Potere del neoliberismo: il lavoro
rende poveri
La tanto
esaltata, dal governo a guida Pd, riduzione del tasso di disoccupazione non dice
nulla sul prezzo pagato dalla classe lavoratrice nel suo insieme, in termini di
precarietà e di contrazione dei diritti, a causa delle politiche del lavoro
culminate nel job act
di Andrea
Ventura
Mentre
governo e mezzi di comunicazione sbandierano come grande risultato delle
politiche di questi anni la recente riduzione del tasso di disoccupazione, da circa
un anno il governatore della Banca centrale europea Mario Draghi (come anche il
Fondo Monetario Internazionale) lamenta che i salari dei lavoratori non
crescono abbastanza. Ma è proprio vero che la crisi occupazionale è in via di
superamento? E per quale motivo il governatore della Bce, il cui mandato è il
controllo dei prezzi, si preoccupa perché i salari dei lavoratori non crescono
a sufficienza? La risposta a queste domande può aiutarci ad illustrare alcuni aspetti
di quel ginepraio di contraddizioni che caratterizza l’attuale governo
dell’economia.
A Draghi e all’aristocrazia finanziaria che lo sostiene non è mai
importato alcunché delle condizioni di vita dei lavoratori. La teoria economica
a cui fanno riferimento, il neoliberismo, è un’arma usata dalle classi
dirigenti capitalistiche per distruggere le conquiste politiche, economiche e
sociali dei lavoratori: se oligarchie sempre più ristrette continuano ad
arricchirsi, e le classi medie e basse si impoveriscono, questo è il risultato
della diffusione di quella teoria. Draghi piuttosto, pur seguendo ufficialmente
il principio per il quale la moneta emessa dalla Banca centrale determina il
livello dei prezzi, sa benissimo esso è un inganno: è interessato alla dinamica
dei salari perché quest’ultima influenza i prezzi, e dato che tra gli obiettivi
della Bce vi è un tasso di aumento dei prezzi del 2 per cento, se i salari sono
fermi quell’obiettivo rimane lontano. Poco conta per tutti quanti noi, ovviamente,
se i prezzi aumentano del’1,5 o del 2 per cento l’anno, eppure, ove l’aumento
dei prezzi nella zona dell’euro dovesse raggiungere il 2 per cento, Draghi
potrebbe affermare che quell’obiettivo a lungo inseguito è stato raggiunto. Questa
però rimarrebbe solo la copertura di un fallimento pratico e teorico, che non
cancella la sproporzione tra l’enorme quantità di moneta messa in circolazione
dalla Bce in questi ultimi sei anni, e i risultati conseguiti in termini di
crescita del Pil e, appunto, di aumento dei prezzi: quel 2 per cento, infatti,
ora si avvicina, ora si allontana, mostrando che il rapporto tra le politiche
monetarie della Bce e il livello dei prezzi è simile a quello tra la danza di
uno stregone e l’attivo della pioggia.
La seconda questione da mettere in evidenza
riguarda i presunti successi dei nostri governanti per la riduzione del tasso
di disoccupazione: riduzione davvero lieve, di circa l’1,5 per cento negli
ultimi tre anni, che mantiene quel tasso ancora superiore all’11 per cento. Va
chiarito che, purtroppo, solo molto alla lontana il tasso di disoccupazione è
un indicatore delle condizioni effettive del mercato del lavoro. La linea
divisoria tra chi è occupato e chi non lo è, infatti, non è per nulla definita.
Come è noto, il mondo del lavoro è popolato da posizioni estremamente
diversificate: chi lavora poche ore, chi ha un posto stabile e sicuro, chi vive
nella precarietà o sotto il ricatto del licenziamento etc. Ora, venendo alla
definizione di occupato, secondo le statistiche dell’ISTAT sono considerati tali
tutti coloro che “nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di
lavoro in una qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetario o in
natura”, oppure “hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nella
ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente”.
La definizione è
nota, ma non si riflette abbastanza su di essa: se aiuto un amico per un trasloco
in cambio di una pizza, o di un invito a cena, sarei “occupato”, così come lo è
un ragazzo che, privo di ogni prospettiva occupazionale, ha passato, nella
settimana di riferimento per la statistica, un’ora ad aiutare il padre nel
negozietto di famiglia. Ovviamente sono “occupati” anche operai con contratti a
tempo indeterminato, professori, professionisti, dirigenti, banchieri
lautamente retribuiti. Il punto è che la tanto sbandierata riduzione del tasso
di disoccupazione non ci dice nulla sul prezzo pagato dalla classe lavoratrice nel
suo insieme, in termini di precarietà e di contrazione dei diritti, a causa
delle politiche del lavoro degli ultimi anni, culminate nel job act. E infatti,
pur essendo vero che il numero di occupati è tornato ai livelli del 2008, cioè
di prima della crisi, da allora il “lavoro” ha subito una pesante contrazione:
il numero di ore lavorate rimane inferiore a quelle di allora di circa il 7%, e
mancano all’appello circa 1 milione e 300 mila posti di lavoro a tempo pieno,
sostituiti appunto da lavori e lavoretti a tempo parziale svolti anche da
giovani, i cui livelli di qualificazione professionale meriterebbero ben altro
utilizzo. Di qui la ragione di quel preoccupante fenomeno per il quale, se un
tempo era povero chi non riusciva a trovare lavoro, oggi può esserlo anche chi,
tra un impiego mal pagato ed un altro, fatica tutti i giorni senza arrivare
alla fine del mese. L’EUROSTAT ha valutato che, con oltre 10 milioni di poveri
nel 2016 (quasi il doppio del periodo antecedente allo scoppio della crisi
finanziaria), l’Italia è il paese europeo dove la miseria materiale,
soprattutto tra i giovani, è numericamente più concentrata.
Anche le condizioni
dei lavoratori a tempo indeterminato si sono progressivamente deteriorate: con
la definitiva abolizione dell’articolo 18 nel settore privato, che prevedeva il
reintegro del lavoratore in caso di licenziamento non giustificato, nel cuore
della classe lavoratrice è ormai presente lo spettro del licenziamento. La
forza contrattuale dei lavoratori, anche di quelli più protetti, non è quella
di una volta. Privi di tutele, abbandonati da quei partiti che storicamente sostenevano
le rivendicazioni popolari, sempre più, in Italia come in Europa, i lavoratori
volgono lo sguardo a forze politiche sdegnosamente definite come “populiste”, o
di destra.
Precarietà, flessibilità, elevata disoccupazione, indebolimento del
potere contrattuale dei lavoratori: oggi, dopo decenni di neoliberismo, le
classi dirigenti si preoccupano del logoramento del loro consenso, o della mancata
crescita dei salari dei lavoratori. Quest’ultima ha anche effetti sulla
crescita. Con l’impoverimento della massa della popolazione, infatti, si riduce
la domanda di merci per le imprese, e la crescita del Pil rimane stentata anche
per questo. Le politiche economiche neoliberiste, in sostanza, hanno alterato
profondamente i rapporti di potere tra le classi sociali, distrutto la
possibilità dei governi europei di sostenere la domanda e gli investimenti
pubblici tramite la spesa, imposto sacrifici ed austerità. Governi e organismi
internazionali talvolta rivendicano successi inesistenti, talaltra si lamentano
della scarsa dinamica dei salari e della crescita insufficiente dei prezzi, o
del Pil. È come se, dopo aver messo alla fame qualcuno, ci si preoccupasse perché
non ha energie sufficienti per lavorare. Il pensiero economico dominante è
sconnesso e dissociato, e non si vede alcuna prospettiva per una reale
inversione di tendenza.