E se i poteri forti avessero cambiato idea?
Nel 2013 J. P. Morgan affermò che un maggior potere all'esecutivo è necessario per la stabilità e l'integrazione europea. Ma da allora le cose sono cambiate. Oggi sia il Financial Times che l'Economist bocciano la riforma
di Andrea Ventura
Nel maggio del 2013 la banca
d’affari J. P. Morgan ammoniva che le costituzioni di alcuni paesi
del Sud dell’Europa, ispirate ai principi del socialismo e scritte
sull’onda della caduta del fascismo, sarebbero di ostacolo
all’integrazione europea. Eppure, sempre secondo J. P. Morgan, sia
sul piano delle riforme che su quello della finanza pubblica, i
progressi di molti di quei paesi – e dell’Italia in particolare –
sono stati notevoli: dal fiscal compact alla riduzione delle
protezioni sul lavoro, fino controllo della spesa pubblica, la
“convergenza” procedeva speditamente. L’ostacolo da rimuovere
rimaneva dunque quello politico-costituzionale.
All’inizio di
ottobre il Financial
Times stroncava la
riforma costituzionale di Renzi definendola “un ponte verso il
nulla”. La settimana scorsa anche l’Economist
si è schierato per il
No, sostenendo che un paese come l’Italia, che ha avuto Berlusconi
e Mussolini, è meglio che si tenga una costituzione dove i poteri di
chi vince le elezioni non siano troppo forti. L’Economist
ha poi rivisto le sue posizioni, mentre non sappiamo quale esito
auspichi oggi J. P. Morgan per il referendum. Sebbene non sia compito
delle banche dettare agende politiche ai governi, tutto questo
potrebbe essere significativo. Se nel 2013 J. P. Morgan auspicava un
rafforzamento dell’esecutivo mentre oggi il Financial
Times e l’Economist
ne temono le conseguenze, forse è perché da allora le forze
cosiddette “populiste” o antisistema si sono rafforzate. Peraltro
questo timore era ben presente nella parte conclusiva del documento
di J. P. Morgan: l’avvento al potere in un paese chiave come
l’Italia di un partito politico ostile alle élite dominanti
avrebbe rappresentato un durissimo colpo al processo d’integrazione
dell’Europa all’insegna della finanza.
In effetti, nel referendum
che si terrà domani, più che essere in discussione i principi
sanciti nella prima parte della nostra costituzione – il diritto al
lavoro e ad una retribuzione dignitosa, i limiti al diritto di
proprietà, il rifiuto della guerra, principi questi tanto
solennemente dichiarati quanto allegramente dimenticati dai nostri
governanti –, sono in questione i limiti che il partito uscito
vincente dalle urne, anche con una risicata maggioranza relativa, può
avere nel governare il paese. Con il Sì e con il No, infatti, gli
elettori indirettamente si pronunceranno su quel vergognoso Italicum
approvato a colpi di fiducia da un parlamento eletto a sua volta da
una legge elettorale, il Porcellum,
che la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionale.
L’Italicum
assegna ad una minoranza
la maggioranza dei deputati alla Camera, eletti senza preferenze e
senza controllo democratico nella compilazione delle liste elettorali
dei partiti. Se prevale il No, la legge elettorale andrà riscritta
in quanto pensata per entrare in vigore assieme alla riforma
costituzionale, dove solo la Camera dà la fiducia al governo.In
conclusione con il Sì il potere del “capo” esce rafforzato, sia
per il controllo che ha sulle liste elettorali del suo partito, sia
per la legge elettorale, sia per il rafforzamento dell’esecutivo
che queste modifiche costituzionali garantiscono. Un maggior potere
dell’esecutivo, affermò nel 2013 J. P. Morgan, è necessario per
la stabilità e l’integrazione europea. Ma da allora molte cose
sono cambiate. Potrebbe darsi che la vittoria del Sì al referendum,
all’opposto, permettendo ad una forza politica antisistema di
governare in solitudine, generi ulteriore instabilità in un paese
chiave del continente europeo. Forse è questo l’esito che,
guardando oltre l’immediato, alcuni già intravedono con
preoccupazione.