Quattro piccole banche e la crisi di un sistema
Andrea Ventura
La società non esiste, esistono solo i singoli individui,
afferma il motto degli anni ottanta. Ciascuno è il miglior giudice delle
proprie scelte, afferma un principio cardine della teoria economica. Bene, è qui
che dobbiamo cercare le ragioni ultime dei drammi personali legati al
fallimento delle quattro banche locali. In omaggio a questi principi, infatti,
ciascuno di noi quotidianamente è costretto a fare delle scelte senza avere
piena consapevolezza delle loro conseguenze: firmiamo clausole indecifrabili
quando stipuliamo contratti di fornitura di servizi, compiamo operazioni
bancarie, acquistiamo una carta di credito; ci è chiesto il consenso alle
pratiche mediche, all’installazione degli aggiornamenti sui nostri dispositivi
elettronici, all’uso dei cookies per navigare. Non potendo essere informati su
tutto, nella gran parte dei casi accettiamo e basta seguendo l’avviso di chi
quel consenso ci chiede; dovremmo altrimenti avere un paio di avvocati sempre a
nostra disposizione.
I danni subiti dai risparmiatori delle banche fallite
rientrano in questo contesto. Le banche, infatti, operano in pieno conflitto d’interessi
e questo conflitto, nelle condizioni attuali, è del tutto insuperabile. Proprio
per tutelare il risparmio, a seguito della crisi del 1929 gli Stati Uniti e altri
paesi industrializzati adottarono delle disposizioni in conseguenza delle quali
le banche d’affari, che effettuavano operazioni più rischiose, furono separate
dalle banche commerciali. Queste ultime
raccoglievano il risparmio, effettuavano prestiti alla piccola clientela ed
erano sotto lo stretto controllo della Banca centrale. Oggi, a seguito dei
processi di deregolamentazione, questa distinzione è sparita e ogni banca può
spaziare in ogni tipo di investimento, cosicché è suo interesse indirizzare i
fondi dei propri clienti verso operazioni più redditizie ma anche a maggior
rischio. La radice di questo e di tanti altri problemi è qui, per cui, come
spesso accade, il piccolo investitore è spinto ad assumere rischi non nel suo
interesse, ma in quello della banca.
La crisi della quattro piccole banche, inoltre, riassume
sotto diversi profili alcuni mali specifici del nostro sistema economico: oltre
al conflitto d’interessi di cui si è detto, abbiamo una cattiva gestione dei
fondi e una rete di rapporti poco chiari con la politica. Infine siamo di fronte
ad una crisi senza precedenti nel tessuto produttivo locale: se un’area
economica entra in crisi, i prestiti effettuati dalle banche alle imprese diventano
inesigibili e le banche stesse, in particolare quelle legate al territorio, rischiano
l’insolvenza. Anche da qui nasce il fallimento dei quattro istituti.
Problemi per certi versi simili furono alla base della crisi
americana del 2007-2008. Quella statunitense colpì il capitalismo occidentale
al suo centro e ne paghiamo ancora le conseguenze. Questa è scoppiata alla
periferia del nostro paese e non è chiaro quanto possa essere circoscritta. In
entrambi i casi le ragioni vanno ricercate nella crisi di un modello di società
dove il cittadino è ridotto a consumatore, il mercato non è un luogo di scambio
ma un principio ordinatore della società nel suo complesso, e la tutela
pubblica è stata sostituita da una cultura privatistica delle “regole” sempre
più inadeguata a fornire una tutela effettiva. I singoli individui, che quel
motto degli anni ottanta voleva valorizzare, sono così preda della legge del
più …furbo. Non s’intravede alcuna inversione di tendenza.