martedì 8 ottobre 2019

Left n. 39, 27 settembre 2019

La trappola del Pil, un pianeta in ostaggio


La questione ambientale non può essere affrontata in maniera isolata dall’insieme dei temi economici e sociali. Ma il cambiamento è arduo da perseguire se gran parte dei paesi sono in preda al neoliberismo e al principio individualistico dell’homo oeconomicus

di Andrea Ventura

“Il capitale che produce l’interesse composto (…) appare come un Moloch che pretende il mondo intero come vittima a lui spettante, ma che, per un fatto misterioso, non vede mai soddisfatte, anzi sempre frustrate, le richieste che derivano dalla sua stessa natura”. La logica dell’interesse composto, osserva qui Karl Marx, è devastante, in quanto suo fine non è rivolto a soddisfare un bisogno umano: l’unica finalità è invece la crescita del capitale, senza che ciò trovi mai un limite definito. A partire dal secondo dopoguerra, con lo sviluppo dei sistemi di contabilità nazionale, le prestazioni delle nostre economie sono misurate con numero: il tasso di crescita composto del Pil. Non ci si cura se questa crescita, che pretende anch’essa “il mondo intero come vittima”, distrugga o preservi l’ambiente, avvantaggi i pochi già ricchi o i più bisognosi. Eppure c’è una profonda differenza tra il modello di crescita dei decenni successivi alla fine della guerra e quello odierno. Il primo, ispirato al New Dealdi Roosevelt, cercava di conciliare la crescita dei profitti con il miglioramento delle condizioni di vita di fasce sempre più ampie di popolazione. Questo compromesso tra capitale e lavoro, detto anche “compromesso socialdemocratico”, è entrato in crisi nel corso degli anni settanta ed è stato abbandonato nel decennio successivo, lasciando le nostre società in preda del neoliberismo e del principio individualistico dell’homo oeconomicus. Ormai, in Occidente, la crescita economica non garantisce più il benessere e la sicurezza sociale alla maggioranza, ma genera una frattura sempre più radicale tra ricchi e poveri, sia all’interno dei singoli paesi, sia su scala globale: il dato più sconvolgente a questo proposito è forse quello fornito ogni anno dall’Oxfam: nel 2010, 322 persone possedevano una ricchezza equivalente a quella della metà più povera della popolazione mondiale;  nel 2015 quel numero si è ridotto a 63, oggi è pari a 26. 

Quando, difronte alle emergenze ambientali, si recupera l’idea di Roosevelt di un “nuovo corso” – un Green New Deal, appunto – si rischia di dimenticare che il sistema sociale del dopoguerra, oltre ad essere diverso dall’attuale per quanto riguarda la struttura dell’economia e la politica economica, aveva alla base un’idea ben precisa del benessere da perseguire: il suo fine era realizzare quelle che Roosevelt riteneva fossero alcuni principi di libertà per tutti gli esseri umani, e in particolare, sul piano economico, la libertà dal bisogno. La domanda è se oggi possa affermarsi un Green New Dealsenza mettere in discussione quella mostruosa logica capitalistica già denunciata da Marx che ormai domina interamente i nostri sistemi sociali. 

Se da un lato il clima culturale e gli equilibri politici non promettono nulla di buono, non per questo mancano le spinte per un cambiamento. Anzitutto le nuove tecnologie dematerializzano la produzione, rendendo necessario un ripensamento sia delle politiche pubbliche, sia degli stessi indicatori dell’economia. Inoltre l’austerità ha pesantemente colpito i più poveri, cioè quei ceti sociali per i quali la crescita dei redditi ha ancora un’importanza preminente, alimentando la protesta sociale. Infine le politiche monetarie espansive si sono mostrate inefficaci, cosicché ormai anche Draghi è costretto a sostenere che serve un intervento dei governi. Tra l’evidenza dei guasti provocati dalle politiche neoliberiste, gli allarmi della comunità scientifica sulla sostenibilità ambientale delle nostre economie e i giovano che in tutto il mondo si mobilitano in difesa del proprio futuro, molti fattori indicano che sta maturando una consapevolezza nuova. In questo quadro, dunque, l’idea di mobilitare risorse per la difesa dell’ambiente e la riconversione ecologica ha un senso, non solo ai fini della sostenibilità ambientale, ma anche per il rilancio dell’occupazione e lo sviluppo stesso dell’economia. 

Eppure il cambiamento non può essere affidato a politiche calate dall’alto, che rischiano di favorire interessi consolidati attorno al vecchio modello di economia, né può ridursi ai vuoti ritornelli che caratterizzano attualmente il dibattito pubblico. Va anche rifiutata l’idea, di derivazione neoliberista, secondo la quale contano anzitutto le scelte individuali, e pertanto dovremmo consumare meno carne, girare in bicicletta o rinunciare ai viaggi in aereo. È invece irrinunciabile l’azione collettiva, cioè la costruzione di un’opposizione sociale e politica che riesca ad incidere a fondo sulle scelte pubbliche, le tecnologie in uso, l’organizzazione sociale ed economica. È necessario unire la difesa delle condizioni materiali dei più disagiati – terreno di scontro abbandonato dalla sinistra storica – con le lotte ambientali, la difesa del patrimonio artistico, dell’istruzione e della ricerca scientifica. Deve diventare consapevolezza comune che non c’è sviluppo umano, né sviluppo economico, senza istruzione, cultura e scienza, e che il contenuto scientifico e la qualità del lavoro che servono per un’economia che rispetti l’ambiente è molto superiore quelli che servono per bucare le montagne ed emettere gas serra: non vi è nelle lotte ambientali alcun ritorno al passato, ma uno sguardo verso il futuro. Le conoscenze e le risorse per questo passaggio sarebbero già disponibili, così come sembra abbastanza diffusa l’idea che il benessere, una volta soddisfatti i bisogni di base, si realizzi sul piano dei rapporti personali, della socialità e della qualità della vita anche nell’impegno sul lavoro. La questione ambientale ha inoltre implicazioni sull’equità e sull’accesso alle risorse, sia su scala globale che locale. Le diseguaglianze che caratterizzano l’attuale condizione umana, infatti, si ripercuotono anche sulle responsabilità delle alterazioni climatiche. Solo per fare un esempio, mentre crescono i profughi ambientali, gli abitanti dei paesi più energivori come Stati Uniti e Canada continuano ad emettere ogni giorno tanti gas serra pro capite quanti ne emettono in uno o due anni quelli dei paesi più poveri.

La questione ambientale non può dunque essere affrontata in maniera isolata dall’insieme delle questioni economiche e sociali. Ma il cambiamento è arduo da perseguire. L’intero sistema economico è costruito sul principio della crescita illimitata, principio che da un lato risponde alle pretese del capitale sul “mondo intero come vittima a lui spettante”, dall’altro ha la sua corrispondenza in quell’antropologia dell’homo oeconomicusche riduce l’individuo a consumatore e nega che l’essere umano sia naturalmente portato alla socialità. Lavorare per l’affermazione di una nuova antropologia che unisca l’uguaglianza, la socialità, la cultura e la difesa dell’ambiente, costituisce la premessa per questo passaggio essenziale per la nostra civiltà.