L'economia dell'informazione e la partita del futuro
di Andrea Ventura
di Andrea Ventura
Uno
strano paradosso investe le economie dell’Occidente. Da un lato, a
dispetto di stimoli monetari senza precedenti, la crescita economica
è precaria e stentata: anche negli Stati Uniti, dove la politica
monetaria è stata accompagnata da politiche fiscali espansive, la
crescita del Pil è rimasta sotto le attese, generando un aumento del
rapporto debito/Pil dal 64% del 2007 al 106% del 2015; L. Summers,
economista e potente politico americano, assieme ad altri ha
recentemente avanzato l’ipotesi che i paesi avanzati stiano
attraversando una fase di “stagnazione secolare”. Questa crescita
insufficiente si accompagna però ad un flusso d’innovazioni
scientifiche e tecnologiche senza precedenti che sta radicalmente
modificando il nostro modo di produrre, consumare, lavorare,
comunicare.
Stagnazione
secolare da un lato, innovazione e progresso dall’altro. Eppure la
crescita economica è sempre stata favorita dalle scoperte
scientifiche e tecnologiche: il telaio meccanico ha avviato la prima
rivoluzione industriale inglese, poi motore a vapore, ferrovie,
telegrafo e piroscafi hanno spinto la seconda. Catena di montaggio e
consumi di massa hanno infine caratterizzato l’economia americana
e, nel secondo dopoguerra, la crescita del continente europeo.
L’informatizzazione dei processi produttivi, la diffusione della
rete, la scoperta di nuovi materiali e la biologia molecolare
sembrano invece incapaci di sostenere un nuovo ciclo di crescita
economica. Siamo alla presenza di un temporaneo stallo dovuto
all’inevitabile disequilibrio generato da cambiamenti tecnologici
radicali, oppure, come afferma Paul Mason in un recente volume
(Postcapitalismo. Una guida al nostro futuro, il Saggiatore,
Milano 2016) queste nuove tecnologie stanno minando il capitalismo
come l’abbiamo conosciuto finora?
Per
discutere alcuni aspetti della questione, è necessario comprendere
in via preliminare la differenza tra quelli che gli economisti
definiscono come “beni privati” e i beni che invece hanno la
caratteristica del “bene pubblico”. In estrema sintesi, i primi
sono consumati su base individuale; i secondi invece si
caratterizzano per il fatto che il consumo di un bene da parte di un
individuo non esclude che lo stesso bene sia anche a disposizione di
altri. Se ad esempio una notizia compare su un giornale cartaceo, per
accedere a essa è necessario acquistare una copia del giornale
stesso. Un articolo pubblicato on line, invece, è accessibile a
centinaia di migliaia di persone a costi marginali nulli: a
differenza della copia fisica del giornale, che se è in mano ad una
persona non può essere al contempo nelle mani di un’altra,
chiunque può disporre della pagina contenente l’articolo senza che
qualcun altro sia limitato nell’accesso. Il punto è che, avendo le
nuove tecnologie ridotto, e in molti casi eliminato, la necessità
del supporto materiale per la diffusione di film, musica, immagini,
giornali e notizie, quelli che prima erano smerciati sul mercato come
beni privati, ora hanno assunto la caratteristica del “bene
pubblico”.
In
breve, ed è questa l’esperienza di ciascuno di noi, grazie allo
sviluppo tecnologico, con quell’oggetto che qualche anno fa era
solo un telefono cellulare, oggi abbiamo accesso a giornali,
dizionari, guide turistiche, musica, mappe, carte stradali, oltre ad
una serie di servizi su meteo, traffico, trasporti, viaggi, eventi
etc. Grazie alla rete inoltre, la trasmissione delle informazioni
tecniche e scientifiche su nuovi materiali, farmaci, ogm, come anche
l’accesso a biblioteche e banche dati, è immediato e favorisce la
ricerca e la diffusione delle nuove scoperte in tutto il mondo. Anche
per questo, secondo alcuni studiosi, quello che stiamo osservando
potrebbe essere solo l’inizio di un percorso destinato a modificare
completamente il nostro modo di lavorare, consumare e comunicare.
In
questa nuova fase dello sviluppo, pur restando ovviamente ancora
essenziali il controllo diretto delle materie prime e della forza
lavoro, i nostri sistemi economici saranno sempre più basati sulla
conoscenza e l’informazione. E, mentre dal punto di vista delle
imprese, materie prime e forza lavoro sono “beni privati” nel
senso sopra definito, la scienza e l’informazione sono beni
pubblici per eccellenza: il loro uso da parte di un’impresa non
comporta che non siano disponibili anche per altre cento o centomila
imprese.
Lo
sconquasso generato da un’economia in stallo nelle produzioni
tradizionali, e che invece sviluppa sempre di più tecnologia,
servizi e informazione, è evidente. Anzitutto, come sostiene tra i
tanti lo storico dell’economia Joel Mokyr, i tradizionali
indicatori di produzione e di benessere divengono insensati. Per
restare all’esempio precedente, i giornali venduti entrano nel Pil,
l’informazione in rete no. In genere, se grazie al nostro iPhone
acquistiamo meno beni fisici, il Pil si riduce, mentre i servizi cui
accediamo, essendo gratuiti non lo fanno aumentare. In secondo luogo
è l’intero sistema dei prezzi come tradizionalmente inteso che
perde di significato. Nella teoria economica dominante, infatti, i
prezzi dovrebbero porre in equilibrio i costi e i benefici delle
merci, come anche la domanda e l’offerta. In un’economia basata
sull’informazione, invece, si hanno due possibilità: o i prezzi
sono nulli poiché la diffusione dei servizi e dell’informazione
può avvenire appunto a costi nulli; oppure essi sono legati alla
capacità delle imprese di ottenere una protezione legale o di
sviluppare apposite tecnologie che limitino artificiosamente
l’accesso al bene (Kindle per la lettura di libri, codici di
protezione dei software, brevetti e simili).
Solo
apparentemente però l’accesso ai servizi della rete è gratuito.
Si pone qui un problema gigantesco, le cui implicazioni appaiono
ancora oscure. Inconsapevolmente, infatti, noi paghiamo
profumatamente Google, Facebook, Whatsapp, Linkedin e le varie
applicazioni che scarichiamo fornendo informazioni ad alto valore
commerciale su noi stessi. Non è chiaro come queste informazioni
siano elaborate e utilizzate, certo però è che letture, ricerche in
rete, acquisti, contatti, amicizie, spostamenti, stati d’animo (le
faccette…) sono registrati, assemblati e venduti. Questa mole di
dati ha un valore enorme in quanto permette alle imprese di fare
pubblicità mirata, influenzare i gusti e produrre merci più
appetibili per i consumatori. Anche la politica ne usufruisce: è
possibile avere in tempo reale il polso sull’opinione pubblica,
come anche impostare campagne elettorali in modo più efficace.
Matteo Renzi, ad esempio, per la prossima campagna referendaria ha
assunto come consulente Jim Messina, già coinvolto nelle campagne
elettorali di Cameron e Obama, esperto di big data e dunque
capace tra l’altro di individuare su quali soggetti puntare per
convincerli a voltare Si, evitando di sprecare tempo e risorse verso
elettori fermamente convinti a non votare o a votare per il No.
Rischi
e opportunità caratterizzano dunque questa cosiddetta “economia
dell’informazione”. Una visione pessimistica prefigura una
società dove un pugno di imprese private controlla i nostri
movimenti, le nostre scelte, e dispone del profilo personale di
ciascuno di noi. La privacy è nulla: la quantità d’informazioni
che spontaneamente forniamo ai padroni della rete, infatti, è
immensa. Le imprese possono selezionare il personale ricorrendo a
quelle informazioni - già oggi alcune società americane non
assumono soggetti che siano privi del proprio profilo su Facebook -,
le possibilità di controllo sui luoghi di lavoro e nella società
crescono a dismisura, mentre politici facilmente ricattabili
divengono sempre di più schiavi dei poteri economici dominanti. Tra
l’altro la rete solo apparentemente è un luogo neutrale
accessibile a tutti: in realtà poche imprese private controllano,
tramite complessi algoritmi, cosa possiamo conoscere e comunicare più
facilmente. Dunque la possibilità di manipolare la circolazione
delle informazioni è notevole. Cresce la disoccupazione generata
dall’informatizzazione dei processi produttivi, brevetti e licenze
ostacolano la diffusione delle innovazioni, e profitti ingenti
affluiscono a élite sempre più ristrette collocate in posizioni
chiave. Il capitale, per la sua logica interna, deve ottenere
profitti sempre crescenti e dunque avrebbe bisogno della crescita dei
valori di scambio: se questa non può essere garantita dallo sviluppo
delle nuove tecnologie, aumenterà la pressione a far profitti su
sanità, istruzione, cultura, servizi pubblici, risorse naturali e
ambiente.
Se
sotto diversi aspetti questo è quello che stiamo osservando, è
improbabile che nel lungo periodo una cerchia sempre più ristretta
di persone possa mantenere la sua presa sull’economia e la società.
Peraltro la perdita di controllo delle vecchie classi dirigenti è
già evidente: in molti paesi le forze cosiddette “populiste” o
“antisistema” raccolgono consensi crescenti; Trump, Sanders,
Corbyn, Podemos, Syriza, il Movimento 5 Stelle, la Le Pen, la destra
austriaca, i fautori del Brexit, nella loro radicale diversità
queste forze devono il loro successo al disagio di strati sociali
sempre più vasti che vedono compromesso il proprio futuro. Il
modello politico bipolare, dove le elezioni si vincevano al centro e
i due schieramenti finivano sempre più per assomigliarsi, è dunque
già imploso, ma non è chiaro quali idee e quali forze potranno
prevalere in futuro.
In
una fase così incerta, è sterile cercare di prevedere quello che
potrà riservarci il futuro. Più proficua appare invece la ricerca
su come sia possibile influenzare la transizione in corso. Anzitutto
è chiaro che l’idea del mercato come sfera autonoma si mostrerà
sempre più una finzione: l’economia e la distribuzione del reddito
saranno infatti sempre più dipendenti da scelte di carattere
giuridico e politico. È dunque sul terreno del controllo dei
processi decisionali che si giocherà la partita in futuro. Ma non è
solo questo. Le tecnologie, infatti, sono un prodotto umano, e il
loro utilizzo nella direzione del progresso, oppure del controllo
sociale e della limitazione delle libertà, si gioca su un terreno
più profondo, che prima di essere politico è antropologico e
culturale.
Oltre
la struttura economica, infatti, ogni periodo storico ha una sua
consapevolezza, diciamo un “senso comune”, che lo definisce. Il
modello keynesiano, cui spesso si fa riferimento, non era solo un
modello di politica economica che comprendeva il ruolo attivo dello
Stato e il coinvolgimento delle parti sociali: esso prometteva
consumi di massa e benessere per tutti, e attorno a questo costruiva
la sua egemonia culturale. Oggi prevale l’ideologia
dell’individualismo, cioè l’idea thatcheriana che “la società
non esiste” ma contano solo gli individui nei loro rapporti di
mercato.
Nel
suo volume Postcapitalismo, Paul Mason si chiede “come gli
esseri umani debbano cambiare affinché una società post
capitalistica possa affermarsi”. Questa è in effetti la domanda
centrale: quale dovrà essere il senso comune di una società che
sfrutta pienamente le potenzialità dell’economia
dell’informazione? È anzitutto evidente che la combinazione tra le
trasformazioni generate da questi cambiamenti tecnologici e il
riferimento a una teoria - la teoria neoclassica - vecchia di oltre
centocinquant’anni, ha già generato abbastanza sofferenza sociale.
Ma, oltre la critica a quella teoria, è necessario che se ne
demolisca il presupposto antropologico, cioè il riferimento all’uomo
economico. Per riprendere il titolo di una sessione di lavoro del
recente convegno all’Aula Magna dell’Università di Roma (Ricerca
sulla verità della nascita umana. 40 anni di Analisi collettiva,
L’Asino d’oro edizioni, Roma 2016), un’economia post
capitalistica dovrà dunque essere Un’economia senza uomo
economico. Come osservato in precedenza, infatti, informazione,
tecnologia e scienza sono beni pubblici, beni cioè per i quali
l’accesso di un singolo individuo non esclude che sia possibile
l’accesso anche per altri. Il loro uso, in sostanza, è un uso
collettivo. Le stesse tecnologie dell’informazione, inoltre, hanno
potuto svilupparsi usufruendo della formazione dei ricercatori, di
fondi pubblici per la ricerca e della diffusione della cultura
scientifica in genere. Se da un lato l’esproprio a favore di pochi
è dunque anche per questo particolarmente odioso, dall’altro la
potenzialità di questa economia possono pienamente svilupparsi se,
oltre l’uomo economico che agisce in modo razionale massimizzando
il proprio benessere individuale, si afferma un’idea di
realizzazione personale e collettiva che, superato il piano della
soddisfazione dei bisogni (del benessere fisico del corpo), comprenda
quello della realizzazione delle esigenze. Quest’ultimo è peraltro
il terreno sul quale si dispiega pienamente la socialità umana, dove
la realizzazione di ciascuno - umana, culturale, artistica,
scientifica o professionale che sia - non avviene a discapito ma si
associa a quella degli altri. Possono affermarsi scienza e cultura in
senso genuino, infatti, solo nella prospettiva della realizzazione
umana di chi quella scoperta e quella dimensione culturale possiede,
come anche di chi ne usufruisce.
Realizzazione
delle esigenze, “beni pubblici” e sviluppo dell’economia basato
sulla diffusione della conoscenza hanno dunque un terreno in comune
dove non valgono il riferimento a un benessere misurabile con i
prezzi di mercato, i criteri di calcolo razionale, o la logica dello
sfruttamento del lavoro e della creatività altrui. Alla luce dei
rapporti economici, sociali e politici odierni, immaginare una
società basata sulla realizzazione delle esigenze appare
indubbiamente come un’utopia. Questa però è un’utopia da
perseguire per evitare che le enormi potenzialità delle nuove
tecnologie si ritorcano contro il benessere e la libertà di tutti.