mercoledì 11 ottobre 2017

left n. 39, 30 settembre 2017

Il mercato non è un totem e il capitalismo non è eterno

Oggi la convivenza sociale è dominata dal puro interesse economico. Per liberasi da questa oppressione figlia del neoliberismo la sinistra deve rifiutare un'idea pessimistica della natura umana e portare avanti una nuova cultura politica.

di Andrea Ventura



L’impotenza di quel che resta della gloriosa sinistra del passato costituisce solo l’aspetto più superficiale di un dramma storico di vastissime proporzioni. La sinistra, sia quella di derivazione dai movimenti del sessantotto, sia quella più legata alle forze tradizionali del movimento operaio, è stata infatti sconfitta anzitutto sul piano cultuale, poi sul piano politico e dei rapporti di forza nella sfera dell’economia. Senza una ricerca sulle ragioni ultime di questa sconfitta, nessuna inversione di tendenza è possibile.

     L’ideologia che si è affermata negli ultimi decenni, e che ha condotto a questa sconfitta, è il neoliberismo. Il neoliberismo, anzi, è penetrato profondamente all’interno delle forze della sinistra, rendendole irriconoscibili, indicando dunque la presenza di un problema assai più radicale. Ogni analisi del fallimento e delle contraddizioni di quell’ideologia – i cui sostenitori, ad esempio, per decenni hanno negato ogni ruolo attivo dello Stato, ma dopo la crisi del 2008 hanno invocato interventi pubblici di portata mai vista per salvare il mercato dall’autodistruzione –, non può prescindere dal chiarimento dell’idea di civiltà di cui il neoliberismo è portatore: in assenza di ciò non si comprende perché quell’ideologia svolga un ruolo così egemone nella politica odierna. Quest’idea è molto semplice: il legame sociale fondamentale è l’interesse economico, dunque l’ordine di mercato è l’ordine naturale della società e solo a partire da esso è possibile garantire progresso e sicurezza per tutti.

     Abbiamo qui pertanto non un’idea di regolazione dei rapporti commerciali, ma un principio per il governo dell’intera società; anche problemi relativi ai rapporti tra Stati e aree economiche, o quali siamo i paesi da accettare o da escludere dalla comunità internazionale, vengono affrontati a partire dal riferimento al libero mercato. Il passaggio storico connesso all’affermazione di questo modello di società non è di poco conto. In precedenza, infatti, il pensiero politico si basava su di un principio molto diverso: era piuttosto lo Stato che, assumendo la piena sovranità, con un atto tra l’arbitrio del sovrano e il “contratto sociale” liberamente sottoscritto dai cittadini, svolgeva la funzione di assicurare l’ordine e il rispetto della legge. Le formulazioni più note di questa tesi sono quelle di Hobbes, Locke e Rousseau, dove i cittadini rinunciano allo stato di natura per sottomettersi alla legge. Ora invece l’ordine scaturisce direttamente dalla tendenza naturale degli individui a cercare l’utile economico. Il mercato è perciò esso stesso lo stato di natura per l’uomo, e lo Stato dovrebbe solo preservarne il funzionamento. Il tramonto di un’idea di Stato che interviene nell’economia assicurando, ad esempio, occupazione, protezione sociale e servizi pubblici, a favore di un’idea per la quale invece protegge il mercato, è peraltro il modello di riferimento dell’Europa di oggi, ed è superfluo dilungarci ora sulle sue contraddizioni. Ci basta osservare quanto, nei fatti, l’Europa odierna oscilli tra la protezione a livello costituzionale dei principi del libero mercato, e una realtà dove l’intervento statale, e in particolare il ruolo della Germania, rimangono decisivi per il suo funzionamento.

     Va osservato che in entrambi i casi, cioè sia che si conti sulla sovranità statale che sul mercato, ciò che assicura l’ordine della società è il predominio della ragione: nel primo caso la ragione solleva gli uomini dallo stato di natura e sopprime il loro istinto primario alla violenza; nel secondo indirizza le energie dell’individuo verso il tornaconto economico perché egli trova conveniente commerciare con gli altri piuttosto che derubarli o muovergli la guerra. In sostanza, e questo è un punto cardine, la ragione, il calcolo e la convenienza, costituiscono la base della convivenza civile. Quest’ultima rimane comunque precaria in quanto nessuno può escludere che la convenienza, invece, possa improvvisamente diventare quella della violazione della legge, della guerra, o dell’abbattimento dell’ordine costituito.

   Questa “ragione” basata sulla convenienza economica è rappresentata in massimo grado nelle imprese capitalistiche, che assumono appunto come propria finalità l’arricchimento illimitato. Ormai però il sistema capitalistico, piuttosto che assicurare l’ordine rischia di condurre la specie umana verso la catastrofe: per la pressione che esercita sull’ambiente naturale; perché il mercato ha generato uno sproporzionato arricchimento di ristrette oligarchie, impoverendo la maggioranza e mettendo a rischio la coesione sociale; perché quest’idea di razionalità tradisce ogni idea di giustizia, di eguaglianza e di socialità anche nei rapporti tra i popoli. Il problema della socializzazione non è dunque affatto risolto. La sinistra però, purtroppo, non ha nessuna idea in proposito e dunque non sa proporre alcuna idea di socializzazione veramente alternativa a da quella basata sull’arricchimento e l’interesse materiale. Il punto è che una diversa concezione della socialità si scontra con un presupposto assai consolidato nella cultura dominante. Ci riferiamo all’idea per la quale nella natura dell’essere umano vi sarebbero cattiveria, violenza, perversione, “peccato originale”, e la ragione svolgerebbe una funzione decisiva per il controllo e il contenimento di questi istinti naturalmente violenti. È questo dogma che, al fondo, chiude ogni prospettiva di socializzazione che non sia quella legata al dominio dell’economia e alla riduzione del cittadino a consumatore. Tutto questo ha, purtroppo, conseguenze ancora più nefaste nella misura in cui impedisce ogni ricerca sul perché gli esseri umani siano capaci delle più grandi distruzioni, come anche dei più alti atti di generosità, e quali siano le condizioni che possono favorire un esito piuttosto che un altro.

    Antropologia e psichiatria oggi si stanno indirizzando verso percorsi di ricerca molto più ricchi. Emerge infatti da studi condotti sotto diverse prospettive che l’essere umano, se sano, è naturalmente portato alla socialità e genuinamente interessato anche alla condizione degli altri esseri umani con cui entra in rapporto. La psichiatria mostra inoltre che il rapporto interumano, fin da rapporto del neonato con la donna, è centrale per lo sviluppo dell’identità mentale del soggetto, molto più di quanto possa essere il rapporto con gli oggetti materiali. Superare la visione pessimistica sulla natura umana è però solo un primo passo, certo non sufficiente. Il secondo è quello di sviluppare un’articolata cultura politica che sappia collegarsi a ciò che fa star bene le persone, e non si basi invece su vere e proprie patologie come quella di cui l’uomo economico (razionale, autointeressato, che interagisce con gli altri solo sulla base del calcolo di convenienza) è portatore. Dunque una cultura politica consapevole del fatto che oggi, per lo sviluppo delle nostre società, è necessario accompagnare la lotta contro la povertà materiale con qualcosa di più complesso e articolato: lo sviluppo della cultura, dell’istruzione, la difesa del bene pubblico, dell’ambiente e dei luoghi di socializzazione, come anche l’educazione sessuale e la fine di ogni violenza (non solo fisica) nei confronti delle donne. Fermare questa assurda tendenza all’arricchimento illimitato e centrare la politica su una nuova cultura del rapporto interumano dunque, con la consapevolezza che lo sviluppo delle nostre società richiede un modello di civilizzazione interamente diverso da tutti quelli sperimentati nel passato.