martedì 23 marzo 2021

Left n. 26, 26 giugno 2020

Alla nascita siamo tutti anticapitalisti

 

L’attuale sistema economico poggia sull’idea che il comportamento umano sia principalmente orientato all’accumulazione e al profitto. Una falsità che nega il tratto principale delle donne e degli uomini: la propensione alla socialità

 

di Andrea Ventura 

 

 

Nel momento in cui un ciclo di sviluppo sembra giunto al termine, è utile riflettere su alcune questioni preliminari alle scelte di politica economica. Carlo Rovelli, in un volume di qualche anno fa, ha ricordato che “i grandi passi avanti nella scienza non sono dovuti alla scoperta di soluzioni nuove a problemi ben posti. Sono dovuti alla scoperta che il problema era mal posto”. Proporrò che il problema è mal posto a partire dall’idea che il comportamento dell’uomo economico (perfettamente razionale e finalizzato al vantaggio economico) definisca la specie umana. Il punto è decisivo in quanto su questa idea poggia il neoliberismo, cioè quel modello di economia che è stato egemone negli ultimi decenni, e che urge lasciarci alle spalle. 

Due elementi vanno messi in rilievo: il primo è che questo comportamento ha la sua massima espressione nella logica capitalistica, orientata esclusivamente all’accumulazione e al profitto. L’altro è che, secondo questa idea, saremmo uomini economici non solo sul mercato, ma in ogni rapporto sociale. Il neoliberismo dunque non si limita a governare l’economia: piuttosto stabilisce il dominio dell’economia sulle altre scienze sociali, e degli uomini economici sulla società. 

Sappiamo per esperienza comune che un individuo perfettamente razionale, che tratta i propri simili come se fossero oggetti inanimati, è qualcosa che offende e ripugna. È per questo che ci opponiamo alla logica del capitale, dove il lavoratore è ridotto a mera appendice delle macchine, ed è per questo che Marx prefigurava un futuro non solo privo di povertà economica, ma dove tutti potessero realizzare pienamente le proprie qualità umane. Più che ricorrere ad argomenti moralistici o religiosi, che portano poco lontano, sappiamo da un’ampia letteratura che la razionalità di comportamento per l’utile pratico non corrisponde ad alcuna vera realizzazione umana. Il benessere economico, infatti, oltre un certo limite, non corrisponde più al benessere psicofisico del soggetto. Ciò avviene non perché i soldi facciano male, ma perché la spinta a far soldi come obiettivo esistenziale fa male al soggetto e a quelli che lo circondano. Lo aveva compreso anche Keynes, quando cent’anni fa, in Prospettive economiche per i nostri nipoti, auspicava una società dove “l’amore per il danaro (…) sarà agli occhi di tutti, un’attitudine morbosa e repellente, una di quelle inclinazioni a metà criminali e a metà patologiche da affidare con un brivido agli specialisti di malattie mentali”. Ne deriva, in modo abbastanza ovvio, che le teorie neoliberali, dove appunto questo comportamento da malato di mente è considerato appropriato per raggiungere il benessere e far funzionare la società, costituiscono un rischio per la società stessa. 

È utile qui riprendere brevemente la distinzione tra ragione strumentale e ragione oggettiva proposta dalla Scuola di Francoforte. La prima si riferisce all’uso dei mezzi, la seconda ai fini. È ovvio che, affinché l’uso di un mezzo abbia un senso, esso debba riferirsi ad un fine: debba cioè essere definito l’impiego che del mezzo si intende fare. I fini sociali (democrazia, diritti, uguaglianza, ambiente, cultura) sono legati all’esistenza di valori: essi forniscono un senso alla vita umana, sia per il singolo individuo, sia per la sfera pubblica. Secondo la Scuola di Francoforte, nel corso della modernità questo legame tra mezzi e fini (tra ragione strumentale e ragione oggettiva) è stato smarrito, lasciando che la società sia governata da una razionalità strumentale sempre più fine a sé stessa. È qui che il capitale stabilisce il suo dominio: sia il modello di comportamento dell’uomo economico, sia il suo corrispettivo nella razionalità capitalistica, si fondano sulla negazione di qualsiasi discorso sui valori e sugli obbiettivi che un sistema economico deve perseguire in un dato contesto storico. 

Possiamo affermare che questa negazione corrisponda alla cancellazione del pensiero umano, che mai può essere ricondotto al calcolo dei profitti e delle perdite. Forse solo la vita animale è riconducibile al calcolo delle energie per la sopravvivenza. Non c’è quindi pensiero umano né nell’uomo economico, né nel capitalismo, né nel neoliberismo. Abbiamo solo un calcolo di convenienza, calcolo che peraltro sarà sempre più spesso svolto da macchine: dalla scelta dei fornitori operata da alcune multinazionali, alle operazioni dei fondi speculativi, ai programmi di consegna dei fattorini, all’internet delle cose, il futuro del capitalismo si prospetta, infatti, come una combinazione tra sfruttamento delle opportunità di profitto e automazione delle scelte. 

È possibile affrontare le problematiche del XXI secolo con una teoria sociale dove gli esseri umani sono privati di tutte quelle caratteristiche che li distinguono dalle altre specie animali? Inoltre, se la razionalità non è pensiero umano, se le macchine possono sostituirci nelle scelte, cos’è il pensiero umano? Che cosa, in sostanza, ci rende umani? Questa ricerca, non semplice da sviluppare, può essere affrontata con la teoria della nascita dello psichiatra Massimo Fagioli, teoria che a mio avviso costituisce l’unica vera novità nel panorama culturale attuale. Questa teoria afferma che il pensiero umano compare alla nascita, nel momento in cui la luce colpisce la retina e attiva le funzioni cerebrali. Il pensiero, alla nascita, ovviamente non comprende la coscienza e ragione, come sarà nell’adulto. Che pensiero è allora? Secondo Fagioli, per la memoria del contatto della pelle con il liquido amniotico, il neonato intuisce (o immagina) che esista un altro essere umano con cui stabilire un rapporto. Il pensiero dunque è anzitutto “capacità di immaginare”. Sebbene le parole per raccontare di questa intuizione-immagine siano difficili da trovare, chiedersi cosa succede alla nascita è decisivo per ogni ricerca sull’uomo e la società. Infatti, a seconda della risposta che si fornisce, si hanno conseguenze di assoluto rilievo. Affermiamo che non succede nulla e che il neonato è come una tavoletta di cera? L’identità di ciascuno allora è definita dalle condizioni esterne: un’organizzazione sociale vale l’altra, e la potenza materiale della società capitalistica è destinata a dominarci ancora. Pensiamo che il neonato sia tendenzialmente violento e aggressivo? È la tesi freudiana dell’inconscio perverso, versione laica del peccato originale: il bambino dovrà essere educato e represso affinché possa adattarsi alla vita sociale, e la ragione serve a controllare gli istinti violenti che ciascuno di noi si porta dentro; se la natura umana è questa, dovremmo concludere che il fascismo sarebbe lo stato di natura dell’uomo. Se crediamo infine che pensieri e identità siano già presenti nel feto, o addirittura nell’embrione, rischiamo di cadere nella religione o nel razzismo: razze superiori e inferiori per le diversità genetiche.

La teoria della nascita afferma che siamo naturalmente portati alla socialità, non al profitto o allo sfruttamento del prossimo. È la qualità del rapporto interumano che garantisce il benessere agli esseri umani, non il rapporto utilitaristico con le cose. La ragione, che si sviluppa successivamente, è importante per il benessere fisico, ma deve integrarsi con quella dimensione affettiva che è presente fin dalla nascita. La nostra capacità di sentire la differenza nel rapportarci ad un oggetto, un animale o ad una persona, dipende da quel pensiero non cosciente che ha la sua matrice nei primi momenti della vita. Se, come vorrebbero molti maestri del pensiero, sopprimiamo l’immaginazione e gli affetti, restiamo solo con una razionalità fine a sé stessa. L’intera società tenderà a divenire una mostruosa macchina orientata al profitto, distruggendo sia noi stessi e il mondo che ci circonda. 

Abbiamo ormai poche alternative: o saremo in grado di sviluppare una nuova cultura sociale, economica e politica basata sul riconoscimento di ciò che ci rende umani, o rischiamo un pesante regresso di civiltà.