La Grecia?
È in gioco la democrazia europea
Occorre tempo per attuare le riforme
del nuovo governo. Ma questo è incompatibile con la logica di brevissimo
periodo che muove la speculazione finanziaria e condiziona l’orizzonte degli
interlocutori del paese.
Andrea
Ventura
Difficile
prevedere se nello scontro tra la Grecia e i suoi creditori prevarranno le
ragioni di un accordo o si arriverà a una rottura. Più delle incerte e spesso
faziose ricostruzioni giornalistiche, il nervosismo che a tratti mostrano i mercati
sembra indicare che la vicenda è aperta a qualsiasi esito, anche il più
traumatico. Dunque, in un quadro che potrebbe evolversi in modi incontrollabili
oppure trovare un punto di composizione, è utile tener fermi alcuni elementi
certi.
Il primo è
che nel 2014 la Grecia ha raggiunto un consistente avanzo primario. Questo
significa che, escludendo gli interessi che il paese deve corrispondere sul
debito, le spese per i servizi pubblici sono inferiori a quanto i cittadini pagano
d’imposte. Ciò ha diverse implicazioni: anzitutto il paese, se non fosse
schiacciato dal debito, non avrebbe bisogno di aiuti; quelli che vengono
forniti sono perciò volti a pagare gli interessi o a rinnovare i vecchi debiti
in scadenza e non ad aiutare il popolo greco. In secondo luogo parte delle
imposte serve appunto a pagare i creditori e non a fornire servizi ai cittadini,
contribuendo all’impoverimento materiale della popolazione. Infine l’economia è
sottoposta a una spinta recessiva (la “trappola dell’austerità”) in conseguenza
della quale il Pil tende a contrarsi. Tra la contrazione del Pil e la crescita
del debito per il peso degli interessi che comunque il paese non riesce
interamente a pagare, il rapporto debito/Pil che si vorrebbe stabilizzare
schizza invece verso l’alto.
Il secondo
elemento da tener presente è che le condizioni di base per la crisi finanziaria
che sta devastando il paese vanno in gran parte ricercate nell’adesione della
Grecia alla moneta unica. Questa, infatti, ha eliminato il rischio della
svalutazione della moneta nazionale e ha favorito l’afflusso di capitali
speculativi. Ogni crisi finanziaria, dall’Argentina al Sud Est asiatico alla
Grecia, ha peraltro una dinamica assai simile. Dapprima i capitali internazionali
individuano un paese o un’area geografica, dove si presentano occasioni di
profitto. L’afflusso di capitali fa salire i valori immobiliari, la borsa, i prezzi
dei titoli pubblici e privati, generando bolle speculative; la disponibilità di
fondi a buon mercato alimenta anche l’indebitamento e la corruzione, fino a che
le aspettative s’invertono, i tassi d’interesse crescono, investimenti
profittevoli si rivelano improvvisamente rischiosi, le banche falliscono e il
paese rimane devastato come può essere devastato un campo dove è passato uno
sciame di cavallette. La ripresa economica, per il nesso che sempre sussiste
tra andamento di un’economia e qualità della sua classe dirigente, necessita innanzitutto
di un cambiamento del ceto politico del paese. Questo è quello che è avvenuto
in Grecia: per mezzo di un regolare processo democratico, i politici implicati
nelle vecchie modalità di gestione del potere sono stati sostituiti da una nuova
classe dirigente. Può non piacere a molti, eppure le democrazie dovrebbero
funzionare così. Ma questo è solo il primo passo. La Grecia, priva di una
moneta, indebitata e strangolata dai vincoli europei, non può uscire dalla crisi
in cui è precipitata senza attuare quelle riforme che appunto troviamo nel
programma del suo nuovo governo: una riforma del sistema fiscale, lotta
all’evasione e alla corruzione, modernizzazione della pubblica amministrazione,
consistenti investimenti finalizzati a rendere competitive le sue imprese.
Dovrebbe avere del tempo per fare tutto questo, tempo che però non è
compatibile con la logica di breve e brevissimo periodo che muove la
speculazione finanziaria e condiziona l’orizzonte mentale dei suoi
interlocutori.
Dunque la
Grecia si trova nell’alternativa drammatica tra subire ancora quelle politiche di
austerità che da anni devastano il paese, oppure, da sola, nell’assordante
silenzio della cosiddetta sinistra storica europea, scontrarsi con le
istituzioni internazionali e gli altri governi dell’eurozona. Altrettanto
difficile è però la scelta di questi ultimi. Il miraggio di una ripresa che
sarebbe alle porte serve solo a rinviare il dilemma tra lasciare che la Grecia
fallisca, con il rischio di avviare una crisi dagli esiti imprevedibili, oppure
dare il tempo alla sua nuova classe politica di rinnovare il paese, con il
rischio altrettanto grave di mostrare all’Europa e al mondo che un governo di
sinistra “populista” può far meglio dei governi asserviti ai poteri finanziari
dominanti. Nel primo caso il rischio è quello del contagio finanziario, nel
secondo del “contagio” politico. Nonostante la scelta più sensata sia ovvia, le
élite europee non sembrano aver sciolto il dilemma: il calcolo razionale dei
costi e dei benefici delle due alternative è peraltro difficile da compiere.
Secondo Karl
Polanyi il fascismo si caratterizza per lo sforzo di produrre una visione del
mondo in cui la società non è un rapporto tra persone. Quello degli anni
trenta, con il manganello, s’ispirava alla legge della sopravvivenza del più adatto
e distruggeva fisicamente l’avversario. Quello odierno dei colletti bianchi e delle
agenzie di rating, considera il sistema sociale non dal punto di vista della
vita concreta delle persone che lo vivono ma di un’unica finalità:
l’accumulazione capitalistica fine a se stessa. Si tratta dunque di ricondurre
alla ragione la piccola e recalcitrante Grecia. Ma non è solo in questione la
sorte di un paese. All’esito di questa crisi, infatti, sono connesse le sorti
della democrazia europea. Per chi non ne fosse convinto, ricordiamo che la
settimana scorsa alcune agenzie di rating hanno mostrato apprezzamento per la
riforma elettorale del governo Renzi, decisivo tassello per la demolizione degli
equilibri costituzionali del nostro paese: sono le stesse agenzie che prima del
2008 attribuivano ai titoli tossici della finanza strutturata il massimo
livello di affidabilità. Nel 2013 J.P. Morgan, una banca d’affari statunitense,
consigliò ai governi dell’Europa di liberarsi delle costituzioni nate
dall’antifascismo in quanto le tutele dei diritti da esse garantite sarebbero
alla base dei problemi economici europei. Fascismo finanziario, appunto.