giovedì 20 luglio 2017

left n. 36, 1 luglio 2017

Uguali e diversi, tutti cittadini

La legge sul diritto di cittadinanza basata sullo ius sanguinis affonda le proprie radici ideologiche in una mentalità razzista. La stessa che ispirò le vergognose leggi razziali del 1938

di Andrea Ventura


L’idea che le leggi razziali del 1938 fossero una conseguenza di quell’avvicinamento tra Hitler e Mussolini culminato nel Patto d’acciaio del 1939, non regge all’analisi storica. L’Italia, infatti, aveva una propria tradizione di pensiero razziale risalente a ben prima di quei fatidici anni. Nutrito da figure quali i celebri economisti Pareto e Maffeo Pantaleoni, lo statistico Gini, Rocco e Agostino Gemelli, il razzismo fu infatti una componente significativa del pensiero sociale italiano. Vale la pena di ricordarlo, oggi, anche perché non ha altro fondamento, se non quello razziale, l’idea che l’identità dei membri di un popolo possa essere definita su base biologica, e dunque quest’ultima debba figurare come requisito per l’acquisizione della cittadinanza.

In tema di cittadinanza si hanno due principi: il primo, quello seguito da paesi quali Stati Uniti, Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, riconosce sotto alcune condizioni lo ius soli, cioè muove dall’idea per la quale la cittadinanza è assegnata a chi nasce sul territorio nazionale. Il secondo principio, quello che vige in Italia e che il Senato – nonostante l’opposizione della destra e del Movimento 5 Stelle si spera riesca finalmente ad abolire, è basato all’opposto sul ius sanguinis: è cittadino chi, nato in Italia o all’estero, è di discendenza italiana e non lo è, salvo il verificarsi di alcune condizioni, chi nasce sul territorio italiano da genitori che non sono già cittadini del paese. Quest’ultimo principio tradisce la sua origine nel pensiero razziale: non contano la lingua, la cultura, l’istruzione, o anche il periodo più o meno lungo di permanenza nel paese, ma vige un’idea per la quale vi sarebbe, come indica la dizione stessa, un diritto alla cittadinanza italiana che si dovrebbe trasmettere per via fisico/biologica. Chi ne è privo è pertanto costretto a vivere una condizione diversa, con meno diritti, in conseguenza appunto di una circostanza a carattere genetico.

Ora, a parte il fatto che non è rintracciabile alcuna specificità nel sangue o nel patrimonio biologico che sia in grado di definire questa italianità, è evidente il senso d’ingiustizia – o meglio la vera e propria violenza – di cui questo principio è portatore. Si stima in circa ottocentomila, infatti, la popolazione giovanile che nel nostro paese, a causa di questa malsano fondamento per la concessione della cittadinanza, è in vario modo discriminata. Cittadini di serie B dunque, che studiano, lavorano, pagano le tasse, hanno amicizie, affetti e riferimenti culturali del tutto indistinguibili dai loro coetanei, ma non i diritti corrispondenti. E se appare odiosa una società che esclude chi batte alle sue porte in cerca di rifugio da guerre e miseria, a maggior ragione è odiosa la creazione, tra quelli che a tutti gli effetti possono essere considerati cittadini del paese, di due classi di persone sulla base di una presunta diversità nell’eredità sanguigna.

Ma, al di là della ridicola rivendicazione di un’identità umana basata sul sangue in un paese come il nostro che, per storia e posizione geografica, è sempre stato caratterizzato da ingenti flussi migratori sia in entrata sia verso paesi lontani, esistono “razze” umane? Se la risposta, com’è ovvio, è negativa, su che base possiamo affermare l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani?Un primo argomento relativo all’unità della specie umana è legato al fatto che, com’è ormai certo, siamo tutti discendenti da un ceppo unico, originario dell’Africa, vecchio di circa 200.000 anni. Recentissime ricerche hanno spostato ancora all’indietro quest’origine, ma, al di là di questo, ciò che rileva per il nostro argomento è che la specie umana ha un’origine unica e ha colonizzato il pianeta caratterizzandosi, più che per la sedentarietà, per il nomadismo, l’esplorazione di terre sconosciute e la capacità di adattamento agli ambienti anche più estremi. Ma questa capacità di esplorare, modificare, inventare strumenti – come anche forme artistiche – a che cosa fa capo?

Secondo la teoria della nascita di Massimo Fagioli la specificità umana è legata a una particolare reazione che la materia cerebrale attiva quando, alla nascita, è colpita dallo stimolo luminoso. Con questa reazione l’essere umano annulla ciò che lo circonda e crea contestualmente una realtà mentale intera che definisce la sua identità, appunto, di essere umano. Questa realtà interna dapprima spinge l’essere umano a immaginare l’esistenza di un altro essere simile a se stesso con cui prendere rapporto, poi, sviluppandosi e arricchendosi nel corso della vita per mezzo di esperienze e conoscenze, fa sì che gli uomini siano creativi di fenomeni quali l’arte, la scienza, la scrittura, come anche la cultura in senso lato e la storia, fenomeni questi del tutto assente nelle altre specie viventi che seguono invece comportamenti ripetitivi, prevedibili e largamente prefissati.

Gli uomini sono dunque uguali non solo per le loro caratteristiche fisiche e biologiche, ma soprattutto per le loro caratteristiche psichiche, e in particolare per la dinamica della formazione del pensiero che consente loro di inventare e di modificare la propria condizione. Questa dinamica è uguale per tutti, anche se poi ciascuno sviluppa contenuti propri in funzione dell’esperienza, delle opportunità, della cultura in cui si forma, e forse anche delle personali capacità creative. L’individuo si può anche ammalare se subisce delle violenze – non solo fisiche, ma soprattutto di tipo psichico – specie nei primi anni di vita. Per questo gli esseri umani possono essere creativi, ma anche distruttivi: se diventano tali, la loro distruttività è di natura del tutto diversa da quella delle altre specie, le quali, se distruggono, lo fanno per sopravvivere, non certo per esercitare un’inutile violenza.

Ora, per tornare al nostro tema, i ragazzi a cui molti, in questi giorni, verrebbero negare ancora la cittadinanza, subiscono una violenza che non è solo quella legata alla mancata possibilità di esercitare dei diritti pienamente riconosciuti ai loro coetanei, dunque una violenza legata a una discriminazione materiale. I giovani che questa legge attendono da anni subiscono anche una violenza psichica legata a un pensiero per il quale essi costituirebbero un’umanità inferiore. Ma l’umanità inferiore è quella di coloro che appunto negano diritti elementari a una parte sempre più cospicua della nostra società sulla base di un criterio discriminatorio privo di senso. Costoro ci fanno dubitare che, dai tempi dei nostri progenitori africani, tutto questo progresso ci sia effettivamente stato. O meglio, se c’è stato, esso ha investito la scienza, la tecnica, la potenza materiale, mentre è rimasto povero, se non addirittura potrebbe essere arretrato, per quanto riguarda il piano del rapporto sociale. Da questa povertà nella socialità hanno origine sia quell’incapacità nel gestire in modo equilibrato il progresso economico, generando la distruzione degli equilibri naturali del pianeta, sia l’artificiosa creazione di barriere tra individui, popoli e culture.

Eppure non possiamo guardare indietro, dunque non abbiamo scelta: la caratteristica umana è la contaminazione, il nomadismo, l’aspirazione a una vita migliore, la realizzazione nel rapporto con i propri simili. Oltre la lotta contro ogni discriminazione, è necessario che si abbia chiarezza su dove volgere lo sguardo affinché possa affermarsi una nuova idea di uguaglianza e di giustizia sociale, per l’effettivo esercizio dei diritti, non solo quelli di cittadinanza.