opposto, permettendo ad una forza politica antisistema di governare in solitudine, generi ulteriore instabilità in un paese chiave del continente europeo. Forse è questo l’esito che, guardando oltre l’immediato, alcuni già intravedono con preoccupazione.