giovedì 16 gennaio 2020

left n. 51, 20 dicembre 2019

BALLE DI NATALE
Chi regola il mercato. Il falso mito della mano invisibile

Secondo la teoria neoclassica, il mercato sarebbe una macchina perfetta, non programmata da nessuno, e fonte di libertà, giustizia e benessere. Di qui il progetto neoliberista di regolare diritti, istituzioni e politiche per favorirne il funzionamento.

di Andrea Ventura 

Il nome di Adam Smith e la tesi della “mano invisibile” sono strettamente associati: il fondatore della scienza economica sarebbe anche il sostenitore dell’efficienza del mercato. Eppure si tratta di un falso: per quanto possa sembrare strano, egli non ha mai sostenuto che il mercato opera come “mano invisibile” per regolare i rapporti economici. 
Smith è autore di diversi saggi e di due corposi volumi: La teoria dei sentimenti morali(1759) e La ricchezza delle nazioni(1776). All’interno dei suoi scritti, la metafora della mano invisibile compare solo tre volte e non si riferisce mai al funzionamento del mercato. La prima volta la troviamo in un saggio sulla storia dell’astronomia, dove Smith ironizza sui popoli primitivi che spiegano con “la mano invisibile di Giove” fenomeni metereologici come tuoni, fulmini e bel tempo. La seconda è nella Teoria dei sentimenti morali, dove si sostiene l’ardita tesi per la quale i ricchi, consumando beni di lusso, forniscono opportunità di lavoro ai poveri, e pertanto “sono guidati da una mano invisibile” a distribuire i beni necessari in modo quasi equo, promuovendo gli interessi di tutta la società. La terza è nella Ricchezza delle nazioni, dove si afferma che per motivi di sicurezza gli imprenditori preferiscono investire in patria piuttosto che all’estero, favorendo l’economia nazionale: l’imprenditore “mira solo al proprio guadagno ed in questo come in altri casi è condotto da una mano invisibile a perseguire un fine che non rientrava nelle sue intenzioni”. Come si può facilmente osservare, né il politeismo, né i consumi delle classi più agiate, né la scelta di investire in patria o all’estero, hanno qualcosa a che vedere col funzionamento del mercato. 
Quale è invece l’idea della mano invisibile che si è affermata oggi? La teoria economica neoclassica, quella che si studia in tutte le università, nasce alla fine dell’Ottocento cercando di riprodurre i successi della fisica e dell’astronomia di quel secolo, imitandone il metodo e facendo ampio uso della matematica. Questa teoria considera che dal lato della domanda di merci vi siano i consumatori che cercano di massimizzare la loro utilità, e dal lato dell’offerta le imprese che cercano di massimizzare il profitto. Anche il lavoro, il risparmio e la moneta sono scambiati secondo le leggi della domanda e dell’offerta. L’obiettivo della teoria è dimostrare che, in condizioni ideali, i mercati funzionano in modo efficiente: non ci sarebbero disoccupati, ciascuno avrebbe un reddito che corrisponde al suo contributo alla produzione, tutti troverebbero ciò di cui hanno bisogno, e nessuno potrebbe arrogarsi il diritto di decidere ciò che è bene o male per gli altri. Insomma, ciascuno pensa solo a sé stesso, e il mercato genera un esito benefico per tutti. La mano invisibile del mercato è questo: una macchina perfetta, non programmata da nessuno, grazie alla quale avremmo libertà, giustizia e benessere. Di qui il progetto neoliberista di regolare diritti, istituzioni e politiche per favorire il funzionamento del mercato. 
Smith dunque non fu l’ideatore della tesi per la quale il mercato opera come una mano invisibile, né peraltro concepiva l’economia come si fa attualmente. In un bel volumetto di qualche anno fa, Alessandro Roncaglia (Il mito della mano invisibile,Laterza 2005) colloca l’origine di questo falso in un articolo di Stigler del 1951. L’idea piacque e fu subito ripresa da importanti autori neoclassici come Arrow e Hahn. Ormai è opinione comune che Smith, in quanto padre dell’economia politica, sarebbe anche l’inventore della metafora della mano invisibile. Eppure basterebbe qualche lettura di storia del pensiero economico per smontare questo falso. In realtà fa comodo che esso si perpetui, e vale la pena di chiedersi perché.
La prima ragione è che la metafora della mano invisibile è di indubbia efficacia. Colpisce la fantasia e attribuisce al mercato delle proprietà miracolose facilmente comunicabili. In secondo luogo, se il mercato è in grado di assicurare libertà, efficienza e benessere, se esso ci rappresenta tutti ma non è guidato da nessuno, allora la povertà e la mancata realizzazione personale sono responsabilità del singolo, oppure dei governi, o anche di leggi e istituzioni che interferiscono col suo funzionamento: in sostanza i nostri problemi deriverebbero dal non avere ancora appreso quel messaggio che il grande Adam Smith ci ha lasciato duecentocinquant’anni fa. Infine attribuire l’idea che il mercato funzioni in modo efficiente all’autore che è considerato il principale fondatore delle discipline economiche, equivale ad affermare che l’economia, dalle sue origini ai modelli matematici che si studiano oggi in tutte le università, abbia avuto un’evoluzione lineare, cancellando così le fratture e la complessità della disciplina. 
Si sente dire talvolta che un fisico può comprendere la teoria dei quanti senza conoscere il sistema tolemaico, la rivoluzione copernicana e gli esperimenti di Galileo, dunque, analogamente, un economista può comprendere l’economia senza conoscere la storia del pensiero economico e la storia delle idee. Forse neanche la storia per lui è necessaria, basta che studi la teoria neoclassica. Così questo falso continua a perpetuarsi. Ma i bisogni e le aspirazioni degli uomini, le strutture sociali, il funzionamento dell’economia e dei mercati, come anche le scuole di pensiero, cambiano in modo radicale nelle diverse epoche storiche. Il dominio di una teoria che per essere scienza si ispira alla fisica e all’astronomia – dove il moto dei pianeti si ripete sempre nello stesso modo, e dove valori, diritti e istituzioni sono inesistenti – e che cancella la sua stessa storia, inevitabilmente conduce a dei disastri. Così, piuttosto che avere la mano invisibile del mercato, oggi abbiamo ben visibile la distruzione delle nostre conquiste sociali ad opera dell’ideologia del libero mercato.

Left n. 49, 6 dicembre 2019

Si scrive Mes, si legge austerity

Pensato per “aiutare” i paesi dell’Eurozona in difficoltà, il Meccanismo europeo di stabilità può imporre la ristrutturazione preventiva del debito: ossia stretta alla spesa pubblica e privatizzazioni.

di Andrea Ventura

Nei sistemi finanziari moderni, la moneta non è una merce ma un contratto di credito, a fronte del quale vi è un debito che circola di mano in mano. Non c’è moneta, in sostanza, senza un credito e un debito. Il rischio di una crisi finanziaria è dunque sempre presente, soprattutto ove l’economia non produca redditi sufficienti a ripagare i debiti, oppure i crediti siano concessi per operazioni di dubbia redditività. Per ridurre questi rischi è necessaria un’istituzione - la banca centrale - che controlli il funzionamento del mercato e che, in emergenza, sia disposta ad intervenire offrendo la liquidità necessaria. Questa funzione di “prestatore di ultima istanza” deve essere svolta sia nei confronti delle banche commerciali, sia nei confronti dei titoli del debito pubblico. Nei paesi aderenti alla moneta unica, e solo in essi, il legame tra debito pubblico e banca centrale è invece reciso: i governi, per finanziarsi, non possono appoggiarsi alla propria banca centrale ma devono rivolgersi ai mercati finanziari. Ove i mercati considerino a rischio il debito di un paese, possono rifiutarsi di acquistare i titoli del debito pubblico e causare il suo fallimento. Anche senza arrivare a questo, mancando una banca centrale, se il paese è considerato a rischio salgono i costi di collocamento dei titoli pubblici sul mercato: di qui, ad esempio, l’impennata dei tassi di interesse sui titoli italiani nell’estate del 2011; di qui anche il maggiore livello del tasso di interesse sui titoli pubblici del nostro paese rispetto ad altri paesi in condizioni economiche analoghe, o peggiori, generato in sostanza dal fatto che i mercati non considerano del tutto esclusa la possibilità che l’Italia esca dalla moneta unica, e che pertanto i possessori dei nostri titoli possano subire delle perdite. 
         Per ovviare all’assenza del prestatore di ultima istanza, nel 2012 è stato istituito il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), di cui si sta discutendo la riforma. Il capitale del MES, sottoscritto dai paesi che vi aderiscono, è pari a 700 miliardi di euro. Il MES segue specifiche procedure per il sostegno ai paesi in difficoltà. In sostanza, per accedere agli aiuti, il paese deve sottostare alle indicazioni del MES, che può imporre austerità per i cittadini e perdite per i creditori. Il nodo del contendere però non è tanto questo. Austerità e rischio di fallimento c’erano anche prima della riforma. Il punto verte piuttosto sulla modifica delle sue procedure decisionali e sulle condizioni che garantiscono l’accesso del paese ai fondi per il salvataggio. 
Prima della riforma la richiesta di aiuto veniva valutata dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. La riforma rafforza invece l’autonomia del MES nei confronti delle istituzioni europee, a favore di un approccio intergovernativo: ora, ad avere potere decisionale, sono i governi dei paesi aderenti alla moneta unica, e in particolare la Germania che, in ragione del meccanismo di voto e della sua quota di capitale, ha potere di veto sugli interventi del MES. 
Per quanto riguarda le condizioni per accedere agli aiuti, il punto è complesso e delicato. Il MES, infatti, per statuto può intervenire solo se il paese è in crisi di liquidità e non di insolvenza. La distinzione tra crisi di liquidità e insolvenza però non è così facilmente tracciabile. In via di principio si parla di crisi di liquidità quanto il paese è momentaneamente in difficoltà perché, ad esempio, subisce gli effetti di una crisi globale o un attacco speculativo, ma in condizioni normali sarebbe in grado di pagare i propri creditori; il paese è invece insolvente quando non è in alcun modo in grado di far fronte ai suoi debiti. In quest’ultimo caso, prima che il MES intervenga, il suo debito andrà ristrutturato, cioè ai creditori saranno imposte delle perdite. Il punto è delicato perché la distinzione tra crisi di liquidità e insolvenza non è così semplice da definire. Se i mercati reputano che un paese sia a rischio di insolvenza, infatti, vendono i suoi titoli pubblici facendo salire i costi di finanziamento del debito, cioè i tassi di interesse. Questo aumento dei costi rende “vera” la previsione sull’impossibilità del paese di saldare i propri debiti. Se invece i mercati si fidano, i tassi di interesse restano bassi e il rischio è scongiurato. Ma in che modo i mercati giudicano se un paese è insolvente o meno? Un aspetto importante in questa valutazione è proprio la presenza o meno di una banca centrale che funga da prestatore di ultima istanza. Se ad esempio togliessimo al debito pubblico del Giappone, che è pari al 250% del Pil, il sostegno della sua banca centrale, i tassi di interesse che paga sul proprio debito, ora bassissimi, salirebbero notevolmente: il Giappone, all’interno delle regole di finanza pubblica europee, verrebbe distrutto. Per la sostenibilità di un debito è dunque decisivo anche il contesto istituzionale, e i mercati lo sanno. Usando un paragone, i mercati possono “uccidere” un paziente affetto da una malattia curabile perché prevedono che egli non sia in grado di superare la crisi, ma possono anche ucciderlo perché manca un medico, oppure perché il medico c’è ma per i vincoli che si autoimpone non può intervenire. Insomma l’efficienza del mercato è un po' come quella di un branco di lupi, che sbrana una preda isolata o in difficoltà.
Tornando al MES, il riferimento principale per stabilire se un paese può avere accesso ai fondi in caso di difficoltà è nei famosi parametri di Maastricht e nelle successive modifiche. Pochissimi paesi, e l’Italia non è tra questi, rientrano in questi parametri. Anche qui però le cose non sono del tutto definite: se il paese non rispetta quei parametri e ha bisogno di un sostegno, è il MES che valuta se fornirglielo, o se imporre prima la ristrutturazione del suo debito. L’Italia al momento non necessita di alcun intervento di sostegno, anzi si trova dalla parte dei creditori, avendo contribuito al salvataggio di Portogallo, Spagna, Grecia, Cipro, Irlanda, o meglio delle banche che avevano prestati i soldi a questi paesi. Aderendo al MES però, per i titoli di nova emissione, dovrà introdurre delle clausole (Cacs) che favoriscono la ristrutturazione del suo debito. Di qui la pesante e decisiva contrapposizione: da una parte, cosiddetti paesi “virtuosi” del nord Europa non sono intenzionati ad intervenire a sostegno del debito di un altro paese se non hanno la certezza della sua solvibilità, dunque vogliono che sia facilitata la ristrutturazione del suo debito; dall’altra però, prevedere la possibilità che i creditori subiscano delle perdite espone il paese al rischio di attacchi speculativi. In questa contrapposizione tra interessi e punti di vista, si trova il dilemma dell’Europa di oggi: il MES dovrebbe assicurare la stabilità finanziaria in Europa, ma per venire a capo di questo contrasto pretende che si favorisca la possibilità che i creditori non vengano rimborsati; ciò indebolisce il paese e rende più probabili le crisi.
La questione non è importante solo nella prospettiva estrema e altamente improbabile del fallimento, ma anche per il livello normale dei tassi di interesse. Per il nostro futuro questo è un punto decisivo. La possibilità della ristrutturazione del nostro debito pubblico, per il solo fatto di rientrare tra gli eventi previsti, farà aumentare il rischio dell’investimento e dunque i tassi di interesse. Per fornire qualche cifra, con un debito da finanziare di oltre 2400 miliardi di euro, un amento di soli 0,5 punti percentuali del tasso che il paghiamo su di esso può generare, nel lungo periodo, un aumento dei costi di finanziamento del debito di 12 miliardi l’anno. Sono soldi che andranno sottratti ai servizi, alla scuola, alla sanità, oppure peseranno sulle imposte. Considerando anche gli altri fronti di scontro coi nostri partner europei - come la proposta tedesca di introdurre un coefficiente di rischio per i titoli pubblici presenti nei bilanci delle banche, che genererebbe anch’essa un pericoloso aumento dei costi del nostro debito -, ci rendiamo conto di quanto gli allarmi siano giustificati. Oltre a questi terreni di scontro, vanno tenute presenti anche le incertezze sulle politiche future della BCE, le conseguenze della guerra sui dazi avviata da Trump e le non rosee prospettive dell’economia mondiale. Per questo la sicurezza dei nostri conti pubblici è fondamentale: lo è anzitutto per noi, ma lo è anche per la stabilità dell’area dell’euro nel suo insieme. Purtroppo l’Europa, per i presupposti neoliberisti che la governano e i conflitti tra i paesi che la dividono, sembra incapace di andare in questa direzione.  

left n. 47, 22 novembre 2019

Contro gli strateghi della paura dell’altro

Karl Polanyi osservava che il fascismo è lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Con questa definizione, il liberismo rientra nella categoria del fascismo e si spiegano le loro alleanze. Ecco come evitare che la storia si ripeta

di Andrea Ventura

Analizzando l’elemento comune dei diversi fascismi, troviamo in prima istanza che essi prosperano nella crisi della società di mercato. Infatti, sia negli anni venti e trenta del secolo scorso, sia oggi, la loro crescita procede assieme alla crisi sociale e alla perdita di controllo sull’opinione pubblica delle élite dominanti. Nel secolo scorso le classi dirigenti capitalistiche, piuttosto che contrastare i fascismi, hanno scelto di assecondarne l’ascesa, venendone infine travolte. Non sappiamo se oggi il copione possa ripetersi, ma sappiamo che guardare al passato per orientarsi nel presente costituisce un errore. Anzitutto i movimenti nazionalisti e reazionari di oggi hanno caratteristiche molto diverse da quelli di allora; in secondo luogo, il pericolo comunista, che nel secolo scorso spaventava le classi dominanti, non è all’orizzonte; e infine, forse, i disastri provocati dall’ascesa al potere di forze di estrema destra hanno insegnato a tutti qualcosa. Eppure, nell’Europa di oggi, alcune similitudini con le condizioni di allora possono essere ravvisate. La crisi di egemonia del neoliberismo, che si protrae da oltre un decennio, infatti, ha reso non più autosufficienti quelle forze politiche che assicuravano la stabilità. Esse pertanto si trovano nella condizione di dover cercare alleanze. Queste alleanze, necessariamente, dovranno essere cercate volgendo lo sguardo verso le forze della sinistra, oppure verso la destra, una destra che certo non è quella di Hitler e Mussolini, ma che sembra ben riconoscersi nel vecchio motto Dio, patria e famiglia, con venature cattoliche, razziste e misogine. Ma su che basi potrebbe essere possibile il compromesso tra un ordine neoliberale, che in via di principio afferma l’uguaglianza formale e vorrebbe la piena circolazione delle merci e delle persone, e quelle forze politiche della destra che invece propongo tematiche ad esse apparentemente antitetiche? Per provare a rispondere alla questione, ma anche per definire i contorni della fase in corso e scongiurare quel pericolo, dobbiamo rivolgere lo sguardo a qualcosa che va oltre la superficie dei programmi e degli slogan della politica. 

Un primo elemento, o forse un sentimento, che da sempre costituisce il denominatore della destra fascista, è la paura. Il fascismo e la destra estrema, infatti, si affermano alimentando la paura: la paura dell’immigrato, dello zingaro, del nero, di chi sbarca di notte sulle nostre coste e ruba nelle case, ha fatto la fortuna della Lega. Chi viene visto come diverso, per costoro, è una minaccia, a fronte della quale ci si deve coalizzare richiamando (o costruendo) tratti identitari comuni: prima gli italiani, oppure i toscani, i veneti, e via disgregando, peraltro rischiando proprio di distruggere quella “patria” che si vorrebbe difendere. Fenomeni simili, purtroppo, li ritroviamo spesso nel mondo, dalla destra suprematista americana al recente colpo di stato contro il potere indigeno di Morales in Bolivia. Ma perché aver paura? Dalla teoria della nascita sappiamo che l’essere umano pone inconsciamente nel diverso da sé la propria realtà interna non razionale. Questo è il fondamento del rapporto uomo - donna, ma è anche il fondamento del rapporto con chi in generale sarebbe diverso e sconosciuto. Se, per la storia del soggetto, questa realtà interna è guasta e dunque è diventata violenta, lo sconosciuto è visto come una minaccia. Quello che costoro pensano dell’altro, infatti, non è un dato oggettivo (l’immigrato, come chiunque, può essere pericoloso o meno, non lo è perché arriva su un barcone) ma, a dispetto dei fatti e delle statistiche, è un dato “a priori”. Credono di sapere qualcosa dell’altro, ma non sanno nulla, né dell’altro né di sé stessi. Abbiamo qui un’alterazione del rapporto con la condizione umana propria e altrui: è cosciente la credenza che lo sconosciuto sia cattivo e violento; non è cosciente la propria realtà interna di odio, negazione, rabbia o annullamento. La paura dell’altro, in sostanza, ha la sua origine in una propria realtà interna distruttiva che è vista all’esterno di sé; essa spinge ad unirsi tra uguali e alimenta la violenza del gruppo. Se poi questa paura si salda con difficoltà materiali oggettive, può diventare un fatto politico di massa, alimentando fenomeni fascisti e razzisti di diversa natura. 
         Per andare oltre nella ricerca, ci è di aiuto Karl Polanyi. Il celebre studioso ungherese osservò che il fascismo è lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Non è chiaro se Polanyi fosse consapevole del fatto che, con questa definizione, rientra nella categoria del fascismo anche il liberismo economico: nell’ordine di mercato, infatti, la società non è un rapporto tra persone, in quanto l’altro è visto come una merce, come un oggetto da sfruttare per il profitto o per la propria utilità pratica. Al di là delle possibili letture, la considerazione di Polanyi ci serve per sottolineare un fattore decisivo per la comprensione dei fenomeni in esame. La continuità tra il liberismo e il fascismo va individuata in questa difficoltà nel riuscire a vedere l’altro essere umano come un proprio simile. Nel fascismo la comunità e il gruppo non hanno il fine di costruire rapporti interumani validi per la ricchezza personale di tutti: piuttosto questi si formano per escludere, per esercitare una violenza nei confronti di chi rimane al di fuori da questo “noi” costruito sulla negazione o sull’annullamento dell’altro. Nel neoliberismo invece l’annullamento si esercita distruggendo ogni socialità. La celebre affermazione della Thatcher secondo cui la società non esiste perché esistono solo i singoli individui, esprime bene questo pensiero. Anche i modelli matematici della teoria economica dominante considerano la società come composta solo da singoli individui isolati. Ma, se forse è vero che un branco di pecore è formato poco più che da singoli elementi, la società è qualcosa di ben diverso: esistono valori, istituzioni, culture, storia, esiste una complessità che non può mai essere ricondotta alla semplice somma di singoli individui isolati. La realizzazione dell’identità umana, inoltre, non passa per l’accumulo di beni materiali e lo sfruttamento dei propri simili, come vorrebbe il liberismo economico. Così, quando la crisi avanza e questa proposta di benessere si rivela un’illusione, quando l’incertezza economica intacca la certezza di sé, la reazione sociale rischia di distruggere la convivenza civile. Il punto è che i movimenti fascisti e reazionari non recuperano quella socialità distrutta dal liberismo, ma indirizzano la propria rabbia verso il “diverso”, verso chi è fuori da questo “noi” artificialmente costituito. La negazione del valore del rapporto sociale su è fondata la società di mercato, in sostanza, non è rifiutata, piuttosto è riproposta su basi differenti: quelle della paura.

Il discorso svolto fin qui trova il suo corrispettivo se osserviamo le forze e i contenuti del variegato mondo della sinistra. La parola socialismo, derivata dal temine latino socialitas, compare nel Settecento per indicare coloro che pensavano che fosse possibile costruire una società basata sulla socialità degli esseri umani. Socialismo, dunque, come tentativo di costruire una società basata su quella umanità naturale che le destre (e gran parte della cultura dominante) hanno sempre negato. Accoglienza, parità di diritti, uguaglianza tra uomini e donne, critica alla società di mercato, contrasto alle diseguaglianze globali, difesa dell’ambiente, pace, non violenza e cultura trovano il loro fondamento in un’idea di società che ha al centro non il rapporto con le cose, e tantomeno i rapporti di sfruttamento, ma il valore del rapporto interumano. Il rischio è che quei ceti popolari che soffrono la crisi, considerino questo insieme di problematiche vicino alle proposte neoliberiste. In realtà il loro contenuto è opposto. Anche per questo, per le forze della sinistra, definire quel filo comune che le unisce è altrettanto rilevante quanto aver chiari i connotati dell’avversario. Portare avanti una ricerca sulle realtà mentali che sono a monte dei programmi politici è decisivo per le battaglie che ci attendono.