mercoledì 6 novembre 2019

left n. 43, 25 ottobre 2019

La macchina della diseguaglianza

Nate con l’idea che la conoscenza fosse un bene comune, le imprese del web hanno finito per ricavare profitti smisurati dalla registrazione, l’analisi e la vendita dei nostri dati. Sfruttandoli a fini pubblicitari, politici, e anche per condizionare l’opinione pubblica

di Andrea Ventura


Se trenta o quarant’anni fa un manager guadagnava circa 40 volte il salario medio di un lavoratore, oggi guadagna centinaia, forse migliaia di volte di più. Stiglitz qualche anno fa ha calcolato che i 50 top manager più ricchi guadagnano circa 19.000 volte il salario del lavoratore medio americano. Se il dato non vi fa abbastanza impressione, considerate che questi signori, in un giorno, guadagnano quanto un operaio in 75 anni di lavoro. Gli Stati Uniti, certo, sono un paese assai diseguale, ma in tutto l’Occidente le diseguaglianze sono aumentate a dismisura: in Italia, ad esempio, mentre la percentuale di popolazione a rischio di povertà ed esclusione sociale è salita al 27%, il 5% più ricco possiede tante ricchezze quante ne ha il 90% più povero. Ma da che dipendono questi squilibri? Secondo l’ideologia neoliberista, maggiori guadagni sono indice di maggiore efficienza e produttività, pertanto il mercato realizza anche l’equità distributiva. Questa teoria stride sia con la complessità dei processi tramite cui si determinano le retribuzioni, sia con le posizioni di potere che i diversi gruppi sociali hanno acquisito, anche grazie ai loro legami con la sfera politica. Non si capisce infatti come potrebbero essere considerati “produttivi” quei top manager dei grandi gruppi finanziari responsabili della crisi del 2008, né in che modo il contributo alla produzione di un dirigente industriale, che è nella posizione di fissare per sé stesso compensi stratosferici – con l’ulteriore possibilità di utilizzare qualche paradiso fiscale –, possa essere misurato e posto a confronto con quello di un operaio, un insegnate o un ricercatore. Si cancella inoltre che nelle moderne società industriali non c’è mercato se a monte non c’è una scelta politica e istituzionale: si deve stabilire, infatti, in che misura i diritti di proprietà e il lavoro debbano essere protetti, chi paga se un’impresa o una banca fallisce, cosa può e cosa non può essere scambiato; leggi e regolamenti devono definire quali tecnologie e quali invenzioni proteggere dal copyright, e per quanto tempo. Infine, dato che nessun mercato può funzionare senza qualcuno che faccia rispettare certe regole e senza infrastrutture, va deciso come finanziare tutto questo e come ripartire il carico fiscale tra i contribuenti. Ciascuna di queste scelte ha effetti sulle retribuzioni, sui profitti e quindi sulla distribuzione della ricchezza.
Le diseguaglianze che si sono accumulate in questi decenni possono essere ricondotte a diversi ordini di ragioni, che nulla hanno a che vedere con la cosiddetta “giustizia distributiva” del mercato. Sintetizzando, due fenomeni sono da mettere in evidenza. Il primo è che negli ultimi decenni le politiche economiche hanno favorito fasce assai ristrette di popolazione. Il carico fiscale per i più ricchi, infatti, si è ridotto radicalmente: secondo l’Oxfam, oltre alla riduzione delle imposte sulle successioni e sulla ricchezza, in media la tassazione sui redditi più elevati è scesa nei paesi industrializzati dal 62% degli anni settanta del secolo scorso al 38% attuale. Nuovi diritti di proprietà su farmaci, tecnologie e materiale vivente hanno lasciato spazi crescenti per il profitto privato, spesso a scapito dei consumatori, mentre la globalizzazione e la finanziarizzazione hanno favorito l’evasione e l’elusione delle imposte da parte delle grandi imprese, alterando a loro vantaggio i rapporti di competitività anche nei confronti delle imprese medie e piccole. Infine la forza contrattuale dei lavoratori si è ridotta ovunque in misura considerevole.
Il secondo elemento è lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione. Esse hanno portato all’affermazione di un modello industriale dei tratti completamente diversi da quelli di qualunque passato. Come ricostruisce Shoshana Zuboff nel suo volume Il capitalismo della sorveglianza, si sono combinate due spinte. La prima è stata la scoperta, da parte delle aziende informatiche, del valore commerciale delle informazioni che ciascuno di noi fornisce incidentalmente utilizzando i servizi della rete. La seconda è l’indebolimento delle protezioni legali sulla privacy che si sono avute a seguito degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Ciò ha completamente alterato il modello di business di queste imprese: nate con l’idea che la conoscenza fosse un bene comune, e che la rete potesse mettere in contatto milioni di persone diffondendo informazioni e conoscenze, le imprese del web hanno ricavano profitti dalla registrazione, l’analisi e la vendita dei dati degli utenti. Ormai tecnologie, programmi e applicazioni sono studiati proprio per raccogliere la maggiore quantità possibile di informazioni sui comportamenti di chi li utilizza. In pochi anni abbiamo pertanto assistito ad un radicale rovesciamento: ciò che avrebbe dovuto rimanere protetto come spazio privato di ciascuno, è invece nella piena disponibilità di imprese private che sfruttano queste informazioni a fini pubblicitari, politici, per condizionare l’opinione pubblica e potenzialmente anche per prevedere l’affidabilità creditizia di un soggetto o la fedeltà aziendale di un richiedente impiego. Ma siamo ancora agli inizi: con l’internet delle cose, in un prossimo futuro gli oggetti della nostra vita quotidiana potranno raccogliere e trasmettere informazioni sull’ambiente circostante, rendendo realistica la possibilità del controllo totale delle nostre vite. 
I colossi della rete, inoltre, proprio per il carattere immateriale dei loro servizi, sono particolarmente favoriti nella possibilità di eludere il fisco. Essi, in Italia come in altri paesi, hanno finora pagato solo poche decine di milioni di euro di imposte, sfruttando sia il fatto di operare su scala globale, sia le condizioni fiscali di favore offerte da alcuni paesi europei e da altri paradisi fiscali sparsi nel mondo. 
Controllo delle informazioni, potere politico e potere economico costituiscono insomma la pericolosa miscela che alimenta il capitalismo contemporaneo, e tutto questo non ha nulla a che vedere né con l’efficienza come tradizionalmente intesa, né con la “giustizia distributiva” del mercato. Eppure non è certo la tecnologia in sé ad avere effetti perversi. Infatti, così come il suo uso attuale presenta tratti sempre più inquietanti, potrebbe anche essere possibile un uso a vantaggio della collettività, che ad esempio, nello specifico, consenta ai governi di contrastare queste pratiche antisociali delle imprese. Sebbene ben poco indichi che si vada in questa direzione, è da seguire con attenzione quello che sta avvenendo negli Stati Uniti. Nel corso delle primarie del partito democratico, sia Bernie Sanders che Elizabeth Warren hanno avanzato due proposte di rilievo. La prima è quella di una tassazione del 2% sulle ricchezze superiori ai 50 milioni di dollari, proposta che ha provocato una levata di scudi da parte di economisti, politici e manager, ma che sembra incontri i favori di larga parte dell’elettorato democratico e repubblicano. La seconda, avanzata in particolare dalla Warren, prevede lo smembramento dei monopoli della rete. Anche in questo caso le proteste non sono mancate, ma gli Stati Uniti hanno una antica tradizione di leggi anti trust: agli inizi del secolo scorso la Standard Oil, che aveva una posizione di monopolio nel settore petrolifero, venne smembrata in diverse società. Difficile valutare quali possibilità vi siano che queste proposte possano essere attuate in un prossimo futuro, eppure è significativo che nel paese chiave per i destini dell’Occidente esse si trovino al centro del dibattito pubblico.