giovedì 16 gennaio 2020

Left n. 49, 6 dicembre 2019

Si scrive Mes, si legge austerity

Pensato per “aiutare” i paesi dell’Eurozona in difficoltà, il Meccanismo europeo di stabilità può imporre la ristrutturazione preventiva del debito: ossia stretta alla spesa pubblica e privatizzazioni.

di Andrea Ventura

Nei sistemi finanziari moderni, la moneta non è una merce ma un contratto di credito, a fronte del quale vi è un debito che circola di mano in mano. Non c’è moneta, in sostanza, senza un credito e un debito. Il rischio di una crisi finanziaria è dunque sempre presente, soprattutto ove l’economia non produca redditi sufficienti a ripagare i debiti, oppure i crediti siano concessi per operazioni di dubbia redditività. Per ridurre questi rischi è necessaria un’istituzione - la banca centrale - che controlli il funzionamento del mercato e che, in emergenza, sia disposta ad intervenire offrendo la liquidità necessaria. Questa funzione di “prestatore di ultima istanza” deve essere svolta sia nei confronti delle banche commerciali, sia nei confronti dei titoli del debito pubblico. Nei paesi aderenti alla moneta unica, e solo in essi, il legame tra debito pubblico e banca centrale è invece reciso: i governi, per finanziarsi, non possono appoggiarsi alla propria banca centrale ma devono rivolgersi ai mercati finanziari. Ove i mercati considerino a rischio il debito di un paese, possono rifiutarsi di acquistare i titoli del debito pubblico e causare il suo fallimento. Anche senza arrivare a questo, mancando una banca centrale, se il paese è considerato a rischio salgono i costi di collocamento dei titoli pubblici sul mercato: di qui, ad esempio, l’impennata dei tassi di interesse sui titoli italiani nell’estate del 2011; di qui anche il maggiore livello del tasso di interesse sui titoli pubblici del nostro paese rispetto ad altri paesi in condizioni economiche analoghe, o peggiori, generato in sostanza dal fatto che i mercati non considerano del tutto esclusa la possibilità che l’Italia esca dalla moneta unica, e che pertanto i possessori dei nostri titoli possano subire delle perdite. 
         Per ovviare all’assenza del prestatore di ultima istanza, nel 2012 è stato istituito il Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), di cui si sta discutendo la riforma. Il capitale del MES, sottoscritto dai paesi che vi aderiscono, è pari a 700 miliardi di euro. Il MES segue specifiche procedure per il sostegno ai paesi in difficoltà. In sostanza, per accedere agli aiuti, il paese deve sottostare alle indicazioni del MES, che può imporre austerità per i cittadini e perdite per i creditori. Il nodo del contendere però non è tanto questo. Austerità e rischio di fallimento c’erano anche prima della riforma. Il punto verte piuttosto sulla modifica delle sue procedure decisionali e sulle condizioni che garantiscono l’accesso del paese ai fondi per il salvataggio. 
Prima della riforma la richiesta di aiuto veniva valutata dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea. La riforma rafforza invece l’autonomia del MES nei confronti delle istituzioni europee, a favore di un approccio intergovernativo: ora, ad avere potere decisionale, sono i governi dei paesi aderenti alla moneta unica, e in particolare la Germania che, in ragione del meccanismo di voto e della sua quota di capitale, ha potere di veto sugli interventi del MES. 
Per quanto riguarda le condizioni per accedere agli aiuti, il punto è complesso e delicato. Il MES, infatti, per statuto può intervenire solo se il paese è in crisi di liquidità e non di insolvenza. La distinzione tra crisi di liquidità e insolvenza però non è così facilmente tracciabile. In via di principio si parla di crisi di liquidità quanto il paese è momentaneamente in difficoltà perché, ad esempio, subisce gli effetti di una crisi globale o un attacco speculativo, ma in condizioni normali sarebbe in grado di pagare i propri creditori; il paese è invece insolvente quando non è in alcun modo in grado di far fronte ai suoi debiti. In quest’ultimo caso, prima che il MES intervenga, il suo debito andrà ristrutturato, cioè ai creditori saranno imposte delle perdite. Il punto è delicato perché la distinzione tra crisi di liquidità e insolvenza non è così semplice da definire. Se i mercati reputano che un paese sia a rischio di insolvenza, infatti, vendono i suoi titoli pubblici facendo salire i costi di finanziamento del debito, cioè i tassi di interesse. Questo aumento dei costi rende “vera” la previsione sull’impossibilità del paese di saldare i propri debiti. Se invece i mercati si fidano, i tassi di interesse restano bassi e il rischio è scongiurato. Ma in che modo i mercati giudicano se un paese è insolvente o meno? Un aspetto importante in questa valutazione è proprio la presenza o meno di una banca centrale che funga da prestatore di ultima istanza. Se ad esempio togliessimo al debito pubblico del Giappone, che è pari al 250% del Pil, il sostegno della sua banca centrale, i tassi di interesse che paga sul proprio debito, ora bassissimi, salirebbero notevolmente: il Giappone, all’interno delle regole di finanza pubblica europee, verrebbe distrutto. Per la sostenibilità di un debito è dunque decisivo anche il contesto istituzionale, e i mercati lo sanno. Usando un paragone, i mercati possono “uccidere” un paziente affetto da una malattia curabile perché prevedono che egli non sia in grado di superare la crisi, ma possono anche ucciderlo perché manca un medico, oppure perché il medico c’è ma per i vincoli che si autoimpone non può intervenire. Insomma l’efficienza del mercato è un po' come quella di un branco di lupi, che sbrana una preda isolata o in difficoltà.
Tornando al MES, il riferimento principale per stabilire se un paese può avere accesso ai fondi in caso di difficoltà è nei famosi parametri di Maastricht e nelle successive modifiche. Pochissimi paesi, e l’Italia non è tra questi, rientrano in questi parametri. Anche qui però le cose non sono del tutto definite: se il paese non rispetta quei parametri e ha bisogno di un sostegno, è il MES che valuta se fornirglielo, o se imporre prima la ristrutturazione del suo debito. L’Italia al momento non necessita di alcun intervento di sostegno, anzi si trova dalla parte dei creditori, avendo contribuito al salvataggio di Portogallo, Spagna, Grecia, Cipro, Irlanda, o meglio delle banche che avevano prestati i soldi a questi paesi. Aderendo al MES però, per i titoli di nova emissione, dovrà introdurre delle clausole (Cacs) che favoriscono la ristrutturazione del suo debito. Di qui la pesante e decisiva contrapposizione: da una parte, cosiddetti paesi “virtuosi” del nord Europa non sono intenzionati ad intervenire a sostegno del debito di un altro paese se non hanno la certezza della sua solvibilità, dunque vogliono che sia facilitata la ristrutturazione del suo debito; dall’altra però, prevedere la possibilità che i creditori subiscano delle perdite espone il paese al rischio di attacchi speculativi. In questa contrapposizione tra interessi e punti di vista, si trova il dilemma dell’Europa di oggi: il MES dovrebbe assicurare la stabilità finanziaria in Europa, ma per venire a capo di questo contrasto pretende che si favorisca la possibilità che i creditori non vengano rimborsati; ciò indebolisce il paese e rende più probabili le crisi.
La questione non è importante solo nella prospettiva estrema e altamente improbabile del fallimento, ma anche per il livello normale dei tassi di interesse. Per il nostro futuro questo è un punto decisivo. La possibilità della ristrutturazione del nostro debito pubblico, per il solo fatto di rientrare tra gli eventi previsti, farà aumentare il rischio dell’investimento e dunque i tassi di interesse. Per fornire qualche cifra, con un debito da finanziare di oltre 2400 miliardi di euro, un amento di soli 0,5 punti percentuali del tasso che il paghiamo su di esso può generare, nel lungo periodo, un aumento dei costi di finanziamento del debito di 12 miliardi l’anno. Sono soldi che andranno sottratti ai servizi, alla scuola, alla sanità, oppure peseranno sulle imposte. Considerando anche gli altri fronti di scontro coi nostri partner europei - come la proposta tedesca di introdurre un coefficiente di rischio per i titoli pubblici presenti nei bilanci delle banche, che genererebbe anch’essa un pericoloso aumento dei costi del nostro debito -, ci rendiamo conto di quanto gli allarmi siano giustificati. Oltre a questi terreni di scontro, vanno tenute presenti anche le incertezze sulle politiche future della BCE, le conseguenze della guerra sui dazi avviata da Trump e le non rosee prospettive dell’economia mondiale. Per questo la sicurezza dei nostri conti pubblici è fondamentale: lo è anzitutto per noi, ma lo è anche per la stabilità dell’area dell’euro nel suo insieme. Purtroppo l’Europa, per i presupposti neoliberisti che la governano e i conflitti tra i paesi che la dividono, sembra incapace di andare in questa direzione.