martedì 26 maggio 2020

left 16, 17 aprile 2020

Soluzioni all’altezza dei problemi

Paghiamo ancora le conseguenze del modo in cui fu affrontata la crisi del debito del 2011, che ha provocato l’ascesa della destra xenofoba e l’impoverimento dei paesi del Sud. La situazione odierna è più drammatica di allora. Mi ci sono margini di manovra

di Andrea Ventura

Le menzogne fanno male e rendono difficili i rapporti tra i popoli. Quando nel 2011 scoppiò la crisi del debito, le classi dirigenti dei pasi del Nord, e della Germana in particolare, raccontarono ai loro elettori che la responsabilità del disastro fosse dei greci e degli altri paesi dissoluti e spendaccioni. L’acronimo Piigs, utilizzato per indicare Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna, e che richiama l’inglese Pigs (maiali), è indicativo un atteggiamento ancora oggi assai diffuso. La realtà era invece un po' diversa: i debiti dei cosiddetti Piigs avevano (e hanno tutt’ora) un corrispettivo nei crediti concessi dalle banche tedesche, francesi, belghe, olandesi, per sostenere le esportazioni da quei paesi verso la periferia europea, e per lucrare sulle differenze nei tassi di interesse. All’indebitamento del Sud, nella sostanza, corrispondevano esportazioni, profitti e benessere per i paesi del centro Europa, le cui banche però, allo scoppio della crisi, si trovarono sull’orlo del fallimento. Certo, per la Merkel sarebbe stato difficile chiedere ai contribuenti tedeschi di coprire i buchi nei bilanci delle banche del paese. Così, piuttosto che affrontare il problema riconoscendo il reciproco interesse che lega creditore e debitore in ogni rapporto di indebitamento, le fu più facile accusare i greci di vivere a sbafo, chiedere all’Europa di salvare la Grecia, e fare in modo che i soldi spesi per questo cosiddetto salvataggio, passando per la Grecia, tornassero nelle loro banche. Una patita di giro, insomma, ma forse, meglio, una presa in giro che ha avvelenato i rapporti tra i popoli del continente.

Dalla crisi odierna non si esce alimentando ancora queste contrapposizioni. Purtroppo, però, esse si sono pericolosamente diffuse nelle opinioni pubbliche dei paesi europei, ciascuna delle quali sembra incapace di comprendere i drammi altrui. L’incapacità di agire dell’Europa, nella sostanza, è anche il risultato dei veleni e delle bugie del decennio trascorso. Pensiamo alla Germania: il paese non avrebbe alcun beneficio dalla fine dell’Europa. Una catastrofe in Italia, la cui industria fornisce sofisticati componenti per le sue esportazioni, indebolirebbe le stesse industrie tedesche. La Germania, inoltre, possiede una banca, la Deutsche Bank, che ha nel suo bilancio derivati di dubbio valore: di recente è stata definita una bomba ad orologeria nel cuore dell’Europa. L’aggravarsi della crisi potrebbe farla esplodere. Il nostro dramma è dunque anche quello della Merkel: essa, per il clima prevalente nella sua opinione pubblica e per i vincoli che la costituzione tedesca pone a trasferimenti verso altri paesi europei, non può accettare che l’Europa si doti di strumenti di condivisione dei rischi, ma un intervento urgente sarebbe necessario tanto per noi quanto per lei.

Il dilemma qui sommariamente delineato può essere facilmente esteso ai rapporti che in un sistema di mercato legano non solo paesi e aree geografiche, ma anche i singoli individui. Si ha in questi giorni lo svelamento di un devastante paradosso. Il pensiero economico dominante afferma che ciascuno guadagna in funzione delle sue capacità: di qui l’idea che il ricco è tale perché sarebbe più bravo e frugale del povero. Il normale funzionamento del mercato, inoltre, fornisce l’illusione che ciascuno di noi sia circondato da oggetti materiali e da servizi di cui può disporre in cambio di un pagamento, assicurandogli sicurezza e benessere. Quello che il singolo spesso non vede, e che il pensiero economico dominante nasconde, è che dietro i beni di cui disponiamo ci sono delle persone che li producono e li offrono. I rapporti che stabiliamo con le cose, in sostanza, nascondono rapporti con delle persone. Quando Marx parlava di feticismo delle merci, illustrava questo concetto: a differenza dei sistemi arcaici basati sull’agricoltura, dove la sussistenza era assicurata dal rapporto diretto con la natura, nell’economia di mercato dipendiamo dallo scambio di merci e dunque dal lavoro altrui. Siamo all’interno una rete di rapporti sociali la cui essenza non ci è immediatamente evidente. 

Oggi possiamo vedere quanto il benessere, la salute e la libertà di ciascuno debba accompagnarsi a quella degli altri. La qualità dell’ambiente (naturale e sociale) in cui viviamo non dipende dal singolo, ma dal nostro livello complessivo di civiltà. Restando all’economia, se si spezza la catena che lega il reddito di molti di noi alla spesa altrui, e i servizi che lo Stato distribuisce alle tasse che noi stessi paghiamo, non è facile ripristinarla. Se le fabbriche si fermano, i negozi chiudono, gli spostamenti si bloccano, e se infine la società si disgrega, il nostro benessere svanisce come neve al sole. E infine, perché qualcuno può disporre ancora di un reddito, e altri improvvisamente non hanno più di che nutrirsi? Perché un imprenditore che deve chiudere la sua attività dovrebbe saldare il debito con un fornitore, una banca, o pagare un affitto? Le ingiustizie lacerano in modo permanente il tessuto sociale, ricordiamolo, e sono foriere di ulteriore disgregazione. Gli esempi si possono moltiplicare a piacimento: senza gli altri, senza una vita pubblica basata su qualcosa che supera l’interesse economico, non solo la qualità della vita, ma anche la nostra stessa esistenza è in pericolo. Il pensiero economico dominante, piuttosto che illustrare questa semplice verità, l’ha nascosta, e le politiche seguite in questi decenni, piuttosto che rafforzare le protezioni sociali, le hanno indebolite. Oggi dunque, o si riconosce la necessità di affrontare questa emergenza – che chiama in causa sia le politiche europee, sia quelle nazionali – sulla base di principi assai diversi da quelli che ci hanno condotti fin qui, oppure le conseguenze saranno devastanti per tutti: certo lo saranno per i più poveri, ma lo saranno anche per i paesi e per i ceti più ricchi, il cui benessere non potrà essere garantito da una società e da un’Europa in dissoluzione. 

Purtroppo, al di là delle dichiarazioni ufficiali, dall’Eurogruppo del 7-9 aprile - che ha preparato il vertice dei leader europei del 23 aprile -, non sono uscite soluzioni all’altezza dei problemi. Paghiamo ancora le conseguenze del modo in cui fu affrontata la crisi del 2011. A seguito di essa abbiamo assistito all’ascesa della destra xenofoba e antieuropea - sempre pronta a lucrare consensi scaricando la rabbia della gente su altri popoli e paesi -, e all’impoverimento dei paesi dell’Europa del sud. La crisi odierna è assai più drammatica di quella di allora. Eppure, se da un lato sono evidenti le evidenti fratture tra i paesi e le difficoltà nel superarle, la Banca centrale europea sta cercando di evitare una nuova crisi acquistando titoli del nostro debito pubblico. Il programma di emergenza di cui si è dotata gli offre margini di manovra maggiori del passato. Il consiglio direttivo della Banca opera a maggioranza, e al momento la maggioranza è interessata a salvare la moneta unica. Ma, certo, non basterà. La mancanza di consapevolezza dei legami che abbiamo in quanto europei, e in modo più vasto in quanto esseri umani, ci potrà costare estremamente cara.