lunedì 22 marzo 2021

Left n. 41, 15 ottobre 2020

L’ideologia dei salari bassi non crea occupazione

 

Non è vero che riduzione del salario e flessibilità portino ad un aumento dei posti di lavoro. Anzi. Sono fattori regressivi che impoveriscono la società, come spiega Antonella Stirati in Lavoro e salari. Un punto di vista alternativo sulla crisi  


di Andrea Ventura

 

 

Quando la sussistenza umana era basata sull’agricoltura, i rapporti economici risultavano facili da definire. Con lo sviluppo dei mercati e della società industriale, le cause della ricchezza e della povertà furono più difficili da comprendere, tanto che nel protestantesimo l’arricchimento veniva spiegato col favore divino. Le discipline economiche nascono dunque dalla necessità di comprendere nessi sociali che non sono immediatamente evidenti. Se questi non vengono illustrati nella loro verità, i rapporti sociali rischiano di guastarsi e le politiche pubbliche falliscono nel perseguire il benessere pubblico.

         Il volume di Antonella Stirati (Lavoro e salari. Un punto di vista alternativo sulla crisi, l’Asino d’Oro, Roma, 2020) è un prezioso strumento di valutazione dello stato attuale delle discipline economiche. Le teorie dominanti sono vagliate sia nella coerenza interna, sia alla luce di quell’evento – la crisi del 2008 – che, nella loro prospettiva, risultava del tutto inaspettato. Vengono poi analizzate le nefaste conseguenze dell’applicazione di quelle stesse teorie negli anni successivi. Al contempo, riproponendo una serie di saggi già pubblicati dall’Autrice, si mostra come, con un quadro teorico adeguato, le conseguenze negative di quelle politiche fossero facilmente prevedibili.

         Rimandando alla lettura del volume gli aspetti più complessi della questione, ci soffermiamo qui sul tema del lavoro che,come indicato nel titolo, è al centro degli interessi della Stirati. È ormai senso comune che bassi salari e flessibilità possano favorire un maggior impiego di forza lavoro. La teoria dominante fa leva su questa visione semplicistica, considerando, in sostanza, il lavoro come una merce: se aumentano le rigidità e cresce il costo del lavoro la tendenza sarebbe quella di sostituire il lavoro con il capitale, alterando l’equilibrio “naturale” e generando disoccupazione. Decenni di politiche neoliberiste poggiano sul legame tra salario (e rigidità del lavoro) e disoccupazione. Nella prospettiva keynesisna, a cui l’Autrice fa riferimento, la tesi è ribaltata: il salario non è solo un costo per le imprese, ma è anche una componente della domanda di merci per le imprese stesse, cosicché l’indebolimento delle classi lavoratrici e l’impoverimento complessivo della società a vantaggio di ristrettissime élite, ha effetti recessivi ed è causa a sua volta di povertà e disoccupazione. Come viene ricostruito in modo approfondito nel volume, la complessità della relazione che lega salari e occupazione - che investe anche altri aspetti, come l’innovazione tecnologica, la qualità della forza lavoro e il tipo di competitività verso cui si indirizzano le imprese - comincia ad essere riconosciuta anche da una parte dell’economia mainstream. 

Dando il dovuto rilievo alla domanda come componente fondamentale della crescita economica e dell’occupazione, risulta anche evidente l’impossibilità di ottenere effetti espansivi dalle politiche di austerità.Queste, piuttosto, generano fenomeni recessivi e rendono ancora più pesante quel rapporto debito/Pil su cui si basano le valutazioni di sostenibilità del debito stesso. Lo stesso concetto di debito pubblico come “fardello” per le generazioni future è equivoco: ogni debito ha il suo corrispettivo in un credito, cosicché, se si lascano ad esse dei debiti, è altrettanto legittimo dire che gli si lasciano dei crediti. Abbandonando ogni retorica, è assai più proficuo, come fatto nel volume, cercare le cause della formazione del debito nelle scelte delle autorità monetarie, e mostrare il legame tra l’assetto istituzionale e il costo del debito stesso. L’architettura su cui è costruita l’Europa di oggi, che vede, caso unico al mondo, una banca centrale a cui è impedito di sostenere i debiti degli stati, sotto questi profili appare insostenibile.

Tornando al tema del lavoro, una seconda questione, forse più radicale, ricorre nell’impostazione di ricerca della Stirati: essa investe il fatto che, anche sul piano logico-analitico, non è possibile definire un salario e un tasso di profitto “naturali”, a cui tende l’equilibrio di piena occupazione. La questione è assai complessa e proviamo a sintetizzarla come segue. La teoria dominante considera che esista una data quantità di fattori produttivi (terra, lavoro e capitale) che vengono impiegati nella produzione in funzione del loro costo. Il meccanismo sarebbe il seguente: se ad esempio il costo del lavoro aumenta rispetto al costo del capitale, per le imprese converrebbe sostituire il lavoro, che è diventato più costoso, con le macchine. Se diminuisce vi sarebbe la tendenza opposta. Ma le cose non stanno affatto in questi termini. Il “capitale”, infatti, è un insieme di merci – prodotte dal lavoro – il cui valore è dato solo dopo, e non prima, che si siano formati i redditi dei fattori produttivi. Dunque non può essere il punto di partenza per determinare i redditi stessi. 

La teoria della distribuzione del reddito che si insegna in tutte le università è pertanto priva di ogni fondamento: non vi è alcuna tendenza dell’occupazione ad aumentare per la riduzione del salario. Questa critica, a cui la Stirati fa riferimento, è stata formulata con rigore negli anni sessanta da Piero Sraffa. Ad essa non è mai stata fornita una risposta soddisfacente. Il recupero del messaggio di Keynes, e la critica sraffiana alla teoria della distribuzione del reddito, consente all’Autrice di demolire con efficacia la lettura dominante della fase attuale. 

Rimane il quesito su quali siano le determinanti della distribuzione del reddito. La risposta non è semplice: decisivi, comunque, sono i rapporti di forza tra le classi sociali. Il contesto politico-istituzionale costruito in questi decenni ha prodotto le enormi diseguaglianze sociali che sono sotto gli occhi di tutti. Di questo lo stato delle discipline economiche è almeno in parte responsabile. Vi è un concetto sviluppato nell’ambito delle teorie economiche: quello della “cattura”. Si sostiene che le politiche pubbliche non possano ottenere il benessere sociale perché condizionate (catturate appunto) dagli interessi dei gruppi di interesse più potenti. Solo il libero mercato può, secondo questa tesi, garantire il benessere di tutti. Purtroppo è facile osservare quanto le stesse discipline economiche siano state vittime della “cattura”: dalla fine degli anni settanta del secolo scorso, infatti, ingenti finanziamenti sono giunti a think thank, riviste e gruppi di ricerca che si ispirano al neoliberismo, mentre il meccanismo di selezione nelle università tende a privilegiare coloro che pubblicano su riviste mainstream. Il messaggio di Keynes è stato travisato o abbandonato. Quanto di Keynes sia recuperabile in un contesto sociale e storico come l’attuale, che vede l’affermazione di un capitalismo del tutto nuovo basato sulle tecnologie del digitale, è una questione che va discussa in modo approfondito. Rimane un dato di fatto: l’offensiva del capitale contro le conquiste sociali del secolo scorso ha trovato nelle teorie economiche una delle sue armi più efficaci. Dopo il 2008, l’applicazione di quelle teorie in un contesto di gravissima crisi finanziaria ed economica, ha generato un paradossale socialismo dei ricchi, dove le regole del mercato sono fatte valere solo per i più deboli. La scissione tra l’andamento delle borse, artificialmente sostenute dalle politiche espansive delle banche centrali, e le condizioni dell’economia reale, è indicativa di quanto ormai il sistema economico funzioni solo a vantaggio di un capitalismo sempre più predatorio. Servirebbe un radicale cambio di paradigma, ma gli interessi in gioco sono troppo potenti. 

Non il valore scientifico, ma la loro funzione politica e sociale, spiega la persistenza di teorie insostenibili sul piano logico e in contrasto con i fatti. Rimangono gruppi, anche nutriti, di studiosi eterodossi che seguono le proprie linee di ricerca, forniscono utili spunti alla politica, scrivono appelli e documenti critici, ma purtroppo sono lasciati ai margini del dibattito pubblico. Per chi volesse approfondire, il volume della Stirati è un ottimo punto di partenza.