martedì 24 gennaio 2017

left, n. 49, 3 dicembre 2016


E se i poteri forti avessero cambiato idea?

Nel 2013 J. P. Morgan affermò che un maggior potere all'esecutivo è necessario per la stabilità e l'integrazione europea. Ma da allora le cose sono cambiate. Oggi sia il Financial Times che l'Economist bocciano la riforma

di Andrea Ventura

Nel maggio del 2013 la banca d’affari J. P. Morgan ammoniva che le costituzioni di alcuni paesi del Sud dell’Europa, ispirate ai principi del socialismo e scritte sull’onda della caduta del fascismo,    sarebbero di ostacolo all’integrazione europea. Eppure, sempre secondo J. P. Morgan, sia sul piano delle riforme che su quello della finanza pubblica, i progressi di molti di quei paesi – e dell’Italia in particolare – sono stati notevoli: dal fiscal compact alla riduzione delle protezioni sul lavoro, fino controllo della spesa pubblica, la “convergenza” procedeva speditamente. L’ostacolo da rimuovere rimaneva dunque quello politico-costituzionale.
All’inizio di ottobre il Financial Times stroncava la riforma costituzionale di Renzi definendola “un ponte verso il nulla”. La settimana scorsa anche l’Economist si è schierato per il No, sostenendo che un paese come l’Italia, che ha avuto Berlusconi e Mussolini, è meglio che si tenga una costituzione dove i poteri di chi vince le elezioni non siano troppo forti. L’Economist ha poi rivisto le sue posizioni, mentre non sappiamo quale esito auspichi oggi J. P. Morgan per il referendum. Sebbene non sia compito delle banche dettare agende politiche ai governi, tutto questo potrebbe essere significativo. Se nel 2013 J. P. Morgan auspicava un rafforzamento dell’esecutivo mentre oggi il Financial Times e l’Economist ne temono le conseguenze, forse è perché da allora le forze cosiddette “populiste” o antisistema si sono rafforzate. Peraltro questo timore era ben presente nella parte conclusiva del documento di J. P. Morgan: l’avvento al potere in un paese chiave come l’Italia di un partito politico ostile alle élite dominanti avrebbe rappresentato un durissimo colpo al processo d’integrazione dell’Europa all’insegna della finanza.
In effetti, nel referendum che si terrà domani, più che essere in discussione i principi sanciti nella prima parte della nostra costituzione – il diritto al lavoro e ad una retribuzione dignitosa, i limiti al diritto di proprietà, il rifiuto della guerra, principi questi tanto solennemente dichiarati quanto allegramente dimenticati dai nostri governanti –, sono in questione i limiti che il partito uscito vincente dalle urne, anche con una risicata maggioranza relativa, può avere nel governare il paese. Con il Sì e con il No, infatti, gli elettori indirettamente si pronunceranno su quel vergognoso Italicum approvato a colpi di fiducia da un parlamento eletto a sua volta da una legge elettorale, il Porcellum, che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale. L’Italicum assegna ad una minoranza la maggioranza dei deputati alla Camera, eletti senza preferenze e senza controllo democratico nella compilazione delle liste elettorali dei partiti. Se prevale il No, la legge elettorale andrà riscritta in quanto pensata per entrare in vigore assieme alla riforma costituzionale, dove solo la Camera dà la fiducia al governo.In conclusione con il Sì il potere del “capo” esce rafforzato, sia per il controllo che ha sulle liste elettorali del suo partito, sia per la legge elettorale, sia per il rafforzamento dell’esecutivo che queste modifiche costituzionali garantiscono. Un maggior potere dell’esecutivo, affermò nel 2013 J. P. Morgan, è necessario per la stabilità e l’integrazione europea. Ma da allora molte cose sono cambiate. Potrebbe darsi che la vittoria del Sì al referendum, all’opposto, permettendo ad una forza politica antisistema di governare in solitudine, generi ulteriore instabilità in un paese chiave del continente europeo. Forse è questo l’esito che, guardando oltre l’immediato, alcuni già intravedono con preoccupazione.