Il mercato non è un totem e il capitalismo non è eterno
Oggi la convivenza sociale è dominata dal puro interesse economico. Per liberasi da questa oppressione figlia del neoliberismo la sinistra deve rifiutare un'idea pessimistica della natura umana e portare avanti una nuova cultura politica.
di Andrea Ventura
Oggi la convivenza sociale è dominata dal puro interesse economico. Per liberasi da questa oppressione figlia del neoliberismo la sinistra deve rifiutare un'idea pessimistica della natura umana e portare avanti una nuova cultura politica.
di Andrea Ventura
L’impotenza
di quel che resta della gloriosa sinistra del passato
costituisce
solo l’aspetto più superficiale di un dramma storico di vastissime
proporzioni. La sinistra, sia quella
di derivazione dai movimenti del sessantotto, sia quella più legata
alle
forze tradizionali del
movimento operaio, è stata infatti
sconfitta
anzitutto sul piano cultuale, poi sul piano politico e dei rapporti
di forza nella sfera dell’economia. Senza una ricerca sulle ragioni
ultime di questa sconfitta, nessuna inversione di tendenza è
possibile.
L’ideologia
che si è affermata negli ultimi decenni, e
che ha condotto
a questa
sconfitta, è il neoliberismo. Il
neoliberismo, anzi, è penetrato
profondamente all’interno delle forze
della sinistra, rendendole
irriconoscibili, indicando
dunque la
presenza di un
problema assai più
radicale.
Ogni
analisi del
fallimento e
delle
contraddizioni di
quell’ideologia – i
cui sostenitori, ad
esempio,
per
decenni hanno negato
ogni
ruolo attivo dello Stato, ma
dopo
la crisi del 2008 hanno invocato interventi pubblici di portata mai
vista per salvare il mercato dall’autodistruzione –, non
può prescindere dal chiarimento dell’idea
di civiltà di
cui il
neoliberismo è
portatore:
in
assenza di ciò
non si comprende perché quell’ideologia svolga un ruolo così
egemone nella politica odierna. Quest’idea
è molto semplice: il
legame sociale fondamentale è l’interesse economico, dunque
l’ordine
di mercato è l’ordine naturale della società e
solo
a partire da esso
è possibile garantire
progresso
e sicurezza
per tutti.
Abbiamo
qui
pertanto
non un’idea
di regolazione
dei rapporti commerciali,
ma un
principio
per il governo
dell’intera
società; anche
problemi relativi ai rapporti
tra Stati e aree economiche, o
quali siamo i
paesi
da
accettare o da escludere dalla comunità internazionale, vengono
affrontati
a partire dal riferimento al libero mercato.
Il passaggio storico connesso all’affermazione
di questo modello di società
non
è di poco conto. In
precedenza, infatti, il
pensiero politico si basava su di un principio molto
diverso:
era
piuttosto lo Stato che,
assumendo la piena sovranità, con un atto tra l’arbitrio del
sovrano e il “contratto sociale” liberamente sottoscritto dai
cittadini, svolgeva
la funzione di assicurare l’ordine e il rispetto della legge. Le
formulazioni più note di questa tesi sono quelle di Hobbes, Locke
e Rousseau, dove
i cittadini rinunciano allo stato di natura per sottomettersi alla
legge. Ora
invece l’ordine
scaturisce
direttamente dalla
tendenza naturale
degli
individui
a cercare
l’utile
economico. Il
mercato è
perciò esso stesso lo stato di natura per l’uomo, e lo Stato
dovrebbe solo preservarne
il
funzionamento.
Il
tramonto
di
un’idea di Stato
che interviene
nell’economia assicurando,
ad esempio, occupazione, protezione sociale e servizi pubblici,
a
favore di un’idea per la quale invece
protegge
il
mercato, è peraltro il modello di
riferimento dell’Europa
di oggi, ed è superfluo dilungarci
ora sulle sue contraddizioni. Ci
basta osservare quanto, nei fatti, l’Europa odierna oscilli tra la
protezione a livello costituzionale dei principi
del libero
mercato,
e una realtà dove l’intervento statale, e in particolare il ruolo
della Germania, rimangono
decisivi
per il suo funzionamento.
Va
osservato che in
entrambi i casi, cioè
sia che si conti sulla sovranità statale
che sul
mercato, ciò
che
assicura l’ordine della società è
il
predominio
della ragione: nel primo caso
la
ragione solleva
gli uomini dallo stato di natura e sopprime
il
loro istinto
primario alla violenza; nel secondo indirizza le energie
dell’individuo
verso il
tornaconto economico
perché
egli
trova
conveniente
commerciare con gli altri piuttosto che derubarli o muovergli la
guerra. In sostanza, e questo è un punto cardine, la ragione, il
calcolo e
la convenienza, costituiscono la base della convivenza civile.
Quest’ultima
rimane comunque precaria in
quanto nessuno
può
escludere che la convenienza, invece, possa improvvisamente diventare
quella
della
violazione della legge, della
guerra,
o dell’abbattimento
dell’ordine costituito.
Questa “ragione” basata sulla
convenienza economica
è
rappresentata
in
massimo grado nelle
imprese
capitalistiche, che
assumono appunto come propria finalità l’arricchimento
illimitato.
Ormai
però
il
sistema capitalistico, piuttosto che assicurare l’ordine rischia di
condurre la specie umana verso la catastrofe: per la pressione che
esercita sull’ambiente
naturale; perché il
mercato
ha generato uno
sproporzionato arricchimento di ristrette
oligarchie, impoverendo
la
maggioranza e
mettendo
a rischio la coesione sociale; perché
quest’idea di razionalità tradisce ogni idea di giustizia, di
eguaglianza e di socialità anche
nei rapporti tra i popoli.
Il
problema della socializzazione non è dunque affatto risolto. La
sinistra però,
purtroppo,
non ha nessuna idea in proposito e dunque non sa proporre alcuna idea
di socializzazione veramente
alternativa a
da quella basata
sull’arricchimento e l’interesse
materiale.
Il
punto è che una diversa concezione della socialità si scontra con
un presupposto assai consolidato nella cultura dominante. Ci
riferiamo all’idea per la quale
nella
natura dell’essere
umano vi sarebbero
cattiveria, violenza, perversione,
“peccato originale”, e
la
ragione svolgerebbe una funzione decisiva
per il controllo
e il
contenimento di questi istinti naturalmente violenti. È questo dogma
che, al fondo, chiude ogni prospettiva di socializzazione che non sia
quella legata al dominio dell’economia e alla riduzione del
cittadino a consumatore. Tutto
questo ha,
purtroppo, conseguenze ancora più nefaste nella misura in cui
impedisce
ogni ricerca sul perché
gli
esseri umani siano capaci delle
più grandi distruzioni, come
anche dei
più alti atti di generosità,
e
quali siano le
condizioni
che possono favorire un esito piuttosto che un altro.
Antropologia
e psichiatria oggi si
stanno indirizzando verso
percorsi di ricerca molto più
ricchi.
Emerge
infatti da studi
condotti
sotto diverse prospettive che l’essere umano, se
sano,
è naturalmente portato alla socialità e
genuinamente interessato anche alla condizione degli altri esseri
umani con cui entra in rapporto.
La
psichiatria mostra inoltre che il rapporto interumano, fin
da rapporto del neonato con la donna,
è centrale per lo sviluppo dell’identità mentale del
soggetto,
molto più di quanto possa essere il rapporto con gli oggetti
materiali. Superare
la visione
pessimistica sulla
natura umana è
però
solo
un
primo passo, certo
non
sufficiente.
Il secondo è quello
di sviluppare
un’articolata
cultura
politica che sappia collegarsi
a
ciò che fa star bene le persone, e non
si
basi invece su
vere e proprie patologie come quella di cui l’uomo economico
(razionale, autointeressato, che interagisce con gli altri solo sulla
base del calcolo di convenienza) è portatore. Dunque una cultura
politica consapevole
del fatto
che oggi, per lo sviluppo delle nostre società, è necessario
accompagnare
la lotta contro la povertà materiale
con
qualcosa
di più complesso e articolato: lo
sviluppo della cultura,
dell’istruzione,
la
difesa del
bene pubblico, dell’ambiente
e
dei luoghi di socializzazione,
come anche l’educazione sessuale e
la fine di ogni violenza (non solo fisica) nei confronti delle donne.
Fermare
questa assurda tendenza all’arricchimento illimitato e centrare la
politica su una nuova cultura del rapporto interumano dunque, con la
consapevolezza che lo sviluppo delle
nostre società
richiede un modello di civilizzazione interamente diverso da tutti
quelli sperimentati nel passato.