giovedì 16 gennaio 2020

left n. 47, 22 novembre 2019

Contro gli strateghi della paura dell’altro

Karl Polanyi osservava che il fascismo è lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Con questa definizione, il liberismo rientra nella categoria del fascismo e si spiegano le loro alleanze. Ecco come evitare che la storia si ripeta

di Andrea Ventura

Analizzando l’elemento comune dei diversi fascismi, troviamo in prima istanza che essi prosperano nella crisi della società di mercato. Infatti, sia negli anni venti e trenta del secolo scorso, sia oggi, la loro crescita procede assieme alla crisi sociale e alla perdita di controllo sull’opinione pubblica delle élite dominanti. Nel secolo scorso le classi dirigenti capitalistiche, piuttosto che contrastare i fascismi, hanno scelto di assecondarne l’ascesa, venendone infine travolte. Non sappiamo se oggi il copione possa ripetersi, ma sappiamo che guardare al passato per orientarsi nel presente costituisce un errore. Anzitutto i movimenti nazionalisti e reazionari di oggi hanno caratteristiche molto diverse da quelli di allora; in secondo luogo, il pericolo comunista, che nel secolo scorso spaventava le classi dominanti, non è all’orizzonte; e infine, forse, i disastri provocati dall’ascesa al potere di forze di estrema destra hanno insegnato a tutti qualcosa. Eppure, nell’Europa di oggi, alcune similitudini con le condizioni di allora possono essere ravvisate. La crisi di egemonia del neoliberismo, che si protrae da oltre un decennio, infatti, ha reso non più autosufficienti quelle forze politiche che assicuravano la stabilità. Esse pertanto si trovano nella condizione di dover cercare alleanze. Queste alleanze, necessariamente, dovranno essere cercate volgendo lo sguardo verso le forze della sinistra, oppure verso la destra, una destra che certo non è quella di Hitler e Mussolini, ma che sembra ben riconoscersi nel vecchio motto Dio, patria e famiglia, con venature cattoliche, razziste e misogine. Ma su che basi potrebbe essere possibile il compromesso tra un ordine neoliberale, che in via di principio afferma l’uguaglianza formale e vorrebbe la piena circolazione delle merci e delle persone, e quelle forze politiche della destra che invece propongo tematiche ad esse apparentemente antitetiche? Per provare a rispondere alla questione, ma anche per definire i contorni della fase in corso e scongiurare quel pericolo, dobbiamo rivolgere lo sguardo a qualcosa che va oltre la superficie dei programmi e degli slogan della politica. 

Un primo elemento, o forse un sentimento, che da sempre costituisce il denominatore della destra fascista, è la paura. Il fascismo e la destra estrema, infatti, si affermano alimentando la paura: la paura dell’immigrato, dello zingaro, del nero, di chi sbarca di notte sulle nostre coste e ruba nelle case, ha fatto la fortuna della Lega. Chi viene visto come diverso, per costoro, è una minaccia, a fronte della quale ci si deve coalizzare richiamando (o costruendo) tratti identitari comuni: prima gli italiani, oppure i toscani, i veneti, e via disgregando, peraltro rischiando proprio di distruggere quella “patria” che si vorrebbe difendere. Fenomeni simili, purtroppo, li ritroviamo spesso nel mondo, dalla destra suprematista americana al recente colpo di stato contro il potere indigeno di Morales in Bolivia. Ma perché aver paura? Dalla teoria della nascita sappiamo che l’essere umano pone inconsciamente nel diverso da sé la propria realtà interna non razionale. Questo è il fondamento del rapporto uomo - donna, ma è anche il fondamento del rapporto con chi in generale sarebbe diverso e sconosciuto. Se, per la storia del soggetto, questa realtà interna è guasta e dunque è diventata violenta, lo sconosciuto è visto come una minaccia. Quello che costoro pensano dell’altro, infatti, non è un dato oggettivo (l’immigrato, come chiunque, può essere pericoloso o meno, non lo è perché arriva su un barcone) ma, a dispetto dei fatti e delle statistiche, è un dato “a priori”. Credono di sapere qualcosa dell’altro, ma non sanno nulla, né dell’altro né di sé stessi. Abbiamo qui un’alterazione del rapporto con la condizione umana propria e altrui: è cosciente la credenza che lo sconosciuto sia cattivo e violento; non è cosciente la propria realtà interna di odio, negazione, rabbia o annullamento. La paura dell’altro, in sostanza, ha la sua origine in una propria realtà interna distruttiva che è vista all’esterno di sé; essa spinge ad unirsi tra uguali e alimenta la violenza del gruppo. Se poi questa paura si salda con difficoltà materiali oggettive, può diventare un fatto politico di massa, alimentando fenomeni fascisti e razzisti di diversa natura. 
         Per andare oltre nella ricerca, ci è di aiuto Karl Polanyi. Il celebre studioso ungherese osservò che il fascismo è lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Non è chiaro se Polanyi fosse consapevole del fatto che, con questa definizione, rientra nella categoria del fascismo anche il liberismo economico: nell’ordine di mercato, infatti, la società non è un rapporto tra persone, in quanto l’altro è visto come una merce, come un oggetto da sfruttare per il profitto o per la propria utilità pratica. Al di là delle possibili letture, la considerazione di Polanyi ci serve per sottolineare un fattore decisivo per la comprensione dei fenomeni in esame. La continuità tra il liberismo e il fascismo va individuata in questa difficoltà nel riuscire a vedere l’altro essere umano come un proprio simile. Nel fascismo la comunità e il gruppo non hanno il fine di costruire rapporti interumani validi per la ricchezza personale di tutti: piuttosto questi si formano per escludere, per esercitare una violenza nei confronti di chi rimane al di fuori da questo “noi” costruito sulla negazione o sull’annullamento dell’altro. Nel neoliberismo invece l’annullamento si esercita distruggendo ogni socialità. La celebre affermazione della Thatcher secondo cui la società non esiste perché esistono solo i singoli individui, esprime bene questo pensiero. Anche i modelli matematici della teoria economica dominante considerano la società come composta solo da singoli individui isolati. Ma, se forse è vero che un branco di pecore è formato poco più che da singoli elementi, la società è qualcosa di ben diverso: esistono valori, istituzioni, culture, storia, esiste una complessità che non può mai essere ricondotta alla semplice somma di singoli individui isolati. La realizzazione dell’identità umana, inoltre, non passa per l’accumulo di beni materiali e lo sfruttamento dei propri simili, come vorrebbe il liberismo economico. Così, quando la crisi avanza e questa proposta di benessere si rivela un’illusione, quando l’incertezza economica intacca la certezza di sé, la reazione sociale rischia di distruggere la convivenza civile. Il punto è che i movimenti fascisti e reazionari non recuperano quella socialità distrutta dal liberismo, ma indirizzano la propria rabbia verso il “diverso”, verso chi è fuori da questo “noi” artificialmente costituito. La negazione del valore del rapporto sociale su è fondata la società di mercato, in sostanza, non è rifiutata, piuttosto è riproposta su basi differenti: quelle della paura.

Il discorso svolto fin qui trova il suo corrispettivo se osserviamo le forze e i contenuti del variegato mondo della sinistra. La parola socialismo, derivata dal temine latino socialitas, compare nel Settecento per indicare coloro che pensavano che fosse possibile costruire una società basata sulla socialità degli esseri umani. Socialismo, dunque, come tentativo di costruire una società basata su quella umanità naturale che le destre (e gran parte della cultura dominante) hanno sempre negato. Accoglienza, parità di diritti, uguaglianza tra uomini e donne, critica alla società di mercato, contrasto alle diseguaglianze globali, difesa dell’ambiente, pace, non violenza e cultura trovano il loro fondamento in un’idea di società che ha al centro non il rapporto con le cose, e tantomeno i rapporti di sfruttamento, ma il valore del rapporto interumano. Il rischio è che quei ceti popolari che soffrono la crisi, considerino questo insieme di problematiche vicino alle proposte neoliberiste. In realtà il loro contenuto è opposto. Anche per questo, per le forze della sinistra, definire quel filo comune che le unisce è altrettanto rilevante quanto aver chiari i connotati dell’avversario. Portare avanti una ricerca sulle realtà mentali che sono a monte dei programmi politici è decisivo per le battaglie che ci attendono.