lunedì 20 luglio 2015

left 26, 11 luglio 2015


Questa Europa sciancata

La Comunità ha marciato su due gambe: una economica, l’altra sociale e politica. Le due gambe però, piuttosto che muoversi in modo armonioso, hanno generato un processo del tutto sbilanciato: da un lato la moneta unica, dall’altro i diritti sociali alla sbarra
di Andrea Ventura

“I problemi a cui assistiamo in Europa oggi sono soprattutto il risultato di errori nelle politiche: punizioni per aver scelto sequenze errate (prima l’unione monetaria a cui sarebbe seguita l’unione politica); per aver adottato ragionamenti economici errati (incluso l’aver ignorato la lezione di Keynes e trascurato l’importanza dei servizi pubblici per i popoli europei); per l’autoritarismo nei processi decisionali; per la persistente confusione intellettuale tra riforme e austerità. Niente è più importante oggi in Europa di un lucido riconoscimento di ciò che si rivelato è così manifestamente sbagliato nel realizzare la grande visione di un’Europa unita”. È Amartya Sen che così si esprimeva nel luglio del 2012 sul Guardian, eppure forse solo oggi, per l’evidenza dei rischi di disgregazione che corre l’area dell’Euro, si va diffondendo la consapevolezza dell’urgenza di un serio dibattito su questi nodi fondamentali. È necessario pertanto dare risposta anzitutto ad alcune domande: qual è il denominatore comune che unisce i popoli europei? In che cosa essi si distinguono dagli altri popoli? Le basi del progetto europeo rispettano quello che essi hanno in comune, oppure marcia su un terreno diverso?
Il primo tassello del progetto europeo fu posto nel 1951 con la fondazione della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. La sua motivazione fondamentale fu di dotare i principali paesi europei di un nucleo d’interessi economici comuni che impedisse il rischio di altre devastanti guerre. Di seguito, com’è noto, da un lato l’integrazione economica si è approfondita e allargata a un sempre maggior numero di paesi, dall’altro si è tentato di affiancare a essa un’integrazione sul lato dei diritti sociali e delle procedure politiche. La Comunità ha dunque marciato su due gambe: una economica, l’altra sociale e politica. Le due gambe però, piuttosto che muoversi in modo armonioso, hanno generato un processo del tutto sbilanciato: da un lato l’integrazione economica ha proceduto a grandi passi, fino alla costituzione della moneta unica; dall’altro il riconoscimento sul piano europeo dei diritti sociali, nonostante in una prima fase abbia accompagnato la costituzione del welfare dei singoli paesi, dagli anni novanta ha incontrato resistenze sempre maggiori. Infine i processi di liberalizzazione e finanziarizzazione dell’economia hanno indebolito quegli stati nazionali che storicamente hanno reso possibile appunto l’affermazione dei diritti sociali e politici. Ma si tratta veramente, come afferma Sen, di “errori nelle politiche”, o piuttosto dobbiamo vedere in tutto questo l’affermazione di un progetto di dominio e di controllo sociale nel cui ambito il durissimo scontro tra le Grecia e le istituzioni costituisce l’estrema espressione?

L’idea che l’ordine di mercato non costituisca solo un mezzo per accrescere il benessere di tutti ma sia anche un principio politico, un mezzo per limitare quei poteri statali che tenderebbero al dispotismo e alla dittatura, è espressa in modo chiaro da un autore che da alcuni è considerato l’ispiratore dell’intero progetto europeo: von Hayek. Nella concezione di Hayek, in sostanza, il mercato ha in sé un principio di uguaglianza e un’idea di libertà. Sul mercato, infatti, tutti gli individui sono formalmente uguali e ciascuno ha la possibilità di compiere le proprie scelte senza vincoli esterni o imposizioni di alcun genere; inoltre, essendo il mercato visto come il risultato di un processo spontaneo, l’ordine sociale che impone non contempla che possa esservi un esito ingiusto “poiché non vi è alcun soggetto che possa commettere una tale ingiustizia”. Per fare un esempio, quando nel 2011 il ministro Antonio Martino affermò che scioperare contro la crisi non aveva senso perché era come protestare contro la pioggia, aveva in mente la concezione del mercato di Hayek.
In realtà l’ordine di mercato ha ben poco di spontaneo e richiede invece una serie di regole e la costruzione di una struttura istituzionale che lo protegga. Da qui quell’insieme infinito di criteri, direttive e regolamenti che l’Unione Europea si è data sia per agevolare la libera circolazione delle merci e dei capitali, sia per limitare i poteri d’intervento sull’economia degli stati membri. Così, inseguendo un delirio razionalistico di uniformità e di uguaglianza, paesi con storie, economie e istituzioni diverse sono costretti a uniformarsi a una serie di parametri insensati e talvolta incoerenti tra loro riguardanti l’economia e la finanza pubblica. Il fatto che il cosiddetto “libero mercato” autoregolantesi abbia generato una crisi spaventosa, che le conseguenze estreme della crisi siano state evitate solo grazie ingenti interventi pubblici, che la norma sia costituita non dal rispetto dei criteri ma dalla loro violazione, che le strutture statali si siano indebolite ma la Germania mantenga in pieno la sua sovranità, tutto questo sembra irrilevante: al momento l’attuale sciancata costituzione dell’Europa pare non abbia alternative di sorta.
Ma è proprio vero che il denominatore comune dei popoli europei può essere rintracciato solo nell’adesione ai principi del libero mercato? Vediamo: molti paesi dell’Europa del secondo dopoguerra, dopo la sconfitta del nazifascismo si dotano di Costituzioni dove sono garantiti i principi basilari della democrazia rappresentativa e una serie di diritti politici e sociali. Su questa base nella seconda metà del XX secolo le masse popolari, grazie anche alle loro organizzazioni politiche e sindacali, ottengono l’affermazione di un principio di uguaglianza molto diverso da quello del mercato hayekiano: istruzione, salute, sicurezza sociale non sono più privilegi per pochi ma diventano diritti disponibili per tutti. I paesi facenti parte dell’Unione prima dell’allargamento ad Est del 2004, in varia forma, aderivano tutti a quel modello unico al mondo che è stato chiamato “modello sociale europeo”, mentre per quelli dell’ex blocco comunista la protezione sociale non era certo a loro estranea. È ovvio che un’unione tra popoli avrebbe dovuto essere costruita a partire dagli elementi che essi hanno in comune: quella europea, all’opposto, marcia spedita verso la loro soppressione.
Il disastro cui assistiamo dunque non è dovuto solo alla distruttività del mercato capitalistico lasciato a se stesso, fatto noto da tempo e ben illustrato da Marx, Keynes, Polanyi, Minsky e tanti altri. Il disastro va imputato allo stato comatoso della sinistra storica europea, la quale ha abbandonato la sua ragion d’essere per aderire all’ideologia della parte avversa.  Al di là dello sconcerto per la miseria umana e culturale dei suoi gruppi dirigenti - di cui il vergognoso isolamento subito da Syriza è l’ultima gravissima manifestazione - dobbiamo pensare che un percorso di progresso sociale e civile si è interrotto perché le idee fondamentali che lo sostenevano si sono mostrate insufficienti.  Possiamo proporci una ricerca per la quale è l’idea di uguaglianza basata sul sistema dei bisogni che ha mostrato i suoi limiti e che dunque è stata costretta ad arretrare, lasciando spazio al mercato, o meglio all’antropologia del moderno homo oeconomicus. Si è affermato, in sostanza, l’assurdo pensiero secondo il quale l’uomo realizza se stesso nel possesso degli oggetti materiali, pensiero che si contrappone al senso più profondo della parola socialismo, il quale, nel suo legame con la parola latina socialitas, rinvia invece alla natura sociale dell’essere umano. La socialità presuppone certo la soddisfazione dei bisogni materiali, ma, oltre l’eliminazione della sofferenza del corpo, la sua piena realizzazione avviene appunto sul terreno del rapporto tra esseri umani. Gli uomini sono sì uguali per la dinamica della nascita e nei loro bisogni fisici, ma sono anche molto diversi. Superata la soddisfazione dei bisogni, in sostanza, si apre la grande questione del rapporto con il diverso da sé: il diverso è anzitutto e in modo assolutamente radicale la donna per l’uomo e l’uomo per la donna, ma diverso in senso relativo può anche essere il paese di origine, la cultura, la lingua o la condizione economica. Una nuova consapevolezza della centralità del rapporto con il diverso per l’identità di ciascuno di noi, oltre a consentirci di guardare in altro modo tutti coloro che cercano nell’evoluta Europa una vita migliore, potrebbe favorire il superamento della centralità del mercato, come anche l’abbandono del tentativo di uniformare popoli e stati ad astratti parametri economici, tentativo che in modo un po’ sinistro ricorda l’idea nazista di realizzare la “razza ariana” nella sua purezza: tutti biondi, con gli occhi azzurri…