La
scalata del Monte dei fiaschi
Il
declino della più antica banca italiana è iniziata
nel 2007 in concomitanza della nascita del Partito democratico. A
distanza di dieci anni, gli ex comunisti del Pd hanno ridotto in
macerie il loro centro di potere senese (e toscano) e hanno perso il
partito, consegnandolo agli ex democristiani. Cioè a Renzi
di Andrea Ventura
Sulla
complessa vicenda del Monte dei Paschi di Siena,
contrassegnata da inchieste giudiziarie
e morti sospette, abbiamo alcuni fatti certi, su altri possiamo fare
delle ipotesi, su altri ancora dobbiamo fermarci alle coincidenze ed
essere prudenti su ogni considerazione. Vi sono infine circostanze su
cui il mistero è così fitto da impedirci ogni riflessione.
Non sappiamo anzitutto
cosa abbia spinto il colosso Abn Ambro ad acquistare, nel 2006, una
banca italiana nota già allora per il suo stato disastroso. Eppure
il gruppo olandese scala l’Antonveneta spendendo 7,3 miliardi di
euro. Quando Abn Ambro entra in difficoltà, intervengono tre grandi
banche europee: nel maggio del 2007 lo
spagnolo Santander, la Royal Bank of Scotland e il colosso
belga Fortis acquistano Abn Ambro investendo 71 miliardi. Sono
operazioni che coinvolgono, badate bene, le più grandi banche
europee.
Il Banco di Santander, legato all’Opus Dei, è interessato
al ramo italiano e sudamericano del gruppo olandese, che nel
complesso paga 19 miliardi (di cui 6,6 per Antonveneta). Antonveneta
però è vicina al fallimento, cosicché i dirigenti del Santander
(Botin e Gotti Tedeschi, personaggio di cerniera di tutto l’affare
noto per essere stato dal 2009 al
2012 presidente dello Ior) contattano il Monte dei Paschi di
Siena per verificarne la disponibilità all’acquisto. L’operazione
avviene tra il 2007 e il 2008 e si conclude rapidamente, cosicché il
Santander può, con i soldi ricevuti dal Monte, perfezionare
l’acquisto di Antonveneta girando la cifra incassata ad Abn Ambro.
In sostanza, Mps versa 9 miliardi per una banca - che ha anche più
di 7 miliardi di debiti nei confronti di Abn Ambro, i quali ora sono
a suo carico - che era appena stata acquistata, senza pagarla, per
6,6 miliardi. Abn Ambro, Fortis e la Royal Bank of Scotland
falliscono subito dopo. Santander si salva, forse perché al suo
posto fallisce Mps.
Non è pensabile che operazioni di questa portata
avvengano all’oscuro degli organi di vigilanza nazionali e
internazionali. Più nello specifico, non è pensabile che
l’operazione Mps-Antonveneta non sia stata vagliata dagli organi
stessi, o che questi siano stati tenuti all’oscuro o messi di
fronte al fatto compiuto. E c’è un particolare che merita
attenzione: Mps accetta la condizione imposta dal Santander che
l’Antonveneta venga acquistata senza effettuare la due diligence
cioè senza il controllo dei conti della banca stessa. Cosicché si
trova sul groppone, oltre ai 9 miliardi spesi per l’acquisto, altri
7 miliardi di debiti da onorare. Al tempo il governatore della Banca
d’Italia, cioè dell’istituzione che avrebbe dovuto vigilare
sull’operazione, era Mario Draghi. Quest’ultimo era anche
presidente del Financial Stability Board, massimo organo di controllo
del sistema finanziario internazionale. Capo della vigilanza della
Banca d’Italia era Anna Maria Tarantola, cattolica,
giunta in quella posizione grazie a Draghi nel 2006, mentre
direttore generale era Fabrizio Saccomanni. Tutti personaggi promossi
in seguito ad incarichi assai più prestigiosi. Difficile pensare che
quelle promozioni, come la nomina di Draghi a presidente della Bce,
siano state ottenute per aver vigilato con attenzione sulla
gigantesca operazione.Regista dell’acquisizione di Antonveneta da
parte di Mps è stata dunque la finanza cattolica. In particolare la
banca vicina all’Opus Dei - che solo per aver trasferito una banca
sull’orlo del fallimento, l’Antonveneta, da Abn Ambro al Monte
dei Paschi - ha guadagnato quasi 2 miliardi e mezzo di euro. Forse
anche per questo gli inquirenti sono alla ricerca di una presunta
tangente di oltre un miliardo che potrebbe essere transitata in parte
sui conti dello Ior, conti che, come è noto, risultano quasi del
tutto inaccessibili alle autorità giudiziarie extravaticane.
Quanto
sommariamente qui ricostruito si trova descritto nei dettagli nel
volume di E. Lannutti e F. Fracassi, Morte dei Paschi. Dal
suicidio di David Rossi ai risparmiatori truffati. Ecco chi ha ucciso
la banca di Siena (PaperFirs, 2017), al quale rimandiamo. Veniamo
ora all’aspetto più doloroso della vicenda: quello del suo
retroterra politico. Perché la politica qui c’entra, e molto,
anche se questo è un terreno di indagine scivoloso e bisogna fare
estremamente attenzione a non giungere a conclusioni affrettate.
Eppure alcuni tasselli, come i puzzle di un mosaico, se accostati
compongono una figura inquietante. Molti elementi invece mancano, e
le domande che poniamo, al momento sono prive di risposte. Procediamo
con ordine, lasciando al lettore ogni valutazione.
È certo che gli eredi
del Partito comunista, i Democratici di sinistra, cercavano in quegli
anni di ampliare la loro sfera di influenza nella finanza. Il
tentativo di acquisto della Banca nazionale del lavoro da parte di
Unipol, compagnia assicurativa storicamente vicina al loro mondo, era
stato fermato dapprima dalle inchieste giudiziarie e da una campagna
ostile dei mezzi di informazione, infine (nel gennaio 2006) dalla
vigilanza della Banca d’Italia. Il potere politico, giudiziario e
mediatico si scatenò dunque
contro gli ex comunisti. Sebbene tutte le accuse contro Consorte e i
dirigenti di Unipol che tentarono la scalata alla Bnl finirono con la
loro completa assoluzione, Fassino e D’Alema (al tempo
rispettivamente segretario e presidente del partito), che
caldeggiavano l’operazione, ne uscirono comunque sconfitti. Di lì
a pochi mesi però Prodi e la coalizione dell’Ulivo vincono le
elezioni. Nell’ottobre del 2007 nasce il Partito democratico.
L’inquietante domanda è se quello scellerato incontro tra finanza
rossa e Opus Dei sulla pelle della più antica banca italiana, che
non trovò invece ostacoli, possa aver costituito il collante di
quella “fusione fredda”, come è stata definita, tra ex comunisti
ed ex democristiani. Come peraltro “freddo” (cioè basato su
interessi economici e clientelari) è l’accordo finanziario che
l’avrebbe accompagnato.
Molte coincidenze,
anche se nessuna prova, portano a pensarlo. A Siena, gli ex comunisti
controllavano tramite gli enti locali la Fondazione del Monte dei
Paschi, mentre la banca era appannaggio principalmente di socialisti
ed ex democristiani. Già intorno
al 2000 essi premevano per controllare anche la banca
(riuscendoci infine nel 2006 con Mussari, storicamente vicino agli ex
comunisti, che poi fu l’artefice dell’acquisto di Antonveneta),
ma comunque il sistema di potere senese e la comunanza di interessi
tra partiti anche in contrasto tra loro, e tra partiti e imprenditori
vicini all’Mps come Berlusconi, Verdini, Ligresti e Caltagirone,
facevano di Siena il luogo più adatto a rodare proficue alleanze.
Considerate le aspirazioni degli ex comunisti, è possibile avanzare
l’ipotesi che ad essi sia stato richiesto un prezzo per il pieno
accesso al sistema di potere politico-finanziario, e che questo
prezzo possa essere stato qualcosa a vantaggio della finanza
cattolica e internazionale.
Il fallimento della scalata alla Bnl, e il successo della ben più
rischiosa acquisizione di Antonveneta, suggeriscono l’esistenza di
uno scambio di questa natura. Nulla si sa di preciso della presunta
tangente, ma, al di là di questa, vantaggi nell’operazione (sulla
pelle della città di Siena) potevano essercene per tutti: gli ex
comunisti e gli ex democristiani suggellavano il loro matrimonio, con
i primi che guadagnavano la piena accettazione nei centri del potere
economico, politico e finanziario; le alte sfere della finanza
internazionale, grazie alla ben retribuita mediazione della finanza
cattolica, smaltivano un “buco” di parecchi miliardi di euro.
La
disastrosa operazione poteva anche restare nascosta nella montagna
degli indecifrabili titoli-spazzatura che il sistema finanziario
internazionale produceva. Difficile
stabilire se, nel tempo, Mps avrebbe potuto smaltirne i costi, e a
spese di chi, dato che le banche non creano ricchezza ma si limitano
a gestire debiti e crediti. Purtroppo per i protagonisti però,
essa coincise con la più grave crisi finanziaria che la storia
ricordi. I derivati Alexandria e Santorini che furono varati per
coprire i buchi di bilancio - su cui la magistratura sta indagando -,
e i vari interventi pubblici (dai Tremonti Bond ai Monti Bond, fino
al recente salvataggio del Monte per altri 6,6 miliardi a carico
dello Stato) sono finiti così sotto l’attenzione della stampa e
dell’opinione pubblica.
Non sappiamo quanto degli scontri e dei
rancori sfociati nella scissione del Partito democratico guidata da
Bersani e D’Alema possano a quella vicenda essere attribuiti, né
su quali impervie strade si stiano avviando i protagonisti
dell’attuale fase politica. Sappiamo solo che i tempi della vicenda
Mps sono sovrapponibili, almeno in alcuni passaggi, alla parabola del
Partito democratico e al suo esito ultimo, costituito dalla
definitiva liquidazione di una famiglia politica e della sua storia.
Gli ex comunisti hanno ridotto in macerie il loro centro di potere
senese (e toscano) e hanno perso il partito, consegnandolo agli ex
democristiani, dunque a Matteo Renzi.