martedì 23 giugno 2015

Left, n. 18, 16 maggio 2015



La Grecia? È in gioco la democrazia europea

Occorre tempo per attuare le riforme del nuovo governo. Ma questo è incompatibile con la logica di brevissimo periodo che muove la speculazione finanziaria e condiziona l’orizzonte degli interlocutori del paese.

Andrea Ventura


Difficile prevedere se nello scontro tra la Grecia e i suoi creditori prevarranno le ragioni di un accordo o si arriverà a una rottura. Più delle incerte e spesso faziose ricostruzioni giornalistiche, il nervosismo che a tratti mostrano i mercati sembra indicare che la vicenda è aperta a qualsiasi esito, anche il più traumatico. Dunque, in un quadro che potrebbe evolversi in modi incontrollabili oppure trovare un punto di composizione, è utile tener fermi alcuni elementi certi. 

Il primo è che nel 2014 la Grecia ha raggiunto un consistente avanzo primario. Questo significa che, escludendo gli interessi che il paese deve corrispondere sul debito, le spese per i servizi pubblici sono inferiori a quanto i cittadini pagano d’imposte. Ciò ha diverse implicazioni: anzitutto il paese, se non fosse schiacciato dal debito, non avrebbe bisogno di aiuti; quelli che vengono forniti sono perciò volti a pagare gli interessi o a rinnovare i vecchi debiti in scadenza e non ad aiutare il popolo greco. In secondo luogo parte delle imposte serve appunto a pagare i creditori e non a fornire servizi ai cittadini, contribuendo all’impoverimento materiale della popolazione. Infine l’economia è sottoposta a una spinta recessiva (la “trappola dell’austerità”) in conseguenza della quale il Pil tende a contrarsi. Tra la contrazione del Pil e la crescita del debito per il peso degli interessi che comunque il paese non riesce interamente a pagare, il rapporto debito/Pil che si vorrebbe stabilizzare schizza invece verso l’alto.

Il secondo elemento da tener presente è che le condizioni di base per la crisi finanziaria che sta devastando il paese vanno in gran parte ricercate nell’adesione della Grecia alla moneta unica. Questa, infatti, ha eliminato il rischio della svalutazione della moneta nazionale e ha favorito l’afflusso di capitali speculativi. Ogni crisi finanziaria, dall’Argentina al Sud Est asiatico alla Grecia, ha peraltro una dinamica assai simile. Dapprima i capitali internazionali individuano un paese o un’area geografica, dove si presentano occasioni di profitto. L’afflusso di capitali fa salire i valori immobiliari, la borsa, i prezzi dei titoli pubblici e privati, generando bolle speculative; la disponibilità di fondi a buon mercato alimenta anche l’indebitamento e la corruzione, fino a che le aspettative s’invertono, i tassi d’interesse crescono, investimenti profittevoli si rivelano improvvisamente rischiosi, le banche falliscono e il paese rimane devastato come può essere devastato un campo dove è passato uno sciame di cavallette. La ripresa economica, per il nesso che sempre sussiste tra andamento di un’economia e qualità della sua classe dirigente, necessita innanzitutto di un cambiamento del ceto politico del paese. Questo è quello che è avvenuto in Grecia: per mezzo di un regolare processo democratico, i politici implicati nelle vecchie modalità di gestione del potere sono stati sostituiti da una nuova classe dirigente. Può non piacere a molti, eppure le democrazie dovrebbero funzionare così. Ma questo è solo il primo passo. La Grecia, priva di una moneta, indebitata e strangolata dai vincoli europei, non può uscire dalla crisi in cui è precipitata senza attuare quelle riforme che appunto troviamo nel programma del suo nuovo governo: una riforma del sistema fiscale, lotta all’evasione e alla corruzione, modernizzazione della pubblica amministrazione, consistenti investimenti finalizzati a rendere competitive le sue imprese. Dovrebbe avere del tempo per fare tutto questo, tempo che però non è compatibile con la logica di breve e brevissimo periodo che muove la speculazione finanziaria e condiziona l’orizzonte mentale dei suoi interlocutori. 

Dunque la Grecia si trova nell’alternativa drammatica tra subire ancora quelle politiche di austerità che da anni devastano il paese, oppure, da sola, nell’assordante silenzio della cosiddetta sinistra storica europea, scontrarsi con le istituzioni internazionali e gli altri governi dell’eurozona. Altrettanto difficile è però la scelta di questi ultimi. Il miraggio di una ripresa che sarebbe alle porte serve solo a rinviare il dilemma tra lasciare che la Grecia fallisca, con il rischio di avviare una crisi dagli esiti imprevedibili, oppure dare il tempo alla sua nuova classe politica di rinnovare il paese, con il rischio altrettanto grave di mostrare all’Europa e al mondo che un governo di sinistra “populista” può far meglio dei governi asserviti ai poteri finanziari dominanti. Nel primo caso il rischio è quello del contagio finanziario, nel secondo del “contagio” politico. Nonostante la scelta più sensata sia ovvia, le élite europee non sembrano aver sciolto il dilemma: il calcolo razionale dei costi e dei benefici delle due alternative è peraltro difficile da compiere.

Secondo Karl Polanyi il fascismo si caratterizza per lo sforzo di produrre una visione del mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Quello degli anni trenta, con il manganello, s’ispirava alla legge della sopravvivenza del più adatto e distruggeva fisicamente l’avversario. Quello odierno dei colletti bianchi e delle agenzie di rating, considera il sistema sociale non dal punto di vista della vita concreta delle persone che lo vivono ma di un’unica finalità: l’accumulazione capitalistica fine a se stessa. Si tratta dunque di ricondurre alla ragione la piccola e recalcitrante Grecia. Ma non è solo in questione la sorte di un paese. All’esito di questa crisi, infatti, sono connesse le sorti della democrazia europea. Per chi non ne fosse convinto, ricordiamo che la settimana scorsa alcune agenzie di rating hanno mostrato apprezzamento per la riforma elettorale del governo Renzi, decisivo tassello per la demolizione degli equilibri costituzionali del nostro paese: sono le stesse agenzie che prima del 2008 attribuivano ai titoli tossici della finanza strutturata il massimo livello di affidabilità. Nel 2013 J.P. Morgan, una banca d’affari statunitense, consigliò ai governi dell’Europa di liberarsi delle costituzioni nate dall’antifascismo in quanto le tutele dei diritti da esse garantite sarebbero alla base dei problemi economici europei. Fascismo finanziario, appunto.